Natàl 1946 aȓ Caplèt
Stòȓia d’ën bonòm: mi e j’eȓa na masnà, parloma ’d subit dòp ȓa guèra, më smija 1946.
Anloȓa ej favo fin-e. A Natàl me mama, a ȓ’ha bitame sota aȓ chissin 3 mandaȓin e ’n pugn ëd bischeucc, castàgnr bojije doe vòte. A San Stevo, a cà mia, ȓ’oma fa na vijà. J’eȓo na partija, tucc antorna a ȓa stiva ’d quatȓ piàsse. Pinton ën sȓa taula, ’n sȓa stiva fàvo rostì ’ȓ castàgne chije a ȓa Langa, cola ’d Fenoglio.
Iss pàrla dëȓ pu e dëȓ meno, ij dëscors bativo tant an sëȓ dëstorne (maleuȓ) e dësgȓassie balorde: dispers ën guara, nàde cròje, maȓatia dër bestie, gȓan, meȓia, pòche uve, pȓà, bòsch, fèje e tome, cȓàva pëȓ o làcc da colassion! Ancossè ch’i j’eȓa Gepo ch’o contàva cheich bàle!
A coi tamp là ij tratoȓ sàvo nen còsa ch’i fijsso, ’n campàgna e s’arangiàvo, ȓ’avo pòch ëd tut peȓò tut sëȓviva, iss tiȓava anans con ess pòch. A na certa miȓa cheicadun o tiȓa fòȓa o dëscors di bambin ëd Natàl. Lì j’eȓa mi sol, ȓ’heu dovu tiȓé fòra ij mandaȓin, 3 mandaȓin, chiàl-sì o j’eȓa ’ȓ pì fuȓb dȓa nià! Om fa: fanie aȓmeno tasté! Mi, bonòm ȓ’heu tacà a dësfisché, na fisca a testa, a ȓa fin do giȓ pëȓ mi j’è vansàje gnente. Son giȓàme vers ȓa miȓàgna, son bitàme a pianze! Ȓ’avȓia dovù fé finta ’d gnente, magàra biteme a grigné, ma zà anloȓa j’eȓa ‘n bonòm! Lo che ȓ’heu contà o ȓ’è pròpi capitàme a mi: Son ancoȓa sì!... bon Natàl a tucc!...
PRIMO CULASSO
I Natali della mia infanzia – indimenticabili ed indimenticati – si possono riassumere in poche parole: attesa, neve, preparativi.
Sicuramente sono simili a mille altri, però – come per le storie d’amore –chissà perché i propri sembrano sempre più…speciali!
Era la fine degli anni ’50.
L’attesa , quella “vera” iniziava verso metà dicembre, con la stesura della letterina, che mettevo poi sul davanzale della finestra di cucina, e la mattina dopo –sempre – non c’era più. Gesù Bambino l’aveva presa! I miei regali richiesti- pochi, non come oggi ! – forse sarebbero arrivati…
Un anno –avevo cinque anni ma sapevo già scrivere – chiesi a Gesù Bambino , senza che nessuno mi desse …l’imbeccata, di farmi avere l’autunno successivo, una certa maestra in prima elementare. Naturalmente mio padre la prese e gliela portò, molto fiero di me, e mi dissero che quella letterina particolare divenne famosa nel paese!
La ricerca dell’abete giusto era la seconda fase.
Mio nonno Ricu partiva una mattina col suo mantello di lana nero avvolto intorno al corpo, e con una grossa roncola che pendeva sul dietro dal cinghietto dei pantaloni di fustagno. Aspettavo dietro ai vetri con ansia; quando il nonno arrivava, c’era la valutazione: piccolo, grande, storto , pieno…ma si trovava sempre il modo di sistemarlo in modo da mostrare la sua…faccia migliore.
Io mi ritenevo fortunata, perché nella nostra cascina avevamo due cucine: una piccola ed essenziale al piano terra, più calda, per l’inverno. L’altra, al primo piano, grande e confortevole ma molto più fredda, per la bella stagione.
Qui, con ricchezza di particolari, tutta la famiglia allestiva il presepe, nel grande lavello, nascosto dal muschio. In una vasca, il lago “vero” con le anatrelle di plastica che si giravano sempre a pancia in su; monti, fiumi di stagnola, greggi e paesi.
Sulla montagna più alta veniva piantato l’abete, e sotto ad esso, io piazzavo il castello di Erode ed i Magi. Magari non era il posto giusto, ma c’erano, e li mettevamo!
Il presepe finito era di grande effetto. Io non mi sarei mai stancata di guardarlo, spostare una pecora, una casetta, girare le anatre rovesciate…ma faceva un freddo boia! Da geloni assicurati.
Sull’albero avevo belle palline di vetro multicolore, che nel tempo si sono rotte tutte. E’ per questo motivo che anche oggi non cedo all’albero TRENDY tutto rosso e oro, o blu e argento: il mio albero è ancora di tutti i colori come quelli della mia infanzia, e se le mie nipoti mi prendono in giro, pazienza!
Mio padre, quando per lavoro andava a Torino, mi portava scatoline di palline di cioccolato, che a Mango non sapevano neppure esistessero, e le appendevamo con le altre.
Non ne ho mai mangiata una! Il nostro gatto soriano ogni notte riusciva ad entrare , saliva ed attraversava il presepe con ingenti danni, e ne mangiava una. La mattina dopo trovavamo lo spaghetto che pendeva , e basta. Ma lo perdonavamo sempre!
La sera della vigilia avevo il permesso speciale di andare a dormire nel lettone dei nonni, alto, ma così alto, che se fossi mai caduta mi sarei rotta l’osso del collo. Il nonno , dopo avere tolto il “frate” con la brace ancora calda, mi faceva posto ed io gli dicevo:- Ricordati di lasciare aperta mezza persiana, stasera lo voglio proprio vedere, Gesù Bambino.
E così faceva.
Intanto arrivava anche la nonna col suo camicione felpato: io mi stringevo a loro ed ero assolutamente felice. Bisognava stare zitti! Nel buio spiavamo quel riquadro di cielo scuro, per vedere se qualche lucina si muovesse, ma niente. Tutto fermo.
Non so perché, ma mi addormentavo sempre un momento prima che Gesù Bambino entrasse nella stanza!
La mattina dopo, i regali erano lì, proprio quelli richiesti, e spesso uno in più a sorpresa… Il cavallo a dondolo, i pentolini, il mio primo bambolotto Franco, di cartapesta, la Tombola, ma soprattutto libri!!!! Libri!!! Com’era buono, Gesù Bambino! Mi accontentava sempre.
Un anno, avrò avuto sette-otto anni, avevo fatto parecchi capricci e combinato parecchi guai; genitori e nonni mi minacciarono più volte di…andare in bianco coi regali. Chi ci credeva? Gesù Bambino , se è vero che era buono, mi avrebbe certo perdonato tutto! La mattina di Natale, solito salto all’alba giù dal lettone dei nonni, ma…il NULLA!
No, Gesù Bambino non poteva avermi fatto questo… Subito credetti che i regali fossero nella camera da letto a fianco: niente. C’era però una lettera, scritta a macchina , Olivetti lettera 22 ( si vede che in Paradiso usano quella...) .
Gesù mi diceva che era dispiaciuto, ma non meritavo nulla…chissà il prossimo anno, se mi fossi comportata meglio.
Ricordo ancora, come se fosse ieri, l’umiliazione profonda, ed il dolore che mi faceva male al petto.
Riuscii a non piangere , ma la gola mi bruciava dalle lacrime trattenute. Non volevo neppure andare a Messa, ma la cosa non si discuteva….il giorno di Natale???
In piazza, davanti alla Chiesa, le mie amichette, i mei compagni di scuola mi corsero incontro ,gridando:- Che cosa ti ha portato?
Non potevo mentire; risposi. –Niente.
Credo sia stato uno dei momenti più difficili della mia infanzia. Ma la lezione è servita.
Ultima: La neve. La neve è caduta , se non sempre, spesso, la sera della Vigilia.
Con il cuore che batteva forte dall'emozione, uscivo nel cortile e raccoglievo con la bocca spalancata i primi fiocchi che sfarfallavano piano...
Io ero convinta che fosse Gesù Bambino a mandarcela, per rendere la notte di Natale proprio magica!
E magari era LUI davvero!!!
Mia madre oggi mi ha raccontato un altro ricordo tenero del suo Natale di bambina
1935. .Abitava a Mango da poco, ed era quasi Natale. Iniziò a preparare il presepe , ma aveva solo San Giuseppe, la Madonna e il bue...e pochissime statue.
Mio nonno Ricu , che era buono come il pane ma piuttosto tirchio, le aveva già comprato un Gesù Bambino( che aveva pagato solo mezza lira,scontato, perchè era un pò macchiato...) le disse che non potevaspendere un'altra lira per l'asino!!
Lei lo raccontò con un grosso magone ad un compagno di giochi, Luigi - futuro panettiere di Mango - e lui il giorno dopo arrivò con una sorpresa: un piccolo asino di cartone, disegnato e colorato, con un piedistallo dietro,per tenerlo in piedi!
Vedendo la sua gioia, le costruì ancora altre statuine di cartone , perchè anche lei avesse un presepe completo.
Lui, essendo di famiglia benestante, ne aveva uno grande e bellissimo!
A distanza di quasi ottant'anni, mia madre si emoziona ancora nel raccontarlo! I gesti di bontà non muoiono mai....
Rosy Volta
NATALE ‘55
Lunedì 19 dicembre 1955. La Topolino con mio papà al volante sta sfrecciando (si fa per dire…) tra Cuneo e Mondovì. Siamo stati a Borgo S. Dalmazzo a ritirare i panettoni direttamente dal laboratorio della Dulcioliva, quei panettoni i profumatissimi di vaniglia, uvetta e canditi, avviluppati nella carta verde.
“Per regalare ai migliori clienti”, ha detto mio papà. Il cofano ne è quasi pieno. Già, in un negozio da barbiere e parrucchiera per signora per Natale a volte non bastano i soliti calendarietti profumati, Pin-Up per gli uomini e Panorami d’Italia per le signore. Mi vien da ridere, perchè se viene il parroco o qualche forestiera distinta la mamma è svelta a ritirare quelli delle Pin-Up e a nasconderle nell’armadietto.
Quanti me ne hanno fatti imbustare, nelle sere precedenti, di quei calendarietti: prendere la busta opaca, soffiarci su, aprirne i lembi, poi infilarci il calendarietto, facendo attenzione che il fiocco rosso sia sempre dalla stessa parte.
Ci siamo fermati a Cuneo in via Roma. Mia mamma è scesa per andare a fare alcune compere, io e mio papà l’abbiamo aspettata in macchina. E’ ritornata dopo una mezz’oretta con dei pacchi colorati.
“Mamma, mamma, cosa c’è in quei pacchi?
“Niente, sono dei prodotti cosmetici, delle commissioni che ho fatto per delle mie clienti”.
Mio padre e mia madre parlano del più e del meno. Ormai è calata l’oscurità. Io, seduto dietro, scopro uno spiraglio tra schienale posteriore e cofano. Ci infilo una mano. Sento un frusciare leggero di carta, ma il rumore dell’auto è abbastanza alto da coprirlo.
Palpo. All’interno una cosa dura, squadrata. La muovo e sento un movimento di tanti legnetti che sbattono. Se non sapessi che ciò non è possibile, direi che è una dama. Strano, sulla letterina di Gesù bambino avevo scritto proprio una dama, oltre che un pallone ed un libro. Allungo ancor di più la mano e un dito mi si impiglia in una reticella. Ripalpo e sento all’interno qualcosa di sferico. Una palla?!?! Non può essere… Come si può verificare una tal evenienza? Per chi sono quei giocattoli?
