LIGIU DA SËRVITÙ di Eligio Murialdo
Lìgiu và “da sërvitù”. Al pascolo con la capra beffarda. Dies irae. Notti di tregenda nel fienile con Luisìn.
LIGIU VA DA SERVITÙ
Tutti i fratelli di Cà di Granarèt andarono “da sërvitù” appena finita la scuola elementare, all’età di circa 10 anni.
Si affittavano i bambini a chi ne avesse bisogno, in genere a famiglie che avevano pochi figli e bisognavano di braccia per far andare la terra. In questo modo si otteneva un piccolo introito economico (100 lire l’anno) ed una bocca in meno da sfamare.
Noi Granarèt, non ci portarono al mercato dei bambini di Saluzzo o a quello, famoso, di Barcellonette, in Francia (ne parla Nuto Revelli ne “Il mondo dei vinti” e ne “L’anello forte” n.d.r).
A Niella e Gorzegno arrivava invece tutti gli anni, prima di Natale, un “negussiant” di Bastia Mondovi, che veniva a scegliere i bambini da affittare. Veniva a “gisté da sërvitù”: mettere d’accordo per far andare “da servitore”.
Le famiglie del monregalese avevano mediamente meno figli delle nostre e cascine più grandi, quindi maggior necessità di manovalanza.
Generalmente si partiva dopo Natale e si tornava per il Natale successivo ed in un anno ti lasciavano tornare a casa solo per qualche giorno.
Tutti quanti noi, otto fratelli, chi prima chi dopo, andò “da servitù”, cosicché a casa non c’eravamo mai tutti, rimanevano solo i più piccoli che ancora andavano a scuola alla Niella, sobbarcandosi, tutti i giorni un’ora e mezza andare e altrettanta a tornare a casa.
Alla fine della V elementare venne il mio turno ma , siccome ero bravo a scuola, la maestra convinse mia madre Laurina a farmi andare ancora a scuola per due mesi. Fosse stato per lei, mi avrebbe fatto rifare un’altra volta la quinta perché, essendo una pluriclasse con tanti bambini, la maestra mi utilizzava come suo aiutante per accudire i più piccoli.
Ma a marzo finalmente partii anch’io “da sërvitù”. Fortunatamente non andai lontano, ma fui affidato, a Niella, alla famiglia di Ninu ‘d Ghìta, composta dal padre, Ninu, Ghita, la madre e due bambine piccole. Abitavano in una cascina sotto il paese , sul versante del Belbo.
I lavori di campagna erano duri ma mi trattavano bene. Aiutavo nei campi Ninu a tagliare il fieno, a seminare, condurre i buoi davanti all’aratro: erano buoi giovani, ancora da farsi, difficili da governare , davano certi strattoni da farmi cader per terra.
Andavo al pascolo, “a scheu” (ad Alba dicevano invece “andè ën pastüra”), portandomi dietro una manza giovane, una quindicina di pecore ed una capra pazza di cui vi dirò: le bestie mi scappavano da tutte le parti ed io, col terrore di perderle, correvo loro dietro tutto il giorno.
Cosicché tornato a casa alla sera, stanco morto, ciondolavo dal sonno e quasi mi cadeva la testa nel piatto di minestra.
Proprio allora succedeva, tutte le sere, che le due bambine piccole, mi saltassero sulle ginocchia, una per parte e frignando mi dicessero “Cùnta na quinta, cùnta na quinta! racconta una storia”. Purtroppo avevano preso quel vizio già con i ragazzi che mi avevano preceduto a servizio e non riuscivo mai a sottrarmi.
Allora Ninu diceva “Ma lassèȓu sté, vughivi nain ch’u ȓ’à sogn, ës matot!” - “ma lasciatelo stare ‘sto ragazzo, non vedete che ha sonno” - e Ghita invece: “Ma làssa ch’u cunta na quinta!”- “ma lascia che conti una storia”
Lei purtroppo dava sempre ragione alle bambine.
