Giachet' di Luigi bertorelliLo chiamavano così a volte i più grandi ma non per la giacchetta più larga o più corta, portata prima dai fratelli, come usava a quei tempi.
Giachet' stava invece a significare simpatico monello, nel gergo locale,, che poi era un piccolo paese delle Langhe, disteso su una collina come un lenzuolo deformato dal vento nel mentre si asciuga al sole. Ora quel termine gli tornava alla mente. Seduto su una grossa pietra ripensava a quel tempo di bambino, in mente ricordi belli altre volte brutti, ma non più così irrompenti perché ora levigati dal tempo, non gli impedivano però un angoscia al cuore nel riviverli con il pensiero, nel mentre quelli belli sapevano strappargli un nostalgico sorriso. Quella pietra sulla quale al pascolo con gli amichetti veniva disegnato una tela per giocare con dei “giaret” (pietruzze) colorate. Era la “dama” di allora.. Da li si poteva vedere tutto il paese, i luoghi dove aveva passato l'infanzia, i sentieri, la casa, il cimitero. Quanto tempo era passato di preciso, sul momento gli sfuggiva. Molti anni si, tanti… molte cose però sembravano essere successe solo ieri, tanto erano vive nella memoria. Guardando la strada che andava verso l’alto, al cimitero, gli tornò in mente quel triste giorno.. Ricordava che qualche giornata prima la mamma era tornata dalla spesa in paese con lo sguardo teso e triste, con dolore e con stento alla fine ebbe a dire: in paese è morto un bambino..! Disse il nome che lui ora non ricordava. Tutti i presenti rimasero gelati dalla notizia, poi incominciarono le domande, il perchè e il per come… Lui stette zitto e un po’ spaventato, osservava attento le espressioni di tutti, dentro gli saliva l’ansia, anche se non si rendeva ben conto della tragedia capitata. Giachet' era coetaneo dei suoi fratellini, giocavano assieme la domenica dopo la messa e assieme andavano a scuola e catechismo, erano molto amici ed anche le loro famiglie lo erano. In paese erano amici tutti, solo alcuni parenti non lo erano per ragioni di interesse. Anche pochi cm di terra, un muro o un sentiero erano motivo per dei litigi tra fratelli, la vita in quei posti era grama e tutto andava sfruttato al meglio, anche una giva (zolla) contava. Immaginò allora se fosse stato lui a morire, la disperazione della mamma e tutti gli altri che avrebbero pianto per lui… Stranamente questa cosa gli faceva quasi piacere perché avrebbe avuto l’attenzione di tutti e si sarebbe sentito finalmente importante. Alla sera quando papà e mamma andarono al rosario del bambino, anche lui avrebbe voluto esserci a curiosare, capire cosa succedeva, ma la mamma fu irremovibile e gli promise solo che lo avrebbe portato al funerale e a servire messa. La nonna quella sera era triste ma fece in modo di consolarlo stendendo sulla piastra della stufa qualche manciata di castagne ad arrostire, che gli piacevano tanto, il nonno invece aveva già provveduto con un bel fiasco di vino per innaffiare, ogni occasione era buona per berci un bicchiere sopra e due castagne erano l’ideale… questi però si sarebbero aggiunti a quelli del giorno che poi lo spingevano a raccontare delle sue vicende della guerra, la grande guerra che a quel giachet’ affascinavano molto, pur nella tragedia di quegli eventi. Seppe di obici e mortai, muli e capelli gelati attaccati al ghiaccio delle trincee, dormendo, di una ferita al fianco causata da una scheggia che lo aveva trafitto da parte a parte, piangeva infine. Giachet non capiva bene perché quel mitico uomo potesse piangere solo al ricordo. In altra occasione la nonna non gli avrebbe permesso di bere ancora, ma quella volta scrollò soltanto un po’ la testa non osando interrompere quella tragica storia. Venne il giorno del funerale e quel dì Giachet’ aveva immaginato che la mamma del bimbo si sarebbe disperata, pianto, chiamato e abbracciato il piccolo per farlo rivivere. Lei invece non fece nulla, entrò in chiesa dietro la cassa chiara con un velo nero in testa, il vestito scuro e a capo chino, come a vergognarsi davanti a tanta gente di ciò che era successo e così si comportò fino al cimitero, solo ogni tanto estraeva da una manica un fazzolettino bianco e lo portava delicatamente al viso. Giachet’ ci restò molto male, non gli pareva possibile! Pensò a cosa avrebbe fatto la sua di mamma, sicuramente non lo avrebbe mai lasciato la da solo in quel posto freddo e buio, oppure.. oppure no...? Questo dubbio lo risvegliò dal torpore e pensò che forse era meglio non provare. Solo in seguito ebbe modo di capire che in quella Langa difficile di famiglie numerose e povere, la vita e la morte erano legge della natura e del destino come lo erano l’estate e l’inverno e che quei langhesi conoscevano bene. Venivano accettate con rassegnazione ancor più che la morte di un animale, specie di un bue o di una mucca… il motivo era semplice, queste ultime contribuivano a sfamare l’intera famiglia. U’ l’era veg! Oppure, i na faran i n’otr’ se era un piccolo, ma la vita normale continuava presto, non era consentito fermarsi troppo a pensare, solo la sua mamma avrebbe portato per sempre e in silenzio dentro di se quel dolore. Si passò la mano sugli occhi come a cancellare quel ricordo, ora vedeva il grande campo, quello che ad ararlo non finiva mai, lui che guidava i buoi nel solco tenendoli “au cavestr” e gli animali che gli facevano molta pena procedevano incurvati alla pressione deu” zùvu” (giogo) agganciato all’aratro che solcava la terra. Loro pativano sicuramente più di lui quella vita meschina! Pensò. Questo lo consolava nel mentre li incoraggiava a raggiungere “ra cauzagna” il margine del campo dove si giravano le bestie e anche l’aratro. Il tempo di sosta era poco ma sufficiente per strappare qualche foglia o manciata d’erba da infiltrare tra le maglie del “bucò” (museruola) che i buoi avidi slinguavano per ingoiare. Gradivano molto foglie verdi ed erba fresca ma non bisognava esagerare perché il fieno non secco poteva disturbare l’intestino indebolendoli. I tafani non davano tregua alle povere bestie, pungendole numerosi attorno al collo. Odiava quegli insetti assetati di sangue e ne distruggeva più che poteva con il bastoncino che serviva a comandare gli animali, la vista del sangue che colava dai fori delle punture lo rendevano anche crudele, quando riusciva a prenderne uno vivo dalla rabbia lo trafiggeva con uno stelo rigido d’erba e poi lo lanciava a volare via, ben sapendo che il suo volo sarebbe stato breve, ma a suo parere era ciò che meritavano. Giachet’ u’ lè tordi! Dajie na bota! Si, era tardi, anche ora lo era… il richiamo gli tornò in mente perentorio. Il tempo era volato sui suoi ricordi. Si alzò e guardandosi in giro pensò che sicuramente sarebbe ritornato a respirare un po’ d’aria pulita della sua infanzia, seduto sulla grande pietra la in alto. LUIGI BERTORELLI |
BȒINDEUȒ E MEDIATOȒ
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