Taccio, ma mille domande mi angustiano. E se la storia di Gesù Bambino fosse tutta una messinscena? No, non è possibile… “Beh, ci voglio credere”, mi dico, “Certo che però se a Natale mi arrivano proprio quei regali avrò una prova che quella di Gesù Bambino è una storiella che si propina ai bambini, chissà con quale scopo, poi…”
Già l’anno prima qualcosa non mi era quadrato dai nonni a Serravalle Langhe, in Leprato, dove i miei mi avevano mandato la settimana di Natale. Alla vigilia mi ero addormentato credendo di trovare i doni accanto al letto al mio risveglio. Nonna Maria e nonno Pietrino mi avevano fatto dormire nella loro stanza, aggiungendo una brandina a ridosso della parete.
Il muro era in quel punto era irregolare:
“Qui stai al caldo”, aveva detto la nonna, “una volta qui c’era il camino, adesso l’abbiamo chiuso ma dentro ci passa il cannone della stufa della cucina di sotto. Metti la mano, tocca. Senti come è caldo?”.
La nonna, comunque, sempre mi metteva il frà: era un piacere coricarsi in quell’oasi calda, badando bene a non allungare troppo i piedi a lato, pena un’escursione rapida quanto spiacevole dall’equatore ai poli.
Al mattino appena sveglio avevo guardato con circospezione a fianco della branda, poi in fondo, poi sotto. Niente. Solo sulla cassettiera c’era qualcosa di anomalo: un panettone ben avvolto nella carta verde.
Corsi giù per le scale, raggiungendo la cucina. Nonna Maria era intenta attorno alla stufa quattro fuochi. Tutto bolliva: afrori di capponi bolliti, cipolla, sedano, carota.. .
Sul tavolo, strisce parallele di raviole solo più da tagliare. Era il giorno di Natale, per pranzo sarebbero venuti i miei, ma anche zio Bruno e zia Iva, zio Aldo e zia Rina, oltre a zio Luigino che già viveva lì.
Infatti, quest’ultimo era in un angolo che stava sorbendo una scodella di latte.
“Tè, sono stato di là in sala e ho visto che in un angolo c’è una bùsa.”.
Mattacchione! Così chiamava il Bunèt che mia nonna faceva, che metteva poi a riposare in sala, che in realtà era una stanza freddissima, seminterrata, utilizzata solo d’estate perché fresca.
“Senti Luciano”, disse la nonna, “sono venuti a dire dal posto pubblico che tua mamma ha telefonato che c’è stato un errore: Gesù Bambino ha lasciato i tuoi regali a Monchiero. Qui per te ha lasciato solo un panettone, te l’ha messo sulla cassettiera”.
Visto il mio disappunto, si affrettò ad aggiungere:
“Tanto a mezzogiorno vengono qui e te li portano..”.
“Eh no, non è la stessa cosa”, avevo pensato. “Certi errori non si fanno, caro Gesù Bambino. Sei o non sei il figlio di Dio, che tutto sa e tutto può? Come hai potuto sbagliarti? I regali sono uno cosa seria tra me e te, che c’entrano i miei genitori?. E poi, se hai portato il panettone, non potevi portare anche il resto?”.
Il Natale del ’55 a Monchiero si preannuncia senza neve.
“Mai vista una cosa così”. Ha detto mio padre. Ceniamo ascoltando melodie natalizie dalla nostra fiammante radio, una Magnadyne S34, sistemata in cucina su una mensola infissa al muro. Sotto la mensola un albero di Natale. Il pinetto l’ha preso mio papà da qualche parte, poi mia mamma l’ha piantato in un vaso di terra, poi l’ha vestito di mandarini, nastrini colorati. Ci ha appeso pure dei disegnini natalizi che credo abbia ritagliato da alcune riviste per signora che girano nel salottino d’attesa del negozio. Qui e là bambini di zucchero e palline di cioccolato rivestite di carta stagnola rossa. In cima, una bella stella di cartone, ritagliata e colorata col pastello giallo.
Poi ci vestiamo e andiamo alla messa di mezzanotte. Mi sistemo nella chiesa proprio sotto il fanale di una stufa a gas. Don Giulio ne ha fatta sistemare una per ogni pila. Per ogni pila c’è pure una bombola di gas.
A fine messa baciamo il bambino che Don Giulio tiene tra le braccia e ci avviamo all’uscita, accompagnati dall’ultimo “Regem venturum Dominum, venite adoremus...”.
Qualcuno dice: “Nevica!”
No, non può essere vero, scherzano.
Invece no, il prato è appena bianco, due dita, ma viene giù decisa, anche se leggera, dato che volteggia a lungo prima di posarsi. Qualcuno ne afferra una pugnata e parte la prima maloccata. A provocazione si risponde, che diamine! Parte un’altra maloccata, poi un’altra ancora e poi ancora un’altra. Tutti si tirano palle di neve. Lì nessuno ne è esente, non esistono né ceti, né gerarchie. Anche il sindaco se ne prende una sulle spalle. E’ un gentiluomo. Si volta e sorride.
Arriviamo al passaggio a livello. Le sbarre sono abbassate. Qualcuno si china e svelto attraversa i binari. Mia mamma mi trattiene. Arriva il “celerone” da Ceva, sbuffando vapore come un vecchio asmatico. “E’un ciuf-ciuf!” , sbotto. La linea è elettrica, i convogli a vapore sono ormai rari. Vederne uno ogni volta è come entrare in una favola.
Il convoglio sfila sferragliando. Attraverso i finestrini vedo viaggiatori e viaggiatrici.
“Poverini”, penso, “dove se ne vanno la notte di Natale? Non hanno una casa dove aspettare il bambino?”
Entro in casa e subito vado a letto. Dalla finestra accanto al letto vedo la scalinata che porta alla stazione. I gradini sono ormai quasi tutti coperti di neve. Nel cono del lampione vedo cadere i fiocchi come se fossero migliaia di farfalline, le stesse che nelle notti d’estate vengono su dal Tanaro e volteggiano, volteggiano.
A forza di fissare i lampada e fiocchi si crea un effetto ottico curioso: sembra che i fiocchi siano immobili a mezz’aria e che sia la lampada a muoversi , in un’ascesa irrefrenabile, e che io ci sia attaccato con un filo e da lei venga trascinato su, come sul ponte di comando di un’astronave diretta alla sorgente della neve.
“Mettiti a letto, Luciano, se no Gesù Bambino non viene”, dice la mamma.
Stavolta Gesù Bambino non mi freghi, mi metto sotto le coperte, faccio finta di dormire ma invece sto sveglio. Voglio vedere come la metti. Qui sul balcone c’è già una spanna di neve: se ci metti piede, domani mattina vedo le pianà”.
E’ mattino. Mi sveglia il rumore di una pala che raschia sull’asfalto. Il giorno è già nella stanza. Al fondo del letto dei pacchi. Salto giù, li guardo, poi scruto oltre la finestra. In strada mio papà che spala la neve davanti a casa. Sul balcone venti centimetri di neve. Intonsa, di pianà neanche l’ombra.
Salto sui pacchi, strappo la carta.
Una bella scatola di legno: su una facciata il gioco della dama sull’altra quello della tela, con un cassettino ripieno tante pedine bianche e nere. Poi un borsa di rete con un pallone arancione. Infine un libro con le avventure di Pinocchio.
“Allora mi si prende in giro”, penso. Decido di far finta di niente. “Tanto, cosa ci perdo? E’ un gioco? Giochiamo!”.
Quella fu la prima volta che mi resi conto che non sempre quello in cui si crede è vero. Dopo, un po’ alla volta, ho capito anche che se non si crede in niente, vero o non vero che sia, la vita vale la pena di essere vissuta. Natale, infatti, continuo a scriverlo con la maiuscola.
Luciano Boero
I miei ricordi di Natale e dintorni sono, per conseguenza vecchi e risalgono ai primi anni del dopoguerra quando il "partigiano Johnny" era sceso dalla collina ed il Natale senza neve era una rarità. Allora le donne di casa un giorno della settimana si radunavano al forno a legna per cuocere il pane e nelle fredde giornate invernali il suo fragrante profumo rimaneva nell'aia per tutta la mattinata. Le nonne, quasi di nascosto, infilavano nel forno dei cestinetti di pasta frolla con dentro una mela, la più bella che erano riuscite a trovare. I bimbi di allora, anche d'inverno, portavano i pantaloni corti ed i calzettoni di lana grezza ed aspettavano con ansia di poter vedere la mattina di Natale Gesù bambino che era disteso nel cesto di vimini vicino al camino o nella mangiatoia della stalla. Da quelle parti si trovavano anche i cestini si pasta con la mela cotta all'interno. Le nonne dicevano che erano per i bimbi buoni. Per quanto posso ricordare i bimbi cattivi non esistevano proprio.
Dopo quegl'anni i Natali si sono succeduti con rapidità sempre crescente ed hanno portato dolci sofisticati e diversi. Io continuo a cercare il profumo del pane di allora e non mi rendo conto che esiste solo più nei miei ricordi. Forse la mia nonna conserva ancora nel grembiule il cestino con la mela per darmelo quando ci reincontreremo ancora.
Buon Natale.
Giovanni Prunotto
Ho tanti bei ricordi legati a quelli trascorsi in Langa , presso la cascina dei nonni materni, tutti i cugini riuniti, il pentolone , fumante, a cuocere nella stufa, colmo di profumate raviole,la notte, silenziosa , nel letto scaldato dal "prete", il risveglio con la neve che brillava sotto il sole e ci impediva di aprire la porta ,io che mi tuffavo, felice, in quel manto soffice ( se mi capita, lo faccio anche ora). Ma Il ricordo di Natale più bello è legato al reparto di maternità dell'ospedale Galliera di Genova , dove ho ricevuto il regalo più bello , Mia figlia !
Miralba Gamba
Nei miei natali di bambina non erano previsti grandi regali, famiglia numerosa 6 figli piu I nonni. Qualche settimana prima di Natale mio papà prendeva la corriera è andava ad Alba, qualche giocattolino per i piu piccoli ma per i grandi una maglia un berretto. Io bambina curiosa e forse neanche più tanto bambina e chiacchierona leggo sul pacco il mio nome e esclamo a gran voce: “ Ma Gesù bambino scrive la C come nonna”. Mi arriva uno scapaccione: “ Stai zitta quelli piccoli non lo sanno che Gesù bambino non esiste!.”
Ecco come ho scoperto che non era Gesù bambino a portare i regali.
Murycylo Vitaintensa
A Santo Stefano
Dopo Natale c’era la festa di S. Stefano, ed era quasi d’obbligo per chi non aveva da allontanarsi da casa, di replicare il pranzo di Natale per finire le vettovaglie rimaste , A S. Stefano mio padre desiderava mangiare gli agnolotti al vino , naturalmente con il suo vino; un dolcetto che arrivava dalle terrazze di Gorzegno, un vinello generoso che con gli agnolotti si univa molto bene . Lo stesso si poteva dire per tutto quello che rimaneva ancora da consumare . Ma non tutto il cibo era rimanenza del giorno prima, i carciofi ripieni alla Genovese erano la passione di tutti noi , mia madre le cucinava al forno come nessuno era capace a fare, ed era il piatto sorpresa che prendeva alla gola come nessun altra succulenza .Panettoni ne rimanevano sempre molti ,erano i regali che arrivavano in famiglia. Ripieni ,pandoro o biscottati questi finivano quasi sempre per essere regalati . Il pomeriggio era d’obbligo portare mio padre a fare il giro dei ricordi , difficilmente mia madre ! che preferiva rimanere a casa per confabulare con i vicini i segreti e i retroscena delle feste natalizie, e le tante soddisfazioni umane che queste regalavano . Con mio Padre era d’obbligo ritornare dietro nel tempo . Niella Belbo .,S. benedetto dove aveva fatto il servitore , Gorzegno La casa dei “Granaret “dove era nato . La scuola del paese dove Gallesio diede a Beppe Fenoglio la possibilità di Scrivere un Racconto Epico. La casa del Pul suo cugino, e poi Quella dei Siezi ,dove ci fermavamo per salutare il suo amico Pietro . Queste era il modo di passare il Natale a casa mia , poi naturalmente ci sarebbe molto altro da raccontare ancora su questa meravigliose solennità .Perché nelle Langhe come in qualsiasi altra parte del mondo , ogni famiglia è una storia ,e ogni storia si riferiva a una famiglia.....
