“Ceva, stazione di Ceva. Il treno delle sette e trenta, proveniente da Savona, è in arrivo sul secondo binario...”. Gracchiò, arrugginita, la tromba dell’altoparlante ferroviario. Era il mese di giungo 1944, un mercoledì, giorno di mercato. Nessun viaggiatore scese da quel treno. Quell’anno le parti contrapposte covavano il sentimento più furibondo della guerra fratricida. Ciò nonostante, gli abitanti della Valle Bormida non avevano mai rinunciato a raggiungere la cittadina incuneata tra il possente Tanaro e il più modesto Cevetta. Il trambusto della guerra aveva svuotato le persone d’ogni prospettiva futura, tuttavia, nei mercoledì cebani, si continuava a celebrare la più antica delle ritualità contadine: il mercato. E, pure in quegli anni, i valligiani si concedevano quello svago: il naturale contrappasso alle brutalità ricorrenti. Nessuna stagione, né con il caldo, né con il freddo, era riuscita a trattenere i valbormidesi nelle loro case, e non vi riuscì la guerra, nonostante viaggiare con i mezzi di trasporto, ancora attivi, fosse prudenzialmente proibito. Negli spostamenti, vuoi per l’abitudine al risparmio, ma soprattutto per evitare i controlli dell’Annonaria, della Muti, dei Tedeschi e delle bande partigiane, la gente evitava i mezzi pubblici, anche il treno, preferendo camminare, in quel caso, sul sentiero di fianco ai binari, ritenuto più sicuro. Separa le stazioni ferroviarie e gli abitanti di Saliceto e Sale delle Langhe una galleria di quasi cinque chilometri: un ardito capolavoro d’ingegneria civile della seconda metà dell’ ‘800. Quel mercoledì la fila indiana delle persone di ritorno dal mercato occupava un lungo tratto del sentiero ferroviario. Lasciato il concentrico di Sale delle Langhe, il rosario umano fu inghiottito dalla nera ombra all’ingresso del tunnel e quell’effetto fagocitante si amplificò al riverbero dei raggi solari, più pungenti di primo pomeriggio. All’interno, le persone percorsero la superficie scabra delle lose (pietra sedimentaria usata per rivestire falde di tetti, strade e cortili), che ricoprono la canalina di scolo, producendo un ticchettio lugubre, molto simile a un suono a mortorio. Il treno s’annunciò con l’iperbolico e lugubre fischio della locomotiva, che, nonostante il forte rumore di fondo, i presenti avvertirono attraverso quel lamento minaccioso. Si scatenò un rapido fuggi fuggi. Ciascuno affrettò il passo nel tentativo di raggiungere le nicchie di emergenza. Nel trambusto, molti inciampavano nelle traversine; solo casualmente nessuno s’infortunò. Nei rifugi arcuati, simili a minuscole spelonche, le persone premevano il dorso contro le pareti umide per meglio aderirvi, ma lo facevano, soprattutto, per non cedere ad altri quello spazio rassicurante. Intanto, tenendo il palmo della mano piegato a conchetta, proteggevano la fumosa fiamma dei lanternini dalla corrente d’aria, che li avrebbe investiti col sopraggiungere del treno. La maggior parte delle persone non trovarono posto all’interno dei varchi, perciò sedettero a terra, lungo i muri perimetrali, mantenendo le gambe divaricate, per meglio contrastare l’imminente mulinare dell’aria. Il tempo necessario per percorrere tutta la galleria del Belbo è, all’incirca, un’ora. Una camminata al buio, senza riuscire a vedere dove posare i piedi, che inquieta, ogni volta, gli stessi addetti alla manutenzione. In tempo di guerra, poi, soprattutto dopo l’otto settembre 1943, percorrere le strade della Bormida, del Belbo e delle Langhe, in genere, poteva risolversi in una imperdonabile imprudenza. Imbattersi in gruppi di uomini armati, d’ogni colore e bandiera, che terrorizzavano la gente ben più del buio pesto della galleria e del sinistro sibilo delle locomotive, era assai probabile. Un odore sgradevole impregnava la galleria: urina, amianto, olio minerale, carburante, fumo e vapore acqueo davano origine a un cocktail veramente disgustoso. Le persone, che la percorrono, per molti giorni si portano addosso un lezzo ripugnante. In quell’ambiente, il vociare delle persone, forse a causa della forma ovoidale del foro, si amplifica fino ad assumere timbriche spettrali. In galleria non esiste alcuna forma d’eco e il suono viene assorbito dalle correnti d’aria ascensionali per essere trascinato all’interno dei pozzi di aerazione e raggiungere l’esterno. Per tutti questi