Non so cosa raccontassi loro, raccontavo le storie che avevo sentito dai vecchi, quelle che contavano la sera, quando si andava “a vijè”. Mi ricordo che mi piaceva terrorizzarle anche con la storia di Pollicino, dei bambini abbandonati nel bosco dai genitori e finiti nella casa dell’orco, oppure la storia del Gatto con gli stivali, insomma quelle storie lì.
Finivo sempre di raccontare tutte le sere la stessa storia, ma le bambine rimanevano lì, col fiato sospeso, con gli occhi che brillavano, immancabilmente incantate.
LIGIU al pascolo (a scheu) con la capra indiavolata (II parte)
Al pascolo mi stancavo tantissimo per tenere a bada, senza che mi scappassero da tutte le parti le quindici pecore, la giovane manza e l’unica capra.
Questa capra , Ninu ‘d Ghita, l’aveva affittata da una vecchia che abitava giù in basso nella valle, dall’altra parte del Belbo, per avere tutti i giorni del latte da dare alle bambine.
Purtroppo la vecchia, che viveva da sola ed un po’ con la fama di masca, aveva viziato la capra, dandole ogni tanto un tozzo di pane, o del sale o qualche altro bocconcino, per cui l’animale, appena giravo lo sguardo, tentava la fuga, giù per i campi, le vigne e i boschi in direzione del Belbo per tornare da lei. Diverse volte la persi e la cercai trafelato, sempre ritrovandola alla fine dalla vecchia padrona, la quale, immancabilmente continuava a viziarla con qualcosa di buono parlandole con il birignao lezioso con cui ci si rivolgeva allora ai bambini.
Ad un certo punto mi decisi per una soluzione drastica portando al pascolo un “pà ‘d fèr” ed una lunga catena . Legavo la capra alla catena e piantavo il palo di ferro al centro delle radure erbose.
La capra poteva mangiare a volontà, ma non poteva più scappare.
Quando andavo a riprenderla la capra, maligna, mi guardava con sfida, e correndomi attorno mi falciava con la catena facendomi immancabilmente ruzzolare per terra. Poi s’avvicinava, e scrutandomi dall’alto, con le sue pupille barrate, mostrava i denti: sembrava che ridesse!
Per quello dico che le capre sono un po’ diaboliche, sono animali che ai Granarèt non abbiamo mai voluto tenere.
Persino un versetto del Dies Irae recita:
“Inter oves locum paesta
et ab haedis me sequestra,
statuens in parte dextra:
Assicurami un posto tra le pecorelle e tienimi lontano dai caproni, ponendomi alla tua destra””
LIGIU da servitù (III parte): dormendo “an sra fnèra “
I primi tempi che mi trovavo “da servitù” mi fu data una cameretta dove dormire ma, dopo un po’ Ninu, il padrone, si decise di ampliare la cascina e chiamò i muratori per iniziare la sopraelevazione proprio della mia camera con l’aggiunta di un'altra parte di caseggiato.
Furono chiamati tre uomini che ben conoscevo, essendo i nostri vicini di casa Granarèt: Lice e Guido del Pul con il loro padre Luisin. A quel tempo, oltre a condurre la campagna, tutti sapevano fare di tutto e loro erano anche bravi muratori. (Anche noi ci eravamo costruita la “Cà neuva” ai Granarèt, vicino a quella vecchia).
Le case si facevano soprattutto in pietra d’arenaria.
Le pietre si toglievano dai campi, certe volte anche facendole saltare con l’esplosivo, venivano poi fatte rotolare giù dai bricchi fin sulle strade, poi venivano caricate sul carro e portate a casa. Quando ce n’erano abbastanza s’iniziava a costruire.
Lice e Guido erano giovani, Luisin, loro padre, aveva allora già sui 75 anni, ma ormai sdentato, come tutti a quei tempi, sembrava un vecchio pur essendo un uomo ancora pieno di vigore.
Dovendo iniziare i lavori persi la possibilità di dormire nella mia cameretta, mi diedero una coperta e per un bel po’ di tempo andai a letto sul fienile della cascina. Dormire in mezzo al fieno, dietro le arcate della cascina, non era niente male, a parte la polvere e gli starnuti, e non faceva nemmeno freddo, tanto più che ormai s’andava nella bella stagione. Io mi ero scelto un bel giaciglio da dove, aprendo gli occhi, dominavo l’aia e la valle sottostante.