Bruno Murialdo e Donchisciotte
Natale con Bàȓbo
Furono almeno tre i Natali che passammo con Bàȓbo invitato a pranzo .
Erano i primi anni ’60 ed immancabilmente la settimana prima del 25 dicembre, mia mamma mi mandava da lui a chiedergli se volesse venire da noi a mangiare, il giorno di Natale: “Visto che vive da solo tutto l’anno, che almeno a Natale mangi in compagnia di qualcuno!” Mia madre Mariuccia mi coglieva di sorpresa ogni volta, proprio lei che di solito pativa ad avere un invitato a pranzo, conscia delle non eccelse capacità culinarie, perché si voleva “rovinare” così il pranzo di Natale?
In effetti il cuoco di casa è sempre stato papà Eligio, bravissimo nel fare arrosti, spezzatini ed intingoli vari. Il pezzo forte di Mariuccia era solo l’insalata russa, preparata in un grosso piatto da portata ovale, guarnito tutto a fiorellini e fili d’erba fatti con uova sode, piselli e fagiolini: un piatto di grande effetto veramente!
Tornando a me, andare ad invitare Bàȓbo, personaggio che m’incuteva un po’ di timore da sempre, non mi piaceva per niente, ma il permesso, concessomi così raramente d’inverno, di andarci in bicicletta, superava ogni paura.
Inforcavo la bici e mi spingevo a gran velocità per dritto fino alla piazzetta della Chiesa dei B., attraversavo il passaggio a livello della ferrovia , calavo giù per la strada dell’asilo che portava ai prati sotto la collina di S. , dalle parti del Camposanto.
Bàȓbo stava in un ciabòt sotto un vecchio pero della madernassa, un monolocale, diremmo oggi, con servizi esterni, un bugigattolo con un asse bucato che dava direttamente sulla bialera che scorreva sotto.
Combinazione lo trovavo sempre lì, che si friggeva i suoi pesci “i barbi” (da cui il suo stranome) , pescigatto che aveva pescato a Tanaro alla mattina, con qualche carpa o raramente un luccio.
L’odore di pesce malfritto, di fango, di fogna, e di sudiciume incrostato da anni la faceva da padrone , ma vincendo lo schifo m’avvicinavo lo stesso al portoncino tenuto col cordin e battevo due colpetti. Bàȓbo, come tutte le volte, appena mi vedeva, mi faceva un enorme sorriso in cui svettavano come torrioni solitari e invitti i due incisivi di sopra, allargava gli occhi, sollevava i folti baffoni da pescegatto umano e con quella voce stridula che hanno solo le persone che non hanno mai l’occasione di parlare con qualcuno m’accoglieva dicendo “ Càtȓo sì ‘ȓ Gȓanaȓètin!” “Mia mamma chiede se, come l’anno scorso vieni a mangiare da noi a Natale” “ Certo che vèn, gȓassie, ‘s voghìma”
Bàrbu era uno di quei “giȓolon”, girovaghi di strada, originario di qualche parte delle Langhe – per questo conosceva mio padre e i Gȓanarèt di Gorzegno. Come e quando avesse traversato Tanaro e fosse giunto ai B. nessuno lo sa. Ora viveva lì nel ciabòt e si offriva a lavorare a giornata per sbardè o liàm (spargere il letame) nei prati in autunno o aiutare nei lavori agricoli.
Lo si vedeva girare poi continuamente, sulla sua sbilenca cigolante bicicletta per le vie del paese con il suo carico di zampini e di pelli seccate di coniglio, delle quali faceva commercio così come delle pelli di talpa. Era infatti anche un bravissimo talpaio. Quando i piccoli roditori devastavano troppo le culture i contadini chiamavano Bàȓbo. Lui arrivava all’alba e con la tecnica di prenderle a zappate non appena ergevano il loro cumuletto, le faceva fuori, a centinaia. Le metteva tutte in fila, (prendeva un tanto l’una), le scuoiava, faceva seccare le pelli , allora molto pregiate per via della morbidezza. Cosa ne facesse dei cadaverini nessuno lo sapeva ma noi bambini dicevamo che se le bollisse nel minestrone.
Bàȓbo arrivò anche quel Natale a casa nostra portando in dono nel cestino da pescatore tre barbi e due piccole carpe.
Le carpe, messe da me in un mastello pieno d’acqua resuscitarono subito ringraziandomi sbattendo le rosee branchie. I barbi non rinvennero, erano forse del giorno prima, un po’ grigetti, avevano già reso l’anima.
Bàȓbo col bertin di lana blu, avvolto in un giaccone consunto di fustagno, pantaloni a coste grosse, con le toppe a gomiti e ginocchia, salì le scale di casa nostra coi scarponi chiodati che facevano scintille ad ogni gradino: sembrava uno strano sfigato Babbo Natale. I pochi capelli eran bisunti ma s’era fatto la barba e sotto i baffi troneggiavano i due incisivi da pescegatto. Tolta la giacca, mise in mostra un meraviglioso focòl (fazzoletto-sciarpina) a pallini verdolini, forse dono di una vedova che aveva curato o di qualche remota fidanzata, salutò con deferenza i miei e sedette a tavola dopo aver scompigliato con le sue manacce la testa ad ognuno di noi tre “Gȓanaȓètin”, impossibilitati a darci alla fuga.
Per tutto il pranzo Bàrbu, mio padre e mia madre parlarono tra loro in piemontese, linguaggio proibito a noi bambini che ci tenevamo alla larga dall’altra parte della tavola. I miei fratellini si davano calci da sotto, si pinzavano il naso nel segno di non sopportare la puzza ed io cercavo di fermarli perché Bàȓbo non vedesse.
Bàȓbo si comportò invece , come sempre, da gentleman, mangiò tutto di gusto e bevve molto di quel dolcetto “nen tȓavajà”, genuino, fatto da bàȓba Andrea alla Bosia. Il meglio di sé lo dette al momento dei cappelletti in brodo (Mariuccia aveva insistito che per Bàrbu fosse meglio il brodo caldo invece che le raviole).
Dopo essersi rapidamente mangiato i cappelletti, si profuse in rumorose aspirazioni con la bocca ad ogni cucchiaiata di brodo.
La destrezza e la sonorità di Bàȓbo nel sorbire il brodo suscitò l’estremo interesse di noi bambini ma, la sera successiva, la nostra imitazione di Bàȓbo, nel mangiare il minestrone, ci procurò solo una sgridata ed un paio di scappellotti.
“Perchè Bàȓbo sì e noi no?”
“Può solo farlo Bàȓbo, a Natale” fu la risposta e la cosa finì lì.
Ma non c’era una logica.
Fu l’ultimo Natale con Bàȓbo.
L’anno dopo, in una sera di nebbia, rimase agganciato con la bici al rimorchio di un “bilic” sulla statale di Santa Vittoria e ci finì sotto.
Giampiero Johnny Murialdo
Io e il mio babbo la domenica prima del Natale andavamo nei boschi (anche con la neve) a cercare l' abete per fare l’albero di Natale.
Era sempre lunga la ricerca perché papà non
voleva danneggiare e spesso e volentieri a casa portavamo l' abete meno bello, quello che
era cresciuto soffocato in mezzo agli altri ,
ma poi, una volta piazzato nell' angolo giusto, papà lo aggiustava facendo dei fori nel tronco e aggiungendo rami dove mancavano .
Lo rendeva sempre perfetto. Sui rami aggiunti appendavamo solo bottoni rivestiti di carta lucida e caramelle.I mandarini sui rami più forti.
Era bellissimo.
Quell' anno aveva nevicato tutta la vigilia di Natale, papà aveva spalato la neve e fatto tutti i sentieri intorno alla casa .
La mamma preparava agli agnolotti io e mio fratello giocavano a carte sul davanzale della finestra, la televisione non c 'era a casa mia.
E le mele rosse che piacevano a me erano finite mangiavo nocciolo e noci e non vincevo mai la partita.
Si era fatto tardi e la mamma ci mando' a dormire dopo averci riscaldato il letto con il (frate) stavo per addormentarmi quando mio fratello di tre anni più piccolo di me mi chiamò tutto agitato e mi disse “Silvi!!! Papà non ha tolto la neve sulla scala esterna quella che dall' aia scende in cortile
Come farà Gesù Bambino se passa da lì ?
Cade!! “ . “Hai ragione dissi io , dobbiamo aspettare che anche la mamma dorma e poi scendiamo e andiamo a toglierla.
Le nostre porte non erano blindate , c’era un piccolo chiavistello. Senza il minimo rumore uscimmo fuori scalzi e in pigiama togliemmo tutta la neve dalla scala con le mani e poi con il pigiama bagnato e
i piedi congelati tornammo a letto soddisfatti: Gesù Bambino poteva passare.
I nostri genitori non seppero mai della nostra bravata e la mattina di Natale
Si era troppo indaffarato per fare caso alla scala ripulita si faceva colazione con i biscotti che faceva papà nel forno del pane.
Che dolce nostalgia.
Silvana Vero
Il Natale in casa mia è sempre stato una festa, ma senza esagerazioni. Si addobbava l'albero "vero" con palline di vetro, formine varie di cioccolato e anche qualche frutto....e poi c'era il presepe, quello non mancava mai...con statuine di gesso....bellissime!!
La sera precedente il Natale andavo con la mamma a messa e poi a nanna....ad aspettare con ansia Gesù Bambino. ..perché era Lui che il mattino seguente mi portava i doni sotto il cuscino.....che gioia provo ancora adesso a ricordare...la corsa verso i miei per dimostrare loro quanto fossi stata buona.....
Oggi non usa più e nessuno crede più a Gesù bambino....è un continuo scartare pacchi di regali costosi e spesso "inutili"...ma la felicità provata allora, quando ero piccina ed ingenua la rimpiango. ...non l'ho mai più assaporata!
MariaNice Pilotto
Natale quando ero piccola per me significava anche la felicità di uscire la sera dopo cena , cosa che non facevo mai , e andare alla novena nella cripta del Duomo ....in famiglia eravamo in otto e tutti e otto partecipavamo. Ricordo ancora la mamma e le zie che si sgolavano a cantare le lodi … En clara vox…
Ma il momento più atteso era all' uscita quando "attaccavamo " i mucchi di neve , allora altissimi , in piazza e ci giocavamo fino a quando eravamo fradici. Allora di corsa a casa per non beccarci un malanno, una lavata velocissima e subito a nanna sotto un quintale di coperte, non esistevano ancora i piumoni, e le case non erano riscaldate come adesso.
Claudia Viberti
Il mio ricordo di Natale: inevitabilmente dai nonni nella grande casa di Canove
Mescolanza di profumi , di voci , di armonia e il cortile quasi sempre innevato .
Il nonno comodamente seduto sulla sua poltrona unico trofeo inaccessibile a tutti , di tanto in tanto faceva capolino dalla pagina della sua adorata Stampa : “bravi bambini fra un po' si mangia” .
La tovaglia sempre bianchissima come se anche in casa avesse nevicato ,il tintinnare di piatti e bicchieri , il brontolio della nonna : “chiudete la porta fa freddo” Ma come resistere a quel cortile tutto imbiancato ? Al cane Boby che come impazzito ricamava l'esterna tovaglia con il via vai delle zampe?
Magia dell'infanzia dove la felicita' e' la presenza delle persone amate , dove la tristezza ha il diverso sapore della futura speranza , dove tutto è un nuovo Natale di nascita e rinascita nella scoperta .
Grazie a questi fantastici Natali che mi fanno sopportare Natali ben diversi
Buon Natale a tutti.
