Ghitin, “donna di Langa” di celeste oricco
Luigina e Teresina del Pavaglione raccontano…
Ghitin del Pavaglione era la figlia di Tòni bon. Da lui aveva ereditato la capacità di portare sulle spalle il duro lavoro, anche di soffrire, per vedere realizzato il bene della famiglia. Nata a Trezzo Tinella nel 1896, nostra madre fin da giovanissima seguiva il padre nel lavoro dei campi e andava anche da manovale, pagata come un uomo tanto era forte. Quando aveva sedici anni il padre pensò di darla in sposa a Felicin del Pavaglione, che aveva sacchi pieni di granaglie e terra da lavorare.
Nel 1915, quando la primogenita Giovannina aveva solo quattro mesi, Felicin andò in guerra. La mamma e la bambina si ammalarono di “spagnola”. Nessuno andava più a trovarle, per paura del contagio di una malattia cattiva come la peste. La piccolina già non apriva più gli occhi, quando un giorno sentì qualcuno salire la scala. Severin ascoltò la supplica della madre disperata che lo pregava di andare subito a Trezzo, per chiedere aiuto ai parenti e partì a piedi sul sentiero che passa sul bric della Chinassa, prosegue verso la cascina Langa, per poi scendere giù dalla scorciatoia della Serra, fino alla località Leomonte.
Con la Provvidenza, al Pavaglione arrivò la mamma Pinota con il chinino e una cesta colma di viveri: pane, pasta, olio… e salvò la vita alla figlia e alla nipotina. La spagnola si prese la rivincita e rubò temporaneamente alla giovane madre i bei capelli castani ondulati che le impreziosivano il volto serio e intelligente, ma la forza di Ghitin quella no, nessuno l’ha mai vinta. Dopo quattro anni Felicin tornò dagli stenti della guerra, ammalato di asma bronchiale. Lo aspettava la triste sorpresa di non essere riconosciuto dalla bambina che andava chiedendo chi fosse quell’uomo con i baffi, gli scarponi e lo strano vestito.
Ora non poteva più faticare come prima e Ghitin lo precedeva nel lavoro in campagna, mentre allevava sette figli più un trovatello, preso per guadagnare qualche soldo. A lei che tanto aveva già caricato le spalle di pietre e letame quando era ancora giovinetta, ora la sorte chiedeva di portare sulle braccia una storia smisurata: la casa, la stalla, i bachi da seta, gli indumenti da cucire e ricucire, la lana delle pecore da filare per poi fare calze, giacchette, anche le mutande da uomo, foderate perché non pungessero. Con la macchina “Bernardo”, spola del filo lunga e pedali, Ghitin scuciva la stoffa del pastrano del nonno e ci faceva le sottovesti pesanti e foderate, così che fossimo ben riparati in inverno. Pure in cucina bisognava far quadrare i conti con le bocche sempre affamate e le poche risorse a disposizione. Ghitin faceva il pane, la pasta fresca, le tume e il brus e la brusina. Con pochi ingredienti sapeva mettere sulla tavola piatti saporiti. Per i giorni di festa, la sera prima metteva una pagnotta a bagno nell’acqua, al mattino la strizzava, aggiungeva qualche avanzo di verdura, un uovo, un po’ di saporita e preparava agnolotti gustosissimi. Polli e conigli solo qualche volta, perché si portavano al mercato: il sabato ad Alba, il lunedì a Mango e il mercoledì a Santo Stefano.
A tutto questo doveva badare Ghitin, e alzarsi la prima al mattino, d’inverno, con la neve da spalare per andare al pozzo e portare l’acqua agli animali nella stalla, mungere pecore e capre, portare il latte caldo nel letto ai bambini così che non prendessero troppo freddo. Nella bella stagione, quando nostra madre andava in campagna, lasciava noi più grandicelle ad accudire la casa e i fratellini. C’era da preparare il minestrone con le verdure da mettere a gorgogliare sulla stufa, lavare qualche piccolo indumento, quelli neri strofinandoli con l’erba medica per risparmiare il sapone, dondolare i bambini sistemati nella stessa culla, uno al contrario dell’altro. Qualche andi un po’ più forte e la culla, con dentro il fratellino Mario, una volta si è rovesciata, per fortuna (o per grazia ricevuta) senza conseguenze. Se i piccoli piangevano per la fame, ce li prendevamo in braccio e…giù dal bricco, fin nella vigna dove c’era la mamma. Lei si sedeva un momento, beveva un po’ di acqua, si asciugava il sudore prima di allattarli. Il lavoro a maglia Ghitin lo portava avanti la sera, mentre ci raccontava le storie già masticate dal padre. Iniziava: “ Ven che ‘na vota iera…” e noi bambini, radunati intorno alla stufa, ascoltavamo beati le avventure dei sette fratelli, di Maria ‘d bosc, della lanterna magica, del gatto che porta fortuna, Pataluc, Tribursia, Stomi comodò… Iniziava sempre così, innumerevoli volte, tanto che ormai le storie ci stavano dentro come il pane, un secondo cibo che alimentava la nostra fantasia.
Se si delineasse il ritratto della “Donna di Langa” con un mosaico, ogni tessera avrebbe il volto di ciascuna delle donne che hanno strappato alla terra, meravigliosa e avara un tempo, i tanti frutti perché oggi noi li avessimo in abbondanza.
