La guerra della remota maestrina. Memoria di Maria Maddalena Moschetti
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Legna, lumi e fionde a Bruceto
Ricordo con simpatia tutta la gente di Bruceto: semplice, laboriosa, timorata di Dio. C’erano dei personaggi caratteristici tipo Pasqualot, il marito di Anselmina. Citava sempre detti e proverbi, scherzando con motti arguti. Quando nevicava di notte, anche prima di aprire gli occhi sentivo una pala che raschiava la neve sotto il porticato. Era lui, Pasqualot, che mi dava a suo modo il buongiorno, avvisandomi della nevicata. Quando era ora di aprire l’aula, la sua pala aveva già aperto il passaggio nella neve e l’accesso alla scuola era sgombro. Era il suo omaggio alla scuola: nessuno lo pagava né lo ringraziava, ma lui faceva sempre diligentemente questo servizio. Ricordo anche Dino, poco più di un ragazzo, che si era un po’ invaghito di me e mi procurava l’acqua. Andava a prenderla con un secchiello da una fontana abbastanza distante dalla scuola e mi risparmiava tempo e fatica. Talvolta mi preparava anche la legna.
A proposito di legna. Quella per il riscaldamento dell’aula e della mia camera non la metteva il Comune. Ogni alunno, venendo a scuola, oltre alla cartella portava da casa un pezzo di legna da ardere. Gli alunni erano una cinquantina e perciò bastava. Se uno per caso se ne dimenticava, nessun problema: saltava in una vigna, sradicava un palo e così armato arrivava a scuola. La cosa in sé era buffa, senonché a primavera i genitori dovevano sostituire i pali mancanti nelle vigne. Per accendere la stufa si usavano invece le pigne secche raccolte nella pineta che c’era sulla sommità della collina.
C’erano anche dei tipi simpatici tra gli alunni. Ne ricordo uno allampanato, che viveva con la madre e dei fratelli, ma aveva il papà in guerra. Si assentava spesso da scuola e io, pur sapendo che restava a casa per aiutare la mamma nei lavori dei campi, lo esortavo a non mancare tanto. Quando tornava dopo un giorno di assenza, mi consegnava un uovo di gallina. Se stava via due giorni, me ne portava due, e così via. Io non volevo accettarli, ma lui me li posava sulla cattedra e non sentiva ragione. La sua era una famiglia povera e mi dispiaceva che si privassero di quelle uova. Ma per lui erano un modo di farsi perdonare le assenze. La maestra che mi aveva preceduto aveva riempito un armadio di fionde che sequestrava agli alunni, e di conocchie e fusi che le bimbe usavano durante le lezioni. Pian piano ho fatto sparire le fionde e non ne sono più ricomparse.
Ricordo con simpatia tutta la gente di Bruceto: semplice, laboriosa, timorata di Dio. C’erano dei personaggi caratteristici tipo Pasqualot, il marito di Anselmina. Citava sempre detti e proverbi, scherzando con motti arguti. Quando nevicava di notte, anche prima di aprire gli occhi sentivo una pala che raschiava la neve sotto il porticato. Era lui, Pasqualot, che mi dava a suo modo il buongiorno, avvisandomi della nevicata. Quando era ora di aprire l’aula, la sua pala aveva già aperto il passaggio nella neve e l’accesso alla scuola era sgombro. Era il suo omaggio alla scuola: nessuno lo pagava né lo ringraziava, ma lui faceva sempre diligentemente questo servizio. Ricordo anche Dino, poco più di un ragazzo, che si era un po’ invaghito di me e mi procurava l’acqua. Andava a prenderla con un secchiello da una fontana abbastanza distante dalla scuola e mi risparmiava tempo e fatica. Talvolta mi preparava anche la legna.
A proposito di legna. Quella per il riscaldamento dell’aula e della mia camera non la metteva il Comune. Ogni alunno, venendo a scuola, oltre alla cartella portava da casa un pezzo di legna da ardere. Gli alunni erano una cinquantina e perciò bastava. Se uno per caso se ne dimenticava, nessun problema: saltava in una vigna, sradicava un palo e così armato arrivava a scuola. La cosa in sé era buffa, senonché a primavera i genitori dovevano sostituire i pali mancanti nelle vigne. Per accendere la stufa si usavano invece le pigne secche raccolte nella pineta che c’era sulla sommità della collina.
C’erano anche dei tipi simpatici tra gli alunni. Ne ricordo uno allampanato, che viveva con la madre e dei fratelli, ma aveva il papà in guerra. Si assentava spesso da scuola e io, pur sapendo che restava a casa per aiutare la mamma nei lavori dei campi, lo esortavo a non mancare tanto. Quando tornava dopo un giorno di assenza, mi consegnava un uovo di gallina. Se stava via due giorni, me ne portava due, e così via. Io non volevo accettarli, ma lui me li posava sulla cattedra e non sentiva ragione. La sua era una famiglia povera e mi dispiaceva che si privassero di quelle uova. Ma per lui erano un modo di farsi perdonare le assenze. La maestra che mi aveva preceduto aveva riempito un armadio di fionde che sequestrava agli alunni, e di conocchie e fusi che le bimbe usavano durante le lezioni. Pian piano ho fatto sparire le fionde e non ne sono più ricomparse.
Io lì a Bruceto mi sentivo protetta. Durante l’inverno mi sono ammalata e in viso mi era venuta una specie di risipola. Ero tutta gonfia. Mi hanno mandato una donna che “segnava” questo tipo di male. Con la sua fede nuziale ha tracciato sul mio viso tanti segni, mentre pronunciava certe parole magiche. Io sono sempre stata incredula, tuttavia, dopo poco tempo, si è aperta una ferita e ne è uscito molto pus e sono guarita. L’inverno tra il 1944 e il 1945, comunque, passò abbastanza velocemente, anche se man- cava tutto, persino il filo da cucire. Io ero impegnata: metà delle classi al mattino e metà al pomeriggio, e poi correggere i compiti e preparare le lezioni. Veniva presto buio e non si poteva più nemmeno leggere, perché raramente riuscivo a illuminare la mia stanza con una candela. Sovente mi accontentavo di un lumino che galleggiava su un po’ d’olio. A casa mia ero abituata alla luce elettrica. Le altre case avevano lumi a petrolio o lampade ad acetilene, ma era necessario avere l’autorizzazione a procurarsi i combustibili. Per fortuna che quasi tutte le sere si andava a “vegliare” ora qua ora là, dove c’era più illuminazione. A primavera, con le giornate più lunghe, le mie accompagnatrici la sera erano stanche per i lavori dei campi e andavamo tutte a dormire presto.
Della guerra e degli avvenimenti del mondo sapevamo poco o nulla. Non c’era la radio, non arrivavano giornali; giungevano solo poche notizie, trasmesse a voce da chi si recava nel capoluogo. Ma un giorno di aprile, il 25, sentimmo da lassù le campane di Cortemilia suonare a distesa, a lungo, in modo inconsueto. E presto arrivò la notizia: la guerra era finita. Qualcuno rideva, qualcuno piangeva! Com’era bello pensare che gli incubi erano finiti! Ma quanti morti, quante distruzioni! Poco dopo finì anche l’anno scolastico e io lasciai Bruceto. |