Mariella Bottallo
Sul grande tavolo nell'angolo della cucina, io e mio fratello avevamo fatto il presepio. La capanna era fatta di "maciafer" (il residuo della combustione del carbone, del quale conservo ancora 4 pezzi), con il muschio fresco e umido, che ogni anno accorciava le zampe di gesso delle pecore. Nell'angolo contro il muro c'era l'albero di Natale, che consisteva in due o tre rami tagliati dal cespuglio del vicino di casa, ornato di caramelle, "bambin 'd sucher", cri-cri, mandarini e noccioline legati con il cotone da cucire. Unico lusso un puntale, qualche pallina e qualche filo argentato.
L'attesa dei doni, che erano portati dal "Bambin" e non da Babbo Natale, ci faceva stare svegli più a lungo, ma non abbastanza per "beccarlo" quando veniva a posare i pacchetti sul comò. Al mattino, sveglia presto e, incuranti dei vetri arabescati dal nostro fiato gelato, saltavamo sù a scoprire cosa contenevano quei due o tre pacchettini. C'era quasi sempre una nuova statuina per il presepio e un gioco per ognuno di noi due. Un pacchettino di dolciumi per tutta la famiglia e un taglio di tessuto per un vestito nuovo per la nonna. Mentre scrivo rivivo l'emozione di quei momenti che, purtroppo, i miei nipotini non provano di certo di fronte a quella montagna di pacchetti che Babbo Natale lascia o sotto l'albero o a casa di zii e amici (che disordinato questo Babbo Natale). Nella semplicità e nella dolcezza di quei momenti c'era, secondo me, la vera essenza del Natale: amore, calore della famiglia, semplicità, gioia vera.
Bruna Mascarello
Era la magia della luce spenta per guardare l'albero di Natale con quella novità delle luci elettriche che si accendevano e spegnevano. Fino ad allora solo quelle palline di vetro fino con la neve incollata sopra che mia madre avvolgeva nella carta una per una, erano state l'unico addobbo. Insieme, luci e palline, facevano una danza di specchi e fiammelle da incantare noi bambini. Sotto i pastori con Gelindo in testa si avviavano alla grotta fatta di carta stropicciata. Nell'aria un odore di biscotti invitava alla merenda. Poi, mia madre prendeva un libro e ci leggeva le storie del Natale.
Daniele Bornengo
Ho dei ricordi bellissimi...I più sono in Langa quando, quasi trentacinque anni fa, cadeva parecchia neve e io, arrivando da Torino, andavo a trovare i nonni. Felicissima perché sapevo di passare giornate a giocare nella neve con il bob , bere latte di mucca appena munto e pane fatto in casa da nonna, tutto questo al tiepido calduccio della stufa a legna. Ma i ricordi che mi rimarranno e che trasmetto ai miei ragazzi e la serenità di quel periodo: l'albero fatto da mia mamma, il presepe che non mancava mai e cercare di rimanere sveglia per vedere Gesù Bambino che mi portava i regali per essere stata brava durante l'anno. E il caldo abbraccio dei miei genitori la mattina del 25.
Clotilde Priero
Anch'io ho un ricordo bellissimo di Natali passati con i miei fratelli di un albero di Natale addobbato solo di cose da mangiare: caramelle cioccolatini mandarini arance che finito le feste dividevamo in quattro (essendo 4 bimbi) e poi ognuno se li costudita gelosamente felici vicino alla stufa a legna che riscaldava tutta la grande cucina.....
Rosa Pellerino Francone
Del Natale ricordo il Presepe, la ricerca curata di ogni singolo elemento, l' albero rigorosamente vero preparato con i miei tre fratelli e la mamma con le mani nei capelli terrorizzata all' idea che rompessimo tutte le palline, e il nonno che la sera con il nostro aiuto controllava il funzionare delle luci, tocco finale; ricordo ancora i regali ricevuti, a volte sospirati tutto l'anno, ricordo un terribile paio di pantaloni in velluto obbligata a portare .. Ma il mio vero ricordo è legato alla sera del 24, nulla avrebbe potuto spezzare l'incantesimo del ritorno a casa dopo la messa di mezzanotte, i nonni svegli che ci aspettavano con tavolo pronto, il brodo caldo, il bollito, i mandarini, .. io, i miei fratelli, papà e mamma, i nonni, zio Fede e zia Grazia... Questo il mio ricordo e questo il mio Natale che tanto tanto mi manca ...
Monica Francone
Il Natale che ricordo io è di qualche annetto fa. Intorno al 1982-83. Frequentavo la piccola scuola elementare d'Igliano e noi allievi eravamo rimasti una decina. Fuori nevicava e la maestra Massa di Ceva aveva deciso di mettere in scena una vecchia recita di Natale. Quella in cui si parlava di Giuseppe e Maria che chiedevano ospitalità ai vari osti e alberghi; il tempo scandito dai rintocchi di un campanile. Quel mattino la maestra non arrivava e noi, preoccupati e tesi per la recita, ripassavamo mentalmente la parte, cercando conforto gli uni negli occhi degli altri. Ad un tratto giunse sul piazzale innevato, con l'auto coperta di neve e i doposcì bianchi pelosi che in quegli anni andavano tanto di moda. Riuniti attorno alla stufa a legna concordammo le ultime cose e poi la maestra andó a chiamare Don Michelotti, il vecchio, duro, infaticabile parroco di Langa. Mani enormi, voce tonante, mai lontanamente sfiorato dal Concilio II. Diceva messa in latino e faceva la predica in piemontese. Ci faceva un po' paura è un po' tenerezza. Il saperlo alla recita non aiutava ad essere rilassati. arrivó quasi subito con la lunga tonaca nera e si pos con le mani conserte ad osservare. Avevamo allestito la capanna sotto un lungo e stretto banco a due posti. Io ero San Giuseppe e Patrizia la Madonna. La recita filó liscia, e nessuno sgarró una parola. Il campanile suonó sul serio attutito dalla neve e la maestra era orgogliosa all'inverosimile. Ad un tratto tuttavia ci voltammo verso il parroco e ci accorgemmo che stava piangendo. Grandi lacrime stavano scendendo dalle guance e volgeva lo sguardo altrove. Salutó tutti frettolosamente, distribuì caramelle, togliendole dalla tasca profonda e filó via. Non sapevamo che dire. In quegli anni veder piangere un adulto, soprattutto un duro come il Don, non era comune. La maestra, un po' presa alla sprovvista, ci diede i doni e si complimentó con tutti. Il giorno dopo andai in chiesa a cercare il Don con mio padre per fare due chiacchiere. Aveva sulla scrivania delle foto un po' scure. Un giovane cappellano che gli somigliava assisteva a una recita di Natale nelle trincee del Rombòn. Identica alla nostra ma i figuranti erano alpini. Aggiunse:"Erano i miei ragazzi". Sono morti quasi tutti nei mesi successivi. Li benedicevo mano mano che li buttavamo nelle fosse. Un masèl!
Emanuele Bella
Anche per me, da bambino, era quasi un rito andare a raccogliere il muschio per il Presepe e partire in auto, una vecchia fiat 600 (mi ricordo la targa CN45051) sulle strade della Langa per cercare un pinetto non troppo grosso da addobbare con le palline rigorosamente di vetro.
Come ho già detto prima in un altro post, oltre alle decorazioni natalizie più preziose ed intoccabili, venivano appese all'albero di Natale anche alcuni pupazzetti di plastica che trovavamo nei fustini del Dash e nelle confezioni dei detersivi, come il mitico Angelino mio coetaneo (leva 1958) e campione di bontà perchè voleva sempre aiutare le persone in difficoltà e si cacciava in un mare di guai.
In particolare Angelino e Topo Gigio, senza un occhio che poi rifeci io con il cartone colorato, erano per me più belli di tutte le decorazioni anche perché potevo giocarci ore ed ore sotto l'albero che, illuminato dalle lucine belle calde, emanava un odore di resina intenso che ancora adesso associo volentieri a quei cari ricordi.
La notte di Natale si andava alla Messa serale e poi subito a letto ad aspettare in silenzio Gesù Bambino che portava i doni....ma non riuscivo a dormire ed alle 6 del mattino correvo in camera dei miei genitori per svegliarli e chiedere il permesso di andare a vedere se era passato veramente.
Mia mamma che mi aveva educato severamente ma anche molto dolce con me mi diceva che se ero stato buono in quest'anno passato sicuramente Gesù Bambino mi avrebbe portato i doni.
Che stupore e meraviglia (gli stessi che ho visto nei miei figli piccoli per tanti anni) scoprire quei pacchettini (non tantissimi, in verità) sotto l'albero illuminato
E Gesù Bambino sapeva sempre cosa desideravo....erano il traforo di legno, le mattonelle per le costruzioni, il garage con le macchinine, un piccolo magnetofono Geloso (la marca ).
Quanta gioia in quei momenti...onestamente non so dire se ero più felice io con queste piccole cose oppure i miei figli con decine di pacchi con tecnologie varie, spade laser, playstation ecc.
Ma certamente anche il Gesù Bambino di oggi ha sempre portato ogni anno un gioco con la raccomandazione che i miei due figli lo usassero insieme da bravi fratello e sorella....che saggio questo Gesù Bambino.
Questi sono i ricordi che emergono dalle nebbie della mia mente proprio come oggi il sole sorge da un mare tenue di nebbia....
Ci sarebbe anche la storia del pranzo di Natale....anche noi avevamo uno "zio" Armando da sfamare, ma non voglio tediarvi ulteriormente,
Buon Natale
Enzo Bartolomeo Giacone
“Bundì bundì, ra stràina dàmra a mì,
dàme ‘n curùmb che r’àn u rè lung”
“Buondì, buondì, la strenna dalla a me,
dammi un colombo (dolcetto a forma di colombo), ché l’anno è lungo ”
La consuetudine della “stràina di vej”, la strenna dei vecchi è raccontata ne “La venturina” di Maria Tarditi, bellissimo romanzo pubblicato nel 2006, e ne ho avuto conferma parlando con mio papà Eligio, nella consueta pausa caffè pomeridiana ed ascoltando le testimonianze di Maria Adele Quazzo di Feisoglio ed Ersilia Gabutti di Cissone.
Il 1° dell’anno c’era l’abitudine dei bambini di girare per le cascine dei vicini o per le vie del paese, bussando alla porta degli anziani, parenti o anche no, o alle porte delle botteghe, per ricevere, dopo la recita in coro della cantilena “Bundì, bundì…" questa famosa strenna. Si trattava di qualche regalino, una caramella, un biscottino, una noce o un mandarino, un “crnièle” (una specie di torcetto zuccherato) o un “galètu” (biscottino a forma di galletto). I bambini adoravano questo rito e si beavano di questi piccoli doni.
Ersilia, ricorda, che per i più grandi c’era anche le ciambelle della befana, di pane dolce, nelle quali veniva nascosto un uovo sodo o una fava. Chi li trovava si sarebbe sposato entro l’anno…
Queste usanze non sono sopravvissute oltre la metà degli anni ’50 dell’altro secolo.
Giampiero Murialdo
Il mio primo ricordo di Natale ha un disgustoso sapore di gesso.
Preparavamo il presepio con poche statuine e con tanto muschio che andavamo a raccogliere nei boschi. Trovare il muschio era una vera cerimonia, giravamo tra gli alberi alla ricerca del più bello. Io ero molto piccola, ammiravo quel presepe essenziale, come era tutto in quel primo dopoguerra.
Avevo ricevuto quel Natale, come dono, uno di quei "bambin ed sucher" di zucchero colorato che avevo trovato molto goloso! Quelli della mia generazione li ricordano certamente!
Nel nostro presepio, oltre alla capanna c'erano tre pastori con qualche pecorella. I pastori li chiamavamo per nome.
Io ammiravo rapita Gelindo e lo trovavo simile al "bambin" di zucchero. Ad un tratto, non mi sono più trattenuta e con un morso netto gli ho staccato la testa! Ricordo ancora chiaramente il disgusto della bocca piena di gesso e i rimproveri dei miei famigliari.
Per molti Natali a venire sono stata canzonata per quella che ha mangiato la testa al povero Gelindo.