Lice e Guido, i figli, tutte le sere se ne tornavano a dormire a casa mentre il padre, Luisin, che non aveva voglia di farsi tutta quella strada a piedi ogni giorno, decise anche lui di dormire con me “an sa fnera”.
Devo dire che fin dall’inizio la cosa mi diede fastidio perché consideravo il fienile ormai come mio territorio personale.
Luisin dormiva da una parte ed io ben distante, dall’altra. Stanco morto la sera m’addormentavo sempre come un sasso mentre lui ci metteva sempre un po’ ed aveva il sonno leggero.
Il fatto è che ormai s’andava nella stagione dei temporali e dormire in un fienile sotto un’acquazzone notturno con pioggia a catinelle, grandine a tratti, vento impetuoso, fulmini e tuoni non era mai una bella esperienza.
Quando venivano queste tempeste notturne Luisin s’agitava, incavolato, soprattutto per le folate di vento e le secchiate d’acqua che gli arrivavano addosso ed incominciava a dire forte “Sì u pieuv! Crispa!, Vùgti nèn ch’u pieuv?” (Ma qui piove! Non vedi che piove?) e incominciava a spostarsi da una parte e dall’altra bestemmiando “Urraddìe, u pieuv!” . Mentre io me la dormivo della grossa oppure, svegliato dalle sue proteste, facevo finta di niente.
Lui ad un certo punto vedeva che rimanevo immobile e si spostava dalla mia parte, pensandola più protetta, e mi finiva addosso, imprecando ancora “Giuramèntu, urraddìe ma u pieuv dërco sì!!!. (Urraddie, ma piove anche qui!)
A questo punto , non sopportandolo così vicino, mi mettevo a scalciarlo dicendogli “ E su pieuv, làssa ch’u pieuva! E stà luntàn!!!” (E se piove, lascia che piova, e stai lontano!)
Ero giovane ma, come si direbbe adesso, già geloso della mia privacy.
ELIGIO MURIALDO
(Trascritto da Giampiero M. con la supervisione di Primo Culasso)
LIGIU VA DA SERVITÙ
Tutti i fratelli di Cà di Granarèt andarono “da sërvitù” appena finita la scuola elementare, all’età di circa 10 anni.
Si affittavano i bambini a chi ne avesse bisogno, in genere a famiglie che avevano pochi figli e bisognavano di braccia per far andare la terra. In questo modo si otteneva un piccolo introito economico (100 lire l’anno) ed una bocca in meno da sfamare.
Noi Granarèt, non ci portarono al mercato dei bambini di Saluzzo o a quello, famoso, di Barcellonette, in Francia (ne parla Nuto Revelli ne “Il mondo dei vinti” e ne “L’anello forte” n.d.r).
A Niella e Gorzegno arrivava invece tutti gli anni, prima di Natale, un “negussiant” di Bastia Mondovi, che veniva a scegliere i bambini da affittare. Veniva a “gisté da sërvitù”: mettere d’accordo per far andare “da servitore”.
Le famiglie del monregalese avevano mediamente meno figli delle nostre e cascine più grandi, quindi maggior necessità di manovalanza.
Generalmente si partiva dopo Natale e si tornava per il Natale successivo ed in un anno ti lasciavano tornare a casa solo per qualche giorno.
Tutti quanti noi, otto fratelli, chi prima chi dopo, andò “da servitù”, cosicché a casa non c’eravamo mai tutti, rimanevano solo i più piccoli che ancora andavano a scuola alla Niella, sobbarcandosi, tutti i giorni un’ora e mezza andare e altrettanta a tornare a casa.
Alla fine della V elementare venne il mio turno ma , siccome ero bravo a scuola, la maestra convinse mia madre Laurina a farmi andare ancora a scuola per due mesi. Fosse stato per lei, mi avrebbe fatto rifare un’altra volta la quinta perché, essendo una pluriclasse con tanti bambini, la maestra mi utilizzava come suo aiutante per accudire i più piccoli.