motivi, percorrendo il tunnel, si percepiscono sensazioni spettrali, capaci di evocare, ogni volta, la paura. Ripenso con nostalgia alle premure di mio padre, che, conoscendo quelle sensazioni, la prima volta che mi portò con sé, nel percorrerla, e solo per rassicurarmi, mi strinse tanto forte e a lungo la mano da provocarmi per molto tempo insensibilità. Raggiunta la metà del tragitto, la luce dell’imbocco si affievolisce fino a spegnersi del tutto, prima che compaia il barlume della lunetta di luce dell’uscita. Quel lumicino, che appare dopo circa mezz’ora di cammino, assume un potere magnetico straordinario: i viandanti si sentono improvvisamente attratti verso l’uscita (provai quella benefica sensazione), sicché i passi si fanno più veloci e sicuri. L’improvviso senso di sicurezza e di benessere è da attribuirsi, probabilmente, alla lieve pendenza del tratto. Quel mercoledì di prima estate, raggiunta l’uscita, uomini e donne si rimboccarono le maniche, stimolati dall’improvviso rialzarsi della temperatura. Quel primo lieve calore estivo convinse molti giovanotti a scamiciarsi; alcuni, addirittura, si mostrarono a torso nudo. La fila indiana delle persone, lasciato lo spazio del buio e della paura, accelerò il passo: ciascuno sentiva di essere finalmente al sicuro. Prevalse contemporaneamente una loquacità indescrivibile, molto insolita, e ciascuno parlava, parlava e parlava ancora. Gli argomenti erano futili? Che importa! Al momento pareva importante comunicare, tanto per sentirsi vivi e per aver, finalmente, esorcizzato tutte le sensazioni provocate dal buio, dal freddo. Più avanti nel gruppo, qualcuno uccise una serpe, che se ne stava arrotolata al sole tra i binari. Lo annunciarono i frizzi e lo schizzare fuori dalla fila indiana di alcune donnette spaventate. Puzà, così si chiama quel luogo, per i rettili è un paradiso, ricco di vegetazione e di sorgive, al riparo dal vento marino. Alcuni giovincelli, più esaltati, finsero di lanciare la biscia morta all’indirizzo di alcune ragazzette, le quali, all’istante, urlarono al cielo azzurro tutto l’orrore che serravamo in corpo.
Alla stazione di Saliceto, intanto, Fonso, assicurati i cavallo all’occhiello di ferro del muro, giaceva sdraiato sull’unica panchina e, col purillo calato sugli occhi, dormicchiava un sonnellino leggero. Al sopraggiungere del treno non si destò; già sapeva che nessun passeggero ne sarebbe disceso. Balzò a sedere, invece, appena avvertì il lontano vociare dei paesani, che avevano ormai raggiunto il ponte del Bricco. Poco dopo apparve in lontananza la lunga fila indiana delle persone, simili a formiche altalenanti, curve sotto il peso delle loro magre sporte. Fonso sciolse il nodo che conteneva i cavalli, sfilò la corea (fettuccia di cuoio) dall’anello murato e, con abile manovra, condusse il doppio tiro ad invertire il senso di marcia del Trabalero (carrozza), allineandolo al muro e pronto a partire. Alcuni dei viaggiatori, impolverati, caliginosi e sudati, presero posto all’interno della carrozza, già privata dei vetri onde favorirne l’aerazione. Esauriti i posti a sedere, tacitamente riservati ai meno abili, gli uomini s’arrampicarono sul portapacchi. Alcuni giovanotti, più spavaldi, si rizzarono sui predellini della carrozza e, aggrappati ai maniglioni metallici, sculettavano, imitando i militi aggrappati alla balilla del Duce, come avevano notato nei documentari “Luce”, proiettati settimanalmente alla “Casa del Fascio”. Prima di partire, Fonso ebbe il tempo di innalzare
l’ennesimo cin-cin, con un “Tre Stelle”, con l’amico Berto, proprietario della Trattoria della stazione e si congedò, ma non prima d’aver rumorosamente schioccato lingua e palato. Giunta l’ora, salì a cassetta, non prima d’aver scrupolosamente controllato il mezzo e il carico e lo fece con un balzo, rispettando rigorosamente il protocollo carrettieresco. Dalla posizione dominante, scrutò ancora una volta il suo Trabalero, quindi, roteando alta e sonante la frusta di corame, sfrenò il mezzo, decretando lo stacco ai cavalli impazienti. Le ruote crepitarono sulla ghiaia, sincronizzandosi agli “ijuh... ijuh... aaah... ijuh... ijuh...” del conducente, mentre i cavalli, roteando il capo, infastiditi dai tafani pungenti, si sferzavano con poderose codate. La carrozza s’avviò per la discesa con il freno appena