Albina Aimasso
Stòȓia d’ën bonòm: mi e j’eȓa na masnà, parloma ’d subit dòp ȓa guèra, më smija 1946.
Anloȓa ej favo fin-e. A Natàl me mama, a ȓ’ha bitame sota aȓ chissin 3 mandaȓin e ’n pugn ëd bischeucc, castàgnr bojije doe vòte. A San Stevo, a cà mia, ȓ’oma fa na vijà. J’eȓo na partija, tucc antorna a ȓa stiva ’d quatȓ piàsse. Pinton ën sȓa taula, ’n sȓa stiva fàvo rostì ’ȓ castàgne chije a ȓa Langa, cola ’d Fenoglio.
Iss pàrla dëȓ pu e dëȓ meno, ij dëscors bativo tant an sëȓ dëstorne (maleuȓ) e dësgȓassie balorde: dispers ën guara, nàde cròje, maȓatia dër bestie, gȓan, meȓia, pòche uve, pȓà, bòsch, fèje e tome, cȓàva pëȓ o làcc da colassion! Ancossè ch’i j’eȓa Gepo ch’o contàva cheich bàle!
A coi tamp là ij tratoȓ sàvo nen còsa ch’i fijsso, ’n campàgna e s’arangiàvo, ȓ’avo pòch ëd tut peȓò tut sëȓviva, iss tiȓava anans con ess pòch. A na certa miȓa cheicadun o tiȓa fòȓa o dëscors di bambin ëd Natàl. Lì j’eȓa mi sol, ȓ’heu dovu tiȓé fòra ij mandaȓin, 3 mandaȓin, chiàl-sì o j’eȓa ’ȓ pì fuȓb dȓa nià! Om fa: fanie aȓmeno tasté! Mi, bonòm ȓ’heu tacà a dësfisché, na fisca a testa, a ȓa fin do giȓ pëȓ mi j’è vansàje gnente. Son giȓàme vers ȓa miȓàgna, son bitàme a pianze! Ȓ’avȓia dovù fé finta ’d gnente, magàra biteme a grigné, ma zà anloȓa j’eȓa ‘n bonòm! Lo che ȓ’heu contà o ȓ’è pròpi capitàme a mi: Son ancoȓa sì!... bon Natàl a tucc!...
PRIMO CULASSO
I Natali della mia infanzia – indimenticabili ed indimenticati – si possono riassumere in poche parole: attesa, neve, preparativi.
Sicuramente sono simili a mille altri, però – come per le storie d’amore –chissà perché i propri sembrano sempre più…speciali!
Era la fine degli anni ’50.
L’attesa , quella “vera” iniziava verso metà dicembre, con la stesura della letterina, che mettevo poi sul davanzale della finestra di cucina, e la mattina dopo –sempre – non c’era più. Gesù Bambino l’aveva presa! I miei regali richiesti- pochi, non come oggi ! – forse sarebbero arrivati…
Un anno –avevo cinque anni ma sapevo già scrivere – chiesi a Gesù Bambino , senza che nessuno mi desse …l’imbeccata, di farmi avere l’autunno successivo, una certa maestra in prima elementare. Naturalmente mio padre la prese e gliela portò, molto fiero di me, e mi dissero che quella letterina particolare divenne famosa nel paese!
La ricerca dell’abete giusto era la seconda fase.
Mio nonno Ricu partiva una mattina col suo mantello di lana nero avvolto intorno al corpo, e con una grossa roncola che pendeva sul dietro dal cinghietto dei pantaloni di fustagno. Aspettavo dietro ai vetri con ansia; quando il nonno arrivava, c’era la valutazione: piccolo, grande, storto , pieno…ma si trovava sempre il modo di sistemarlo in modo da mostrare la sua…faccia migliore.
Io mi ritenevo fortunata, perché nella nostra cascina avevamo due cucine: una piccola ed essenziale al piano terra, più calda, per l’inverno. L’altra, al primo piano, grande e confortevole ma molto più fredda, per la bella stagione.
Qui, con ricchezza di particolari, tutta la famiglia allestiva il presepe, nel grande lavello, nascosto dal muschio. In una vasca, il lago “vero” con le anatrelle di plastica che si giravano sempre a pancia in su; monti, fiumi di stagnola, greggi e paesi.
Sulla montagna più alta veniva piantato l’abete, e sotto ad esso, io piazzavo il castello di Erode ed i Magi. Magari non era il posto giusto, ma c’erano, e li mettevamo!
Il presepe finito era di grande effetto. Io non mi sarei mai stancata di guardarlo, spostare una pecora, una casetta, girare le anatre rovesciate…ma faceva un freddo boia! Da geloni assicurati.
Sull’albero avevo belle palline di vetro multicolore, che nel tempo si sono rotte tutte. E’ per questo motivo che anche oggi non cedo all’albero TRENDY tutto rosso e oro, o blu e argento: il mio albero è ancora di tutti i colori come quelli della mia infanzia, e se le mie nipoti mi prendono in giro, pazienza!
Mio padre, quando per lavoro andava a Torino, mi portava scatoline di palline di cioccolato, che a Mango non sapevano neppure esistessero, e le appendevamo con le altre.
Non ne ho mai mangiata una! Il nostro gatto soriano ogni notte riusciva ad entrare , saliva ed attraversava il presepe con ingenti danni, e ne mangiava una. La mattina dopo trovavamo lo spaghetto che pendeva , e basta. Ma lo perdonavamo sempre!
La sera della vigilia avevo il permesso speciale di andare a dormire nel lettone dei nonni, alto, ma così alto, che se fossi mai caduta mi sarei rotta l’osso del collo. Il nonno , dopo avere tolto il “frate” con la brace ancora calda, mi faceva posto ed io gli dicevo:- Ricordati di lasciare aperta mezza persiana, stasera lo voglio proprio vedere, Gesù Bambino.
E così faceva.
Intanto arrivava anche la nonna col suo camicione felpato: io mi stringevo a loro ed ero assolutamente felice. Bisognava stare zitti! Nel buio spiavamo quel riquadro di cielo scuro, per vedere se qualche lucina si muovesse, ma niente. Tutto fermo.
Non so perché, ma mi addormentavo sempre un momento prima che Gesù Bambino entrasse nella stanza!
La mattina dopo, i regali erano lì, proprio quelli richiesti, e spesso uno in più a sorpresa… Il cavallo a dondolo, i pentolini, il mio primo bambolotto Franco, di cartapesta, la Tombola, ma soprattutto libri!!!! Libri!!! Com’era buono, Gesù Bambino! Mi accontentava sempre.
Un anno, avrò avuto sette-otto anni, avevo fatto parecchi capricci e combinato parecchi guai; genitori e nonni mi minacciarono più volte di…andare in bianco coi regali. Chi ci credeva? Gesù Bambino , se è vero che era buono, mi avrebbe certo perdonato tutto! La mattina di Natale, solito salto all’alba giù dal lettone dei nonni, ma…il NULLA!
No, Gesù Bambino non poteva avermi fatto questo… Subito credetti che i regali fossero nella camera da letto a fianco: niente. C’era però una lettera, scritta a macchina , Olivetti lettera 22 ( si vede che in Paradiso usano quella...) .
Gesù mi diceva che era dispiaciuto, ma non meritavo nulla…chissà il prossimo anno, se mi fossi comportata meglio.
Ricordo ancora, come se fosse ieri, l’umiliazione profonda, ed il dolore che mi faceva male al petto.
Riuscii a non piangere , ma la gola mi bruciava dalle lacrime trattenute. Non volevo neppure andare a Messa, ma la cosa non si discuteva….il giorno di Natale???
In piazza, davanti alla Chiesa, le mie amichette, i mei compagni di scuola mi corsero incontro ,gridando:- Che cosa ti ha portato?
Non potevo mentire; risposi. –Niente.
Credo sia stato uno dei momenti più difficili della mia infanzia. Ma la lezione è servita.
Ultima: La neve. La neve è caduta , se non sempre, spesso, la sera della Vigilia.
Con il cuore che batteva forte dall'emozione, uscivo nel cortile e raccoglievo con la bocca spalancata i primi fiocchi che sfarfallavano piano...
Io ero convinta che fosse Gesù Bambino a mandarcela, per rendere la notte di Natale proprio magica!
E magari era LUI davvero!!!
Mia madre oggi mi ha raccontato un altro ricordo tenero del suo Natale di bambina
1935. .Abitava a Mango da poco, ed era quasi Natale. Iniziò a preparare il presepe , ma aveva solo San Giuseppe, la Madonna e il bue...e pochissime statue.
Mio nonno Ricu , che era buono come il pane ma piuttosto tirchio, le aveva già comprato un Gesù Bambino( che aveva pagato solo mezza lira,scontato, perchè era un pò macchiato...) le disse che non potevaspendere un'altra lira per l'asino!!
Lei lo raccontò con un grosso magone ad un compagno di giochi, Luigi - futuro panettiere di Mango - e lui il giorno dopo arrivò con una sorpresa: un piccolo asino di cartone, disegnato e colorato, con un piedistallo dietro,per tenerlo in piedi!
Vedendo la sua gioia, le costruì ancora altre statuine di cartone , perchè anche lei avesse un presepe completo.
Lui, essendo di famiglia benestante, ne aveva uno grande e bellissimo!
A distanza di quasi ottant'anni, mia madre si emoziona ancora nel raccontarlo! I gesti di bontà non muoiono mai....
Rosy Volta
NATALE ‘55
Lunedì 19 dicembre 1955. La Topolino con mio papà al volante sta sfrecciando (si fa per dire…) tra Cuneo e Mondovì. Siamo stati a Borgo S. Dalmazzo a ritirare i panettoni direttamente dal laboratorio della Dulcioliva, quei panettoni i profumatissimi di vaniglia, uvetta e canditi, avviluppati nella carta verde.
“Per regalare ai migliori clienti”, ha detto mio papà. Il cofano ne è quasi pieno. Già, in un negozio da barbiere e parrucchiera per signora per Natale a volte non bastano i soliti calendarietti profumati, Pin-Up per gli uomini e Panorami d’Italia per le signore. Mi vien da ridere, perchè se viene il parroco o qualche forestiera distinta la mamma è svelta a ritirare quelli delle Pin-Up e a nasconderle nell’armadietto.
Quanti me ne hanno fatti imbustare, nelle sere precedenti, di quei calendarietti: prendere la busta opaca, soffiarci su, aprirne i lembi, poi infilarci il calendarietto, facendo attenzione che il fiocco rosso sia sempre dalla stessa parte.
Ci siamo fermati a Cuneo in via Roma. Mia mamma è scesa per andare a fare alcune compere, io e mio papà l’abbiamo aspettata in macchina. E’ ritornata dopo una mezz’oretta con dei pacchi colorati.
“Mamma, mamma, cosa c’è in quei pacchi?
“Niente, sono dei prodotti cosmetici, delle commissioni che ho fatto per delle mie clienti”.
Mio padre e mia madre parlano del più e del meno. Ormai è calata l’oscurità. Io, seduto dietro, scopro uno spiraglio tra schienale posteriore e cofano. Ci infilo una mano. Sento un frusciare leggero di carta, ma il rumore dell’auto è abbastanza alto da coprirlo.
Palpo. All’interno una cosa dura, squadrata. La muovo e sento un movimento di tanti legnetti che sbattono. Se non sapessi che ciò non è possibile, direi che è una dama. Strano, sulla letterina di Gesù bambino avevo scritto proprio una dama, oltre che un pallone ed un libro. Allungo ancor di più la mano e un dito mi si impiglia in una reticella. Ripalpo e sento all’interno qualcosa di sferico. Una palla?!?! Non può essere… Come si può verificare una tal evenienza? Per chi sono quei giocattoli?