Ma a marzo finalmente partii anch’io “da sërvitù”. Fortunatamente non andai lontano, ma fui affidato, a Niella, alla famiglia di Ninu ‘d Ghìta, composta dal padre, Ninu, Ghita, la madre e due bambine piccole. Abitavano in una cascina sotto il paese , sul versante del Belbo.
I lavori di campagna erano duri ma mi trattavano bene. Aiutavo nei campi Ninu a tagliare il fieno, a seminare, condurre i buoi davanti all’aratro: erano buoi giovani, ancora da farsi, difficili da governare , davano certi strattoni da farmi cader per terra.
Andavo al pascolo, “a scheu” (ad Alba dicevano invece “andè ën pastüra”), portandomi dietro una manza giovane, una quindicina di pecore ed una capra pazza di cui vi dirò: le bestie mi scappavano da tutte le parti ed io, col terrore di perderle, correvo loro dietro tutto il giorno.
Cosicché tornato a casa alla sera, stanco morto, ciondolavo dal sonno e quasi mi cadeva la testa nel piatto di minestra.
Proprio allora succedeva, tutte le sere, che le due bambine piccole, mi saltassero sulle ginocchia, una per parte e frignando mi dicessero “Cùnta na quinta, cùnta na quinta! racconta una storia”. Purtroppo avevano preso quel vizio già con i ragazzi che mi avevano preceduto a servizio e non riuscivo mai a sottrarmi.
Allora Ninu diceva “Ma lassèȓu sté, vughivi nain ch’u ȓ’à sogn, ës matot!” - “ma lasciatelo stare ‘sto ragazzo, non vedete che ha sonno” - e Ghita invece: “Ma làssa ch’u cunta na quinta!”- “ma lascia che conti una storia”
Lei purtroppo dava sempre ragione alle bambine.
Non so cosa raccontassi loro, raccontavo le storie che avevo sentito dai vecchi, quelle che contavano la sera, quando si andava “a vijè”. Mi ricordo che mi piaceva terrorizzarle anche con la storia di Pollicino, dei bambini abbandonati nel bosco dai genitori e finiti nella casa dell’orco, oppure la storia del Gatto con gli stivali, insomma quelle storie lì.
Finivo sempre di raccontare tutte le sere la stessa storia, ma le bambine rimanevano lì, col fiato sospeso, con gli occhi che brillavano, immancabilmente incantate.
LIGIU al pascolo (a scheu) con la capra indiavolata (II parte)
Al pascolo mi stancavo tantissimo per tenere a bada, senza che mi scappassero da tutte le parti le quindici pecore, la giovane manza e l’unica capra.
Questa capra , Ninu ‘d Ghita, l’aveva affittata da una vecchia che abitava giù in basso nella valle, dall’altra parte del Belbo, per avere tutti i giorni del latte da dare alle bambine.
Purtroppo la vecchia, che viveva da sola ed un po’ con la fama di masca, aveva viziato la capra, dandole ogni tanto un tozzo di pane, o del sale o qualche altro bocconcino, per cui l’animale, appena giravo lo sguardo, tentava la fuga, giù per i campi, le vigne e i boschi in direzione del Belbo per tornare da lei. Diverse volte la persi e la cercai trafelato, sempre ritrovandola alla fine dalla vecchia padrona, la quale, immancabilmente continuava a viziarla con qualcosa di buono parlandole con il birignao lezioso con cui ci si rivolgeva allora ai bambini.
Ad un certo punto mi decisi per una soluzione drastica portando al pascolo un “pà ‘d fèr” ed una lunga catena . Legavo la capra alla catena e piantavo il palo di ferro al centro delle radure erbose.
La capra poteva mangiare a volontà, ma non poteva più scappare.
Quando andavo a riprenderla la capra, maligna, mi guardava con sfida, e correndomi attorno mi falciava con la catena facendomi immancabilmente ruzzolare per terra. Poi s’avvicinava, e scrutandomi dall’alto, con le sue pupille barrate, mostrava i denti: sembrava che ridesse!
Per quello dico che le capre sono un po’ diaboliche, sono animali che ai Granarèt non abbiamo mai voluto tenere.