CELESTE ORICCO
Ghitin del Pavaglione era la figlia di Tòni bon. Da lui aveva ereditato la capacità di portare sulle spalle il duro lavoro, anche di soffrire, per vedere realizzato il bene della famiglia. Nata a Trezzo Tinella nel 1896, nostra madre fin da giovanissima seguiva il padre nel lavoro dei campi e andava anche da manovale, pagata come un uomo tanto era forte. Quando aveva sedici anni il padre pensò di darla in sposa a Felicin del Pavaglione, che aveva sacchi pieni di granaglie e terra da lavorare.
Nel 1915, quando la primogenita Giovannina aveva solo quattro mesi, Felicin andò in guerra. La mamma e la bambina si ammalarono di “spagnola”. Nessuno andava più a trovarle, per paura del contagio di una malattia cattiva come la peste. La piccolina già non apriva più gli occhi, quando un giorno sentì qualcuno salire la scala. Severin ascoltò la supplica della madre disperata che lo pregava di andare subito a Trezzo, per chiedere aiuto ai parenti e partì a piedi sul sentiero che passa sul bric della Chinassa, prosegue verso la cascina Langa, per poi scendere giù dalla scorciatoia della Serra, fino alla località Leomonte.
Con la Provvidenza, al Pavaglione arrivò la mamma Pinota con il chinino e una cesta colma di viveri: pane, pasta, olio… e salvò la vita alla figlia e alla nipotina. La spagnola si prese la rivincita e rubò temporaneamente alla giovane madre i bei capelli castani ondulati che le impreziosivano il volto serio e intelligente, ma la forza di Ghitin quella no, nessuno l’ha mai vinta. Dopo quattro anni Felicin tornò dagli stenti della guerra, ammalato di asma bronchiale. Lo aspettava la triste sorpresa di non essere riconosciuto dalla bambina che andava chiedendo chi fosse quell’uomo con i baffi, gli scarponi e lo strano vestito.
Ora non poteva più faticare come prima e Ghitin lo precedeva nel lavoro in campagna, mentre allevava sette figli più un trovatello, preso per guadagnare qualche soldo. A lei che tanto aveva già caricato le spalle di pietre e letame quando era ancora giovinetta, ora la sorte chiedeva di portare sulle braccia una storia smisurata: la casa, la stalla, i bachi da seta, gli indumenti da cucire e ricucire, la lana delle pecore da filare per poi fare calze, giacchette, anche le mutande da uomo, foderate perché non pungessero. Con la macchina “Bernardo”, spola del filo lunga e pedali, Ghitin scuciva la stoffa del pastrano del nonno e ci faceva le sottovesti pesanti e foderate, così che fossimo ben riparati in inverno. Pure in cucina bisognava far quadrare i conti con le bocche sempre affamate e le poche risorse a disposizione. Ghitin faceva il pane, la pasta fresca, le tume e il brus e la brusina. Con pochi ingredienti sapeva mettere sulla tavola piatti saporiti. Per i giorni di festa, la sera prima metteva una pagnotta a bagno nell’acqua, al mattino la strizzava, aggiungeva qualche avanzo di verdura, un uovo, un po’ di saporita e preparava agnolotti gustosissimi. Polli e conigli solo qualche volta, perché si portavano al mercato: il sabato ad Alba, il lunedì a Mango e il mercoledì a Santo Stefano.
A tutto questo doveva badare Ghitin, e alzarsi la prima al mattino, d’inverno, con la neve da spalare per andare al pozzo e portare l’acqua agli animali nella stalla, mungere pecore e capre, portare il latte caldo nel letto ai bambini così che non prendessero troppo freddo. Nella bella stagione, quando nostra madre andava in campagna, lasciava noi più grandicelle ad accudire la casa e i fratellini. C’era da preparare il minestrone con le verdure da mettere a gorgogliare sulla stufa, lavare qualche piccolo indumento, quelli neri strofinandoli con l’erba medica per risparmiare il sapone, dondolare i bambini sistemati nella stessa culla, uno al contrario dell’altro. Qualche andi un po’ più forte e la culla, con dentro il fratellino Mario, una volta si è rovesciata, per fortuna (o per grazia ricevuta) senza conseguenze. Se i piccoli piangevano per la fame, ce li prendevamo in braccio e…giù dal bricco, fin nella vigna dove c’era la mamma. Lei si sedeva un momento, beveva un po’ di acqua, si asciugava il sudore prima di allattarli. Il lavoro a maglia Ghitin lo portava avanti la sera, mentre ci raccontava le storie già masticate dal padre. Iniziava: “ Ven che ‘na vota iera…” e noi bambini, radunati intorno alla stufa, ascoltavamo beati le avventure dei sette fratelli, di Maria ‘d bosc, della lanterna magica, del gatto che porta fortuna, Pataluc, Tribursia, Stomi comodò… Iniziava sempre così, innumerevoli volte, tanto che ormai le storie ci stavano dentro come il pane, un secondo cibo che alimentava la nostra fantasia.
Se si delineasse il ritratto della “Donna di Langa” con un mosaico, ogni tessera avrebbe il volto di ciascuna delle donne che hanno strappato alla terra, meravigliosa e avara un tempo, i tanti frutti perché oggi noi li avessimo in abbondanza.
CELESTE ORICCO