Taccio, ma mille domande mi angustiano. E se la storia di Gesù Bambino fosse tutta una messinscena? No, non è possibile… “Beh, ci voglio credere”, mi dico, “Certo che però se a Natale mi arrivano proprio quei regali avrò una prova che quella di Gesù Bambino è una storiella che si propina ai bambini, chissà con quale scopo, poi…”
Già l’anno prima qualcosa non mi era quadrato dai nonni a Serravalle Langhe, in Leprato, dove i miei mi avevano mandato la settimana di Natale. Alla vigilia mi ero addormentato credendo di trovare i doni accanto al letto al mio risveglio. Nonna Maria e nonno Pietrino mi avevano fatto dormire nella loro stanza, aggiungendo una brandina a ridosso della parete.
Il muro era in quel punto era irregolare:
“Qui stai al caldo”, aveva detto la nonna, “una volta qui c’era il camino, adesso l’abbiamo chiuso ma dentro ci passa il cannone della stufa della cucina di sotto. Metti la mano, tocca. Senti come è caldo?”.
La nonna, comunque, sempre mi metteva il frà: era un piacere coricarsi in quell’oasi calda, badando bene a non allungare troppo i piedi a lato, pena un’escursione rapida quanto spiacevole dall’equatore ai poli.
Al mattino appena sveglio avevo guardato con circospezione a fianco della branda, poi in fondo, poi sotto. Niente. Solo sulla cassettiera c’era qualcosa di anomalo: un panettone ben avvolto nella carta verde.
Corsi giù per le scale, raggiungendo la cucina. Nonna Maria era intenta attorno alla stufa quattro fuochi. Tutto bolliva: afrori di capponi bolliti, cipolla, sedano, carota.. .
Sul tavolo, strisce parallele di raviole solo più da tagliare. Era il giorno di Natale, per pranzo sarebbero venuti i miei, ma anche zio Bruno e zia Iva, zio Aldo e zia Rina, oltre a zio Luigino che già viveva lì.
Infatti, quest’ultimo era in un angolo che stava sorbendo una scodella di latte.
“Tè, sono stato di là in sala e ho visto che in un angolo c’è una bùsa.”.
Mattacchione! Così chiamava il Bunèt che mia nonna faceva, che metteva poi a riposare in sala, che in realtà era una stanza freddissima, seminterrata, utilizzata solo d’estate perché fresca.
“Senti Luciano”, disse la nonna, “sono venuti a dire dal posto pubblico che tua mamma ha telefonato che c’è stato un errore: Gesù Bambino ha lasciato i tuoi regali a Monchiero. Qui per te ha lasciato solo un panettone, te l’ha messo sulla cassettiera”.
Visto il mio disappunto, si affrettò ad aggiungere:
“Tanto a mezzogiorno vengono qui e te li portano..”.
“Eh no, non è la stessa cosa”, avevo pensato. “Certi errori non si fanno, caro Gesù Bambino. Sei o non sei il figlio di Dio, che tutto sa e tutto può? Come hai potuto sbagliarti? I regali sono uno cosa seria tra me e te, che c’entrano i miei genitori?. E poi, se hai portato il panettone, non potevi portare anche il resto?”.
Il Natale del ’55 a Monchiero si preannuncia senza neve.
“Mai vista una cosa così”. Ha detto mio padre. Ceniamo ascoltando melodie natalizie dalla nostra fiammante radio, una Magnadyne S34, sistemata in cucina su una mensola infissa al muro. Sotto la mensola un albero di Natale. Il pinetto l’ha preso mio papà da qualche parte, poi mia mamma l’ha piantato in un vaso di terra, poi l’ha vestito di mandarini, nastrini colorati. Ci ha appeso pure dei disegnini natalizi che credo abbia ritagliato da alcune riviste per signora che girano nel salottino d’attesa del negozio. Qui e là bambini di zucchero e palline di cioccolato rivestite di carta stagnola rossa. In cima, una bella stella di cartone, ritagliata e colorata col pastello giallo.
Poi ci vestiamo e andiamo alla messa di mezzanotte. Mi sistemo nella chiesa proprio sotto il fanale di una stufa a gas. Don Giulio ne ha fatta sistemare una per ogni pila. Per ogni pila c’è pure una bombola di gas.
A fine messa baciamo il bambino che Don Giulio tiene tra le braccia e ci avviamo all’uscita, accompagnati dall’ultimo “Regem venturum Dominum, venite adoremus...”.
Qualcuno dice: “Nevica!”
No, non può essere vero, scherzano.
Invece no, il prato è appena bianco, due dita, ma viene giù decisa, anche se leggera, dato che volteggia a lungo prima di posarsi. Qualcuno ne afferra una pugnata e parte la prima maloccata. A provocazione si risponde, che diamine! Parte un’altra maloccata, poi un’altra ancora e poi ancora un’altra. Tutti si tirano palle di neve. Lì nessuno ne è esente, non esistono né ceti, né gerarchie. Anche il sindaco se ne prende una sulle spalle. E’ un gentiluomo. Si volta e sorride.
Arriviamo al passaggio a livello. Le sbarre sono abbassate. Qualcuno si china e svelto attraversa i binari. Mia mamma mi trattiene. Arriva il “celerone” da Ceva, sbuffando vapore come un vecchio asmatico. “E’un ciuf-ciuf!” , sbotto. La linea è elettrica, i convogli a vapore sono ormai rari. Vederne uno ogni volta è come entrare in una favola.
Il convoglio sfila sferragliando. Attraverso i finestrini vedo viaggiatori e viaggiatrici.
“Poverini”, penso, “dove se ne vanno la notte di Natale? Non hanno una casa dove aspettare il bambino?”
Entro in casa e subito vado a letto. Dalla finestra accanto al letto vedo la scalinata che porta alla stazione. I gradini sono ormai quasi tutti coperti di neve. Nel cono del lampione vedo cadere i fiocchi come se fossero migliaia di farfalline, le stesse che nelle notti d’estate vengono su dal Tanaro e volteggiano, volteggiano.
A forza di fissare i lampada e fiocchi si crea un effetto ottico curioso: sembra che i fiocchi siano immobili a mezz’aria e che sia la lampada a muoversi , in un’ascesa irrefrenabile, e che io ci sia attaccato con un filo e da lei venga trascinato su, come sul ponte di comando di un’astronave diretta alla sorgente della neve.
“Mettiti a letto, Luciano, se no Gesù Bambino non viene”, dice la mamma.
Stavolta Gesù Bambino non mi freghi, mi metto sotto le coperte, faccio finta di dormire ma invece sto sveglio. Voglio vedere come la metti. Qui sul balcone c’è già una spanna di neve: se ci metti piede, domani mattina vedo le pianà”.
E’ mattino. Mi sveglia il rumore di una pala che raschia sull’asfalto. Il giorno è già nella stanza. Al fondo del letto dei pacchi. Salto giù, li guardo, poi scruto oltre la finestra. In strada mio papà che spala la neve davanti a casa. Sul balcone venti centimetri di neve. Intonsa, di pianà neanche l’ombra.
Salto sui pacchi, strappo la carta.
Una bella scatola di legno: su una facciata il gioco della dama sull’altra quello della tela, con un cassettino ripieno tante pedine bianche e nere. Poi un borsa di rete con un pallone arancione. Infine un libro con le avventure di Pinocchio.
“Allora mi si prende in giro”, penso. Decido di far finta di niente. “Tanto, cosa ci perdo? E’ un gioco? Giochiamo!”.
Quella fu la prima volta che mi resi conto che non sempre quello in cui si crede è vero. Dopo, un po’ alla volta, ho capito anche che se non si crede in niente, vero o non vero che sia, la vita vale la pena di essere vissuta. Natale, infatti, continuo a scriverlo con la maiuscola.
Luciano Boero
I miei ricordi di Natale e dintorni sono, per conseguenza vecchi e risalgono ai primi anni del dopoguerra quando il "partigiano Johnny" era sceso dalla collina ed il Natale senza neve era una rarità. Allora le donne di casa un giorno della settimana si radunavano al forno a legna per cuocere il pane e nelle fredde giornate invernali il suo fragrante profumo rimaneva nell'aia per tutta la mattinata. Le nonne, quasi di nascosto, infilavano nel forno dei cestinetti di pasta frolla con dentro una mela, la più bella che erano riuscite a trovare. I bimbi di allora, anche d'inverno, portavano i pantaloni corti ed i calzettoni di lana grezza ed aspettavano con ansia di poter vedere la mattina di Natale Gesù bambino che era disteso nel cesto di vimini vicino al camino o nella mangiatoia della stalla. Da quelle parti si trovavano anche i cestini si pasta con la mela cotta all'interno. Le nonne dicevano che erano per i bimbi buoni. Per quanto posso ricordare i bimbi cattivi non esistevano proprio.
Dopo quegl'anni i Natali si sono succeduti con rapidità sempre crescente ed hanno portato dolci sofisticati e diversi. Io continuo a cercare il profumo del pane di allora e non mi rendo conto che esiste solo più nei miei ricordi. Forse la mia nonna conserva ancora nel grembiule il cestino con la mela per darmelo quando ci reincontreremo ancora.
Buon Natale.
Giovanni Prunotto
Ho tanti bei ricordi legati a quelli trascorsi in Langa , presso la cascina dei nonni materni, tutti i cugini riuniti, il pentolone , fumante, a cuocere nella stufa, colmo di profumate raviole,la notte, silenziosa , nel letto scaldato dal "prete", il risveglio con la neve che brillava sotto il sole e ci impediva di aprire la porta ,io che mi tuffavo, felice, in quel manto soffice ( se mi capita, lo faccio anche ora). Ma Il ricordo di Natale più bello è legato al reparto di maternità dell'ospedale Galliera di Genova , dove ho ricevuto il regalo più bello , Mia figlia !
Miralba Gamba
Nei miei natali di bambina non erano previsti grandi regali, famiglia numerosa 6 figli piu I nonni. Qualche settimana prima di Natale mio papà prendeva la corriera è andava ad Alba, qualche giocattolino per i piu piccoli ma per i grandi una maglia un berretto. Io bambina curiosa e forse neanche più tanto bambina e chiacchierona leggo sul pacco il mio nome e esclamo a gran voce: “ Ma Gesù bambino scrive la C come nonna”. Mi arriva uno scapaccione: “ Stai zitta quelli piccoli non lo sanno che Gesù bambino non esiste!.”
Ecco come ho scoperto che non era Gesù bambino a portare i regali.
Murycylo Vitaintensa
A Santo Stefano
Dopo Natale c’era la festa di S. Stefano, ed era quasi d’obbligo per chi non aveva da allontanarsi da casa, di replicare il pranzo di Natale per finire le vettovaglie rimaste , A S. Stefano mio padre desiderava mangiare gli agnolotti al vino , naturalmente con il suo vino; un dolcetto che arrivava dalle terrazze di Gorzegno, un vinello generoso che con gli agnolotti si univa molto bene . Lo stesso si poteva dire per tutto quello che rimaneva ancora da consumare . Ma non tutto il cibo era rimanenza del giorno prima, i carciofi ripieni alla Genovese erano la passione di tutti noi , mia madre le cucinava al forno come nessuno era capace a fare, ed era il piatto sorpresa che prendeva alla gola come nessun altra succulenza .Panettoni ne rimanevano sempre molti ,erano i regali che arrivavano in famiglia. Ripieni ,pandoro o biscottati questi finivano quasi sempre per essere regalati . Il pomeriggio era d’obbligo portare mio padre a fare il giro dei ricordi , difficilmente mia madre ! che preferiva rimanere a casa per confabulare con i vicini i segreti e i retroscena delle feste natalizie, e le tante soddisfazioni umane che queste regalavano . Con mio Padre era d’obbligo ritornare dietro nel tempo . Niella Belbo .,S. benedetto dove aveva fatto il servitore , Gorzegno La casa dei “Granaret “dove era nato . La scuola del paese dove Gallesio diede a Beppe Fenoglio la possibilità di Scrivere un Racconto Epico. La casa del Pul suo cugino, e poi Quella dei Siezi ,dove ci fermavamo per salutare il suo amico Pietro . Queste era il modo di passare il Natale a casa mia , poi naturalmente ci sarebbe molto altro da raccontare ancora su questa meravigliose solennità .Perché nelle Langhe come in qualsiasi altra parte del mondo , ogni famiglia è una storia ,e ogni storia si riferiva a una famiglia.....