Persino un versetto del Dies Irae recita:
“Inter oves locum paesta
et ab haedis me sequestra,
statuens in parte dextra:
Assicurami un posto tra le pecorelle e tienimi lontano dai caproni, ponendomi alla tua destra””
LIGIU da servitù (III parte): dormendo “an sra fnèra “
I primi tempi che mi trovavo “da servitù” mi fu data una cameretta dove dormire ma, dopo un po’ Ninu, il padrone, si decise di ampliare la cascina e chiamò i muratori per iniziare la sopraelevazione proprio della mia camera con l’aggiunta di un'altra parte di caseggiato.
Furono chiamati tre uomini che ben conoscevo, essendo i nostri vicini di casa Granarèt: Lice e Guido del Pul con il loro padre Luisin. A quel tempo, oltre a condurre la campagna, tutti sapevano fare di tutto e loro erano anche bravi muratori. (Anche noi ci eravamo costruita la “Cà neuva” ai Granarèt, vicino a quella vecchia).
Le case si facevano soprattutto in pietra d’arenaria.
Le pietre si toglievano dai campi, certe volte anche facendole saltare con l’esplosivo, venivano poi fatte rotolare giù dai bricchi fin sulle strade, poi venivano caricate sul carro e portate a casa. Quando ce n’erano abbastanza s’iniziava a costruire.
Lice e Guido erano giovani, Luisin, loro padre, aveva allora già sui 75 anni, ma ormai sdentato, come tutti a quei tempi, sembrava un vecchio pur essendo un uomo ancora pieno di vigore.
Dovendo iniziare i lavori persi la possibilità di dormire nella mia cameretta, mi diedero una coperta e per un bel po’ di tempo andai a letto sul fienile della cascina. Dormire in mezzo al fieno, dietro le arcate della cascina, non era niente male, a parte la polvere e gli starnuti, e non faceva nemmeno freddo, tanto più che ormai s’andava nella bella stagione. Io mi ero scelto un bel giaciglio da dove, aprendo gli occhi, dominavo l’aia e la valle sottostante.
Lice e Guido, i figli, tutte le sere se ne tornavano a dormire a casa mentre il padre, Luisin, che non aveva voglia di farsi tutta quella strada a piedi ogni giorno, decise anche lui di dormire con me “an sa fnera”.
Devo dire che fin dall’inizio la cosa mi diede fastidio perché consideravo il fienile ormai come mio territorio personale.
Luisin dormiva da una parte ed io ben distante, dall’altra. Stanco morto la sera m’addormentavo sempre come un sasso mentre lui ci metteva sempre un po’ ed aveva il sonno leggero.
Il fatto è che ormai s’andava nella stagione dei temporali e dormire in un fienile sotto un’acquazzone notturno con pioggia a catinelle, grandine a tratti, vento impetuoso, fulmini e tuoni non era mai una bella esperienza.
Quando venivano queste tempeste notturne Luisin s’agitava, incavolato, soprattutto per le folate di vento e le secchiate d’acqua che gli arrivavano addosso ed incominciava a dire forte “Sì u pieuv! Crispa!, Vùgti nèn ch’u pieuv?” (Ma qui piove! Non vedi che piove?) e incominciava a spostarsi da una parte e dall’altra bestemmiando “Urraddìe, u pieuv!” . Mentre io me la dormivo della grossa oppure, svegliato dalle sue proteste, facevo finta di niente.
Lui ad un certo punto vedeva che rimanevo immobile e si spostava dalla mia parte, pensandola più protetta, e mi finiva addosso, imprecando ancora “Giuramèntu, urraddìe ma u pieuv dërco sì!!!. (Urraddie, ma piove anche qui!)
A questo punto , non sopportandolo così vicino, mi mettevo a scalciarlo dicendogli “ E su pieuv, làssa ch’u pieuva! E stà luntàn!!!” (E se piove, lascia che piova, e stai lontano!)
Ero giovane ma, come si direbbe adesso, già geloso della mia privacy.
ELIGIO MURIALDO
(Trascritto da Giampiero M. con la supervisione di Primo Culasso)