Bruno Murialdo e Donchisciotte
Natale con Bàȓbo
Furono almeno tre i Natali che passammo con Bàȓbo invitato a pranzo .
Erano i primi anni ’60 ed immancabilmente la settimana prima del 25 dicembre, mia mamma mi mandava da lui a chiedergli se volesse venire da noi a mangiare, il giorno di Natale: “Visto che vive da solo tutto l’anno, che almeno a Natale mangi in compagnia di qualcuno!” Mia madre Mariuccia mi coglieva di sorpresa ogni volta, proprio lei che di solito pativa ad avere un invitato a pranzo, conscia delle non eccelse capacità culinarie, perché si voleva “rovinare” così il pranzo di Natale?
In effetti il cuoco di casa è sempre stato papà Eligio, bravissimo nel fare arrosti, spezzatini ed intingoli vari. Il pezzo forte di Mariuccia era solo l’insalata russa, preparata in un grosso piatto da portata ovale, guarnito tutto a fiorellini e fili d’erba fatti con uova sode, piselli e fagiolini: un piatto di grande effetto veramente!
Tornando a me, andare ad invitare Bàȓbo, personaggio che m’incuteva un po’ di timore da sempre, non mi piaceva per niente, ma il permesso, concessomi così raramente d’inverno, di andarci in bicicletta, superava ogni paura.
Inforcavo la bici e mi spingevo a gran velocità per dritto fino alla piazzetta della Chiesa dei B., attraversavo il passaggio a livello della ferrovia , calavo giù per la strada dell’asilo che portava ai prati sotto la collina di S. , dalle parti del Camposanto.
Bàȓbo stava in un ciabòt sotto un vecchio pero della madernassa, un monolocale, diremmo oggi, con servizi esterni, un bugigattolo con un asse bucato che dava direttamente sulla bialera che scorreva sotto.
Combinazione lo trovavo sempre lì, che si friggeva i suoi pesci “i barbi” (da cui il suo stranome) , pescigatto che aveva pescato a Tanaro alla mattina, con qualche carpa o raramente un luccio.
L’odore di pesce malfritto, di fango, di fogna, e di sudiciume incrostato da anni la faceva da padrone , ma vincendo lo schifo m’avvicinavo lo stesso al portoncino tenuto col cordin e battevo due colpetti. Bàȓbo, come tutte le volte, appena mi vedeva, mi faceva un enorme sorriso in cui svettavano come torrioni solitari e invitti i due incisivi di sopra, allargava gli occhi, sollevava i folti baffoni da pescegatto umano e con quella voce stridula che hanno solo le persone che non hanno mai l’occasione di parlare con qualcuno m’accoglieva dicendo “ Càtȓo sì ‘ȓ Gȓanaȓètin!” “Mia mamma chiede se, come l’anno scorso vieni a mangiare da noi a Natale” “ Certo che vèn, gȓassie, ‘s voghìma”
Bàrbu era uno di quei “giȓolon”, girovaghi di strada, originario di qualche parte delle Langhe – per questo conosceva mio padre e i Gȓanarèt di Gorzegno. Come e quando avesse traversato Tanaro e fosse giunto ai B. nessuno lo sa. Ora viveva lì nel ciabòt e si offriva a lavorare a giornata per sbardè o liàm (spargere il letame) nei prati in autunno o aiutare nei lavori agricoli.
Lo si vedeva girare poi continuamente, sulla sua sbilenca cigolante bicicletta per le vie del paese con il suo carico di zampini e di pelli seccate di coniglio, delle quali faceva commercio così come delle pelli di talpa. Era infatti anche un bravissimo talpaio. Quando i piccoli roditori devastavano troppo le culture i contadini chiamavano Bàȓbo. Lui arrivava all’alba e con la tecnica di prenderle a zappate non appena ergevano il loro cumuletto, le faceva fuori, a centinaia. Le metteva tutte in fila, (prendeva un tanto l’una), le scuoiava, faceva seccare le pelli , allora molto pregiate per via della morbidezza. Cosa ne facesse dei cadaverini nessuno lo sapeva ma noi bambini dicevamo che se le bollisse nel minestrone.
Bàȓbo arrivò anche quel Natale a casa nostra portando in dono nel cestino da pescatore tre barbi e due piccole carpe.
Le carpe, messe da me in un mastello pieno d’acqua resuscitarono subito ringraziandomi sbattendo le rosee branchie. I barbi non rinvennero, erano forse del giorno prima, un po’ grigetti, avevano già reso l’anima.
Bàȓbo col bertin di lana blu, avvolto in un giaccone consunto di fustagno, pantaloni a coste grosse, con le toppe a gomiti e ginocchia, salì le scale di casa nostra coi scarponi chiodati che facevano scintille ad ogni gradino: sembrava uno strano sfigato Babbo Natale. I pochi capelli eran bisunti ma s’era fatto la barba e sotto i baffi troneggiavano i due incisivi da pescegatto. Tolta la giacca, mise in mostra un meraviglioso focòl (fazzoletto-sciarpina) a pallini verdolini, forse dono di una vedova che aveva curato o di qualche remota fidanzata, salutò con deferenza i miei e sedette a tavola dopo aver scompigliato con le sue manacce la testa ad ognuno di noi tre “Gȓanaȓètin”, impossibilitati a darci alla fuga.
Per tutto il pranzo Bàrbu, mio padre e mia madre parlarono tra loro in piemontese, linguaggio proibito a noi bambini che ci tenevamo alla larga dall’altra parte della tavola. I miei fratellini si davano calci da sotto, si pinzavano il naso nel segno di non sopportare la puzza ed io cercavo di fermarli perché Bàȓbo non vedesse.
Bàȓbo si comportò invece , come sempre, da gentleman, mangiò tutto di gusto e bevve molto di quel dolcetto “nen tȓavajà”, genuino, fatto da bàȓba Andrea alla Bosia. Il meglio di sé lo dette al momento dei cappelletti in brodo (Mariuccia aveva insistito che per Bàrbu fosse meglio il brodo caldo invece che le raviole).
Dopo essersi rapidamente mangiato i cappelletti, si profuse in rumorose aspirazioni con la bocca ad ogni cucchiaiata di brodo.
La destrezza e la sonorità di Bàȓbo nel sorbire il brodo suscitò l’estremo interesse di noi bambini ma, la sera successiva, la nostra imitazione di Bàȓbo, nel mangiare il minestrone, ci procurò solo una sgridata ed un paio di scappellotti.
“Perchè Bàȓbo sì e noi no?”
“Può solo farlo Bàȓbo, a Natale” fu la risposta e la cosa finì lì.
Ma non c’era una logica.
Fu l’ultimo Natale con Bàȓbo.
L’anno dopo, in una sera di nebbia, rimase agganciato con la bici al rimorchio di un “bilic” sulla statale di Santa Vittoria e ci finì sotto.
Giampiero Johnny Murialdo
Io e il mio babbo la domenica prima del Natale andavamo nei boschi (anche con la neve) a cercare l' abete per fare l’albero di Natale.
Era sempre lunga la ricerca perché papà non
voleva danneggiare e spesso e volentieri a casa portavamo l' abete meno bello, quello che
era cresciuto soffocato in mezzo agli altri ,
ma poi, una volta piazzato nell' angolo giusto, papà lo aggiustava facendo dei fori nel tronco e aggiungendo rami dove mancavano .
Lo rendeva sempre perfetto. Sui rami aggiunti appendavamo solo bottoni rivestiti di carta lucida e caramelle.I mandarini sui rami più forti.
Era bellissimo.
Quell' anno aveva nevicato tutta la vigilia di Natale, papà aveva spalato la neve e fatto tutti i sentieri intorno alla casa .
La mamma preparava agli agnolotti io e mio fratello giocavano a carte sul davanzale della finestra, la televisione non c 'era a casa mia.
E le mele rosse che piacevano a me erano finite mangiavo nocciolo e noci e non vincevo mai la partita.
Si era fatto tardi e la mamma ci mando' a dormire dopo averci riscaldato il letto con il (frate) stavo per addormentarmi quando mio fratello di tre anni più piccolo di me mi chiamò tutto agitato e mi disse “Silvi!!! Papà non ha tolto la neve sulla scala esterna quella che dall' aia scende in cortile
Come farà Gesù Bambino se passa da lì ?
Cade!! “ . “Hai ragione dissi io , dobbiamo aspettare che anche la mamma dorma e poi scendiamo e andiamo a toglierla.
Le nostre porte non erano blindate , c’era un piccolo chiavistello. Senza il minimo rumore uscimmo fuori scalzi e in pigiama togliemmo tutta la neve dalla scala con le mani e poi con il pigiama bagnato e
i piedi congelati tornammo a letto soddisfatti: Gesù Bambino poteva passare.
I nostri genitori non seppero mai della nostra bravata e la mattina di Natale
Si era troppo indaffarato per fare caso alla scala ripulita si faceva colazione con i biscotti che faceva papà nel forno del pane.
Che dolce nostalgia.
Silvana Vero
Il Natale in casa mia è sempre stato una festa, ma senza esagerazioni. Si addobbava l'albero "vero" con palline di vetro, formine varie di cioccolato e anche qualche frutto....e poi c'era il presepe, quello non mancava mai...con statuine di gesso....bellissime!!
La sera precedente il Natale andavo con la mamma a messa e poi a nanna....ad aspettare con ansia Gesù Bambino. ..perché era Lui che il mattino seguente mi portava i doni sotto il cuscino.....che gioia provo ancora adesso a ricordare...la corsa verso i miei per dimostrare loro quanto fossi stata buona.....
Oggi non usa più e nessuno crede più a Gesù bambino....è un continuo scartare pacchi di regali costosi e spesso "inutili"...ma la felicità provata allora, quando ero piccina ed ingenua la rimpiango. ...non l'ho mai più assaporata!
MariaNice Pilotto
Natale quando ero piccola per me significava anche la felicità di uscire la sera dopo cena , cosa che non facevo mai , e andare alla novena nella cripta del Duomo ....in famiglia eravamo in otto e tutti e otto partecipavamo. Ricordo ancora la mamma e le zie che si sgolavano a cantare le lodi … En clara vox…
Ma il momento più atteso era all' uscita quando "attaccavamo " i mucchi di neve , allora altissimi , in piazza e ci giocavamo fino a quando eravamo fradici. Allora di corsa a casa per non beccarci un malanno, una lavata velocissima e subito a nanna sotto un quintale di coperte, non esistevano ancora i piumoni, e le case non erano riscaldate come adesso.
Claudia Viberti
Il mio ricordo di Natale: inevitabilmente dai nonni nella grande casa di Canove
Mescolanza di profumi , di voci , di armonia e il cortile quasi sempre innevato .
Il nonno comodamente seduto sulla sua poltrona unico trofeo inaccessibile a tutti , di tanto in tanto faceva capolino dalla pagina della sua adorata Stampa : “bravi bambini fra un po' si mangia” .
La tovaglia sempre bianchissima come se anche in casa avesse nevicato ,il tintinnare di piatti e bicchieri , il brontolio della nonna : “chiudete la porta fa freddo” Ma come resistere a quel cortile tutto imbiancato ? Al cane Boby che come impazzito ricamava l'esterna tovaglia con il via vai delle zampe?
Magia dell'infanzia dove la felicita' e' la presenza delle persone amate , dove la tristezza ha il diverso sapore della futura speranza , dove tutto è un nuovo Natale di nascita e rinascita nella scoperta .
Grazie a questi fantastici Natali che mi fanno sopportare Natali ben diversi
Buon Natale a tutti.
Mariella Bottallo
Sul grande tavolo nell'angolo della cucina, io e mio fratello avevamo fatto il presepio. La capanna era fatta di "maciafer" (il residuo della combustione del carbone, del quale conservo ancora 4 pezzi), con il muschio fresco e umido, che ogni anno accorciava le zampe di gesso delle pecore. Nell'angolo contro il muro c'era l'albero di Natale, che consisteva in due o tre rami tagliati dal cespuglio del vicino di casa, ornato di caramelle, "bambin 'd sucher", cri-cri, mandarini e noccioline legati con il cotone da cucire. Unico lusso un puntale, qualche pallina e qualche filo argentato.
L'attesa dei doni, che erano portati dal "Bambin" e non da Babbo Natale, ci faceva stare svegli più a lungo, ma non abbastanza per "beccarlo" quando veniva a posare i pacchetti sul comò. Al mattino, sveglia presto e, incuranti dei vetri arabescati dal nostro fiato gelato, saltavamo sù a scoprire cosa contenevano quei due o tre pacchettini. C'era quasi sempre una nuova statuina per il presepio e un gioco per ognuno di noi due. Un pacchettino di dolciumi per tutta la famiglia e un taglio di tessuto per un vestito nuovo per la nonna. Mentre scrivo rivivo l'emozione di quei momenti che, purtroppo, i miei nipotini non provano di certo di fronte a quella montagna di pacchetti che Babbo Natale lascia o sotto l'albero o a casa di zii e amici (che disordinato questo Babbo Natale). Nella semplicità e nella dolcezza di quei momenti c'era, secondo me, la vera essenza del Natale: amore, calore della famiglia, semplicità, gioia vera.
Bruna Mascarello
Era la magia della luce spenta per guardare l'albero di Natale con quella novità delle luci elettriche che si accendevano e spegnevano. Fino ad allora solo quelle palline di vetro fino con la neve incollata sopra che mia madre avvolgeva nella carta una per una, erano state l'unico addobbo. Insieme, luci e palline, facevano una danza di specchi e fiammelle da incantare noi bambini. Sotto i pastori con Gelindo in testa si avviavano alla grotta fatta di carta stropicciata. Nell'aria un odore di biscotti invitava alla merenda. Poi, mia madre prendeva un libro e ci leggeva le storie del Natale.
Daniele Bornengo
Ho dei ricordi bellissimi...I più sono in Langa quando, quasi trentacinque anni fa, cadeva parecchia neve e io, arrivando da Torino, andavo a trovare i nonni. Felicissima perché sapevo di passare giornate a giocare nella neve con il bob , bere latte di mucca appena munto e pane fatto in casa da nonna, tutto questo al tiepido calduccio della stufa a legna. Ma i ricordi che mi rimarranno e che trasmetto ai miei ragazzi e la serenità di quel periodo: l'albero fatto da mia mamma, il presepe che non mancava mai e cercare di rimanere sveglia per vedere Gesù Bambino che mi portava i regali per essere stata brava durante l'anno. E il caldo abbraccio dei miei genitori la mattina del 25.
Clotilde Priero
Anch'io ho un ricordo bellissimo di Natali passati con i miei fratelli di un albero di Natale addobbato solo di cose da mangiare: caramelle cioccolatini mandarini arance che finito le feste dividevamo in quattro (essendo 4 bimbi) e poi ognuno se li costudita gelosamente felici vicino alla stufa a legna che riscaldava tutta la grande cucina.....
Rosa Pellerino Francone
Del Natale ricordo il Presepe, la ricerca curata di ogni singolo elemento, l' albero rigorosamente vero preparato con i miei tre fratelli e la mamma con le mani nei capelli terrorizzata all' idea che rompessimo tutte le palline, e il nonno che la sera con il nostro aiuto controllava il funzionare delle luci, tocco finale; ricordo ancora i regali ricevuti, a volte sospirati tutto l'anno, ricordo un terribile paio di pantaloni in velluto obbligata a portare .. Ma il mio vero ricordo è legato alla sera del 24, nulla avrebbe potuto spezzare l'incantesimo del ritorno a casa dopo la messa di mezzanotte, i nonni svegli che ci aspettavano con tavolo pronto, il brodo caldo, il bollito, i mandarini, .. io, i miei fratelli, papà e mamma, i nonni, zio Fede e zia Grazia... Questo il mio ricordo e questo il mio Natale che tanto tanto mi manca ...
Monica Francone
Il Natale che ricordo io è di qualche annetto fa. Intorno al 1982-83. Frequentavo la piccola scuola elementare d'Igliano e noi allievi eravamo rimasti una decina. Fuori nevicava e la maestra Massa di Ceva aveva deciso di mettere in scena una vecchia recita di Natale. Quella in cui si parlava di Giuseppe e Maria che chiedevano ospitalità ai vari osti e alberghi; il tempo scandito dai rintocchi di un campanile. Quel mattino la maestra non arrivava e noi, preoccupati e tesi per la recita, ripassavamo mentalmente la parte, cercando conforto gli uni negli occhi degli altri. Ad un tratto giunse sul piazzale innevato, con l'auto coperta di neve e i doposcì bianchi pelosi che in quegli anni andavano tanto di moda. Riuniti attorno alla stufa a legna concordammo le ultime cose e poi la maestra andó a chiamare Don Michelotti, il vecchio, duro, infaticabile parroco di Langa. Mani enormi, voce tonante, mai lontanamente sfiorato dal Concilio II. Diceva messa in latino e faceva la predica in piemontese. Ci faceva un po' paura è un po' tenerezza. Il saperlo alla recita non aiutava ad essere rilassati. arrivó quasi subito con la lunga tonaca nera e si pos con le mani conserte ad osservare. Avevamo allestito la capanna sotto un lungo e stretto banco a due posti. Io ero San Giuseppe e Patrizia la Madonna. La recita filó liscia, e nessuno sgarró una parola. Il campanile suonó sul serio attutito dalla neve e la maestra era orgogliosa all'inverosimile. Ad un tratto tuttavia ci voltammo verso il parroco e ci accorgemmo che stava piangendo. Grandi lacrime stavano scendendo dalle guance e volgeva lo sguardo altrove. Salutó tutti frettolosamente, distribuì caramelle, togliendole dalla tasca profonda e filó via. Non sapevamo che dire. In quegli anni veder piangere un adulto, soprattutto un duro come il Don, non era comune. La maestra, un po' presa alla sprovvista, ci diede i doni e si complimentó con tutti. Il giorno dopo andai in chiesa a cercare il Don con mio padre per fare due chiacchiere. Aveva sulla scrivania delle foto un po' scure. Un giovane cappellano che gli somigliava assisteva a una recita di Natale nelle trincee del Rombòn. Identica alla nostra ma i figuranti erano alpini. Aggiunse:"Erano i miei ragazzi". Sono morti quasi tutti nei mesi successivi. Li benedicevo mano mano che li buttavamo nelle fosse. Un masèl!
Emanuele Bella
Anche per me, da bambino, era quasi un rito andare a raccogliere il muschio per il Presepe e partire in auto, una vecchia fiat 600 (mi ricordo la targa CN45051) sulle strade della Langa per cercare un pinetto non troppo grosso da addobbare con le palline rigorosamente di vetro.
Come ho già detto prima in un altro post, oltre alle decorazioni natalizie più preziose ed intoccabili, venivano appese all'albero di Natale anche alcuni pupazzetti di plastica che trovavamo nei fustini del Dash e nelle confezioni dei detersivi, come il mitico Angelino mio coetaneo (leva 1958) e campione di bontà perchè voleva sempre aiutare le persone in difficoltà e si cacciava in un mare di guai.
In particolare Angelino e Topo Gigio, senza un occhio che poi rifeci io con il cartone colorato, erano per me più belli di tutte le decorazioni anche perché potevo giocarci ore ed ore sotto l'albero che, illuminato dalle lucine belle calde, emanava un odore di resina intenso che ancora adesso associo volentieri a quei cari ricordi.
La notte di Natale si andava alla Messa serale e poi subito a letto ad aspettare in silenzio Gesù Bambino che portava i doni....ma non riuscivo a dormire ed alle 6 del mattino correvo in camera dei miei genitori per svegliarli e chiedere il permesso di andare a vedere se era passato veramente.
Mia mamma che mi aveva educato severamente ma anche molto dolce con me mi diceva che se ero stato buono in quest'anno passato sicuramente Gesù Bambino mi avrebbe portato i doni.
Che stupore e meraviglia (gli stessi che ho visto nei miei figli piccoli per tanti anni) scoprire quei pacchettini (non tantissimi, in verità) sotto l'albero illuminato
E Gesù Bambino sapeva sempre cosa desideravo....erano il traforo di legno, le mattonelle per le costruzioni, il garage con le macchinine, un piccolo magnetofono Geloso (la marca ).
Quanta gioia in quei momenti...onestamente non so dire se ero più felice io con queste piccole cose oppure i miei figli con decine di pacchi con tecnologie varie, spade laser, playstation ecc.
Ma certamente anche il Gesù Bambino di oggi ha sempre portato ogni anno un gioco con la raccomandazione che i miei due figli lo usassero insieme da bravi fratello e sorella....che saggio questo Gesù Bambino.
Questi sono i ricordi che emergono dalle nebbie della mia mente proprio come oggi il sole sorge da un mare tenue di nebbia....
Ci sarebbe anche la storia del pranzo di Natale....anche noi avevamo uno "zio" Armando da sfamare, ma non voglio tediarvi ulteriormente,
Buon Natale
Enzo Bartolomeo Giacone
“Bundì bundì, ra stràina dàmra a mì,
dàme ‘n curùmb che r’àn u rè lung”
“Buondì, buondì, la strenna dalla a me,
dammi un colombo (dolcetto a forma di colombo), ché l’anno è lungo ”
La consuetudine della “stràina di vej”, la strenna dei vecchi è raccontata ne “La venturina” di Maria Tarditi, bellissimo romanzo pubblicato nel 2006, e ne ho avuto conferma parlando con mio papà Eligio, nella consueta pausa caffè pomeridiana ed ascoltando le testimonianze di Maria Adele Quazzo di Feisoglio ed Ersilia Gabutti di Cissone.
Il 1° dell’anno c’era l’abitudine dei bambini di girare per le cascine dei vicini o per le vie del paese, bussando alla porta degli anziani, parenti o anche no, o alle porte delle botteghe, per ricevere, dopo la recita in coro della cantilena “Bundì, bundì…" questa famosa strenna. Si trattava di qualche regalino, una caramella, un biscottino, una noce o un mandarino, un “crnièle” (una specie di torcetto zuccherato) o un “galètu” (biscottino a forma di galletto). I bambini adoravano questo rito e si beavano di questi piccoli doni.
Ersilia, ricorda, che per i più grandi c’era anche le ciambelle della befana, di pane dolce, nelle quali veniva nascosto un uovo sodo o una fava. Chi li trovava si sarebbe sposato entro l’anno…
Queste usanze non sono sopravvissute oltre la metà degli anni ’50 dell’altro secolo.
Giampiero Murialdo
Il mio primo ricordo di Natale ha un disgustoso sapore di gesso.
Preparavamo il presepio con poche statuine e con tanto muschio che andavamo a raccogliere nei boschi. Trovare il muschio era una vera cerimonia, giravamo tra gli alberi alla ricerca del più bello. Io ero molto piccola, ammiravo quel presepe essenziale, come era tutto in quel primo dopoguerra.
Avevo ricevuto quel Natale, come dono, uno di quei "bambin ed sucher" di zucchero colorato che avevo trovato molto goloso! Quelli della mia generazione li ricordano certamente!
Nel nostro presepio, oltre alla capanna c'erano tre pastori con qualche pecorella. I pastori li chiamavamo per nome.
Io ammiravo rapita Gelindo e lo trovavo simile al "bambin" di zucchero. Ad un tratto, non mi sono più trattenuta e con un morso netto gli ho staccato la testa! Ricordo ancora chiaramente il disgusto della bocca piena di gesso e i rimproveri dei miei famigliari.
Per molti Natali a venire sono stata canzonata per quella che ha mangiato la testa al povero Gelindo.
Albina Aimasso