puntato, sicché l’andatura parve a Fonso sciolta e sicura. Iniziato il consueto percorso, Fonso iniziò a subissare i passeggeri di domande. Gli fecero eco, come sempre, le risposte più disparate. Non mancavano frivolezze e, dimentichi della guerra, i passeggeri si spanciavano in altisonanti risate. Ogni mercoledì, sul Trabalero, si srotolava la colorata pellicola del mercato cebano; ciascuno amava raccontare le vissute avventure, cimentandosi nell’arricchirle di particolari, talora grotteschi. Quel gioco, tacitamente condiviso, consisteva nell’amplificare avvenimenti, di per sé banali, col pettegolezzo e maliziosi ammiccamenti. Finita la discesa e raggiunto il “Pian Soprano”, Fonso sfrenò la vettura, ululando ai cavalli il suo “ijuh... ijuh... aaah... ijuh... ijuh...” di incitamento, onde ottenere un’andatura più sostenuta. La modesta velocità del mezzo esaltò la brezza pomeridiana, che si sciolse in un venticello più fresco. Dal Trabalero rumoreggiante si levavano altisonanti e scherzosi gli “ijuh... ijuh... aaah... ijuh... ijuh...” di corale soddisfazione dei passeggeri. I cavalli lanciavano il capo e la folta criniera di lato. Sulle buche dello sconnesso macadam la vettura rimbalzava, infliggendo agli occupanti goffi assecondamenti del capo, mentre i loro occhi di marionetta si perdevano in contemplazione del paesaggio in movimento, accartocciato nella prima calura estiva. Lasciato il concentrico di Saliceto e, superata la curva in prossimità della cappella di San Rocco, mentre alcuni passeggeri si rilasciavano sopraffatti da improvvise crisi di sonno, un crepitante rombo di motori stellari avvolse il paesaggio. Dal bagagliaio un coro di voci maschie implorò: “Fonso, Fonso ferma i cavalli... Pipetto (piccolo aereo ricognitore), Pipetto, si salvi chi può...”. All’istante tutti percepirono il rombo aereo di motori, mentre due bolidi, bassi in cielo, irruppero provenienti dalla collina di Rovereto, sfiorando le lose di casa Giorgione. Quindi, lambendo l’ansa del fiume, poco sopra la borgata Cappellini, si mimetizzarono con il verde dei pioppi. A tutti mancò il tempo della sorpresa e piovvero lampi di fuoco, superanti le carlinghe dei caccia, sullo stradone e sul Trabalero. La scarica, interminabile, fu una soltanto, ma durò, effettivamente, pochi secondi, mentre gli “uccelli d’acciaio” già risalivano la collina di San Grato, dileguandosi oltre i Bric dell’Orso e Giampeire. La gente in paese, non abituata al crepitare della mitraglia dal cielo, tenne lo sguardo perso nell’azzurro, pronta a ripercorrere la traiettoria descritta dai bolidi. Ma null’altro versò il cielo, quel giorno, sullo stradone della Bormida. Cessato il rombo dei motori, l’ansa del fiume fu percorsa da lamenti molto simili al guaiolare di cani feriti. Il medico condotto, allertato dal crepitare della mitraglia, si precipitò in strada, tirandosi la porta alle spalle. Balzò sulla bicicletta, già pronta e s’avviò senza una precisa direzione, mentre tentava di infilare, nervosamente, l’asta del manubrio nella maniglia della borsa medicale. Prese a pedalare con foga. Qualcuno dalla porta Galera urlò: “Il Trabalero... il Trabalero... hanno mitragliato il Trabalero... dottore, corra... laggiù, verso i Cappellini, alla curva di San Rocco, sul ponte del Chintoce.” All’istante medico e bicicletta invertirono la direzione di marcia e, solo miracolosamente, non andarono a schiantarsi sulla vetrina della farmacia, protetta solamente da una stoffa bianca e blu, sfilacciata e sbiadita. Sotto la maschia spinta delle gambe del medico, abituate allo sforzo, le due ruote presero velocità, mentre pedali e catena urlarono un cigolio sguincio, denunciante tutti i limiti del mezzo. Alla prima curva evitò un muricciolo di pietra, ma urtò di striscio un bue aggiogato a un carico di stallatico. Alla vista del bolide un paio di passanti, impauriti, fecero in tempo a balzare oltre la cunetta stradale. Entro una manciata di secondi, malgrado il fondo malmesso, medico e bicicletta raggiunsero l’inferno. Dai feriti, riversi tra i rottami della vettura, si levavano urla, lamenti e gemiti capaci di straziare anche il cuore più duro. Il guscio del Trabalero, sfiancato nel fosso stradale, sussultava per gli strattoni inferti dal cavallo ancora vivo, che, nel tentativo d’alzarsi, roteava disperatamente le gambe sui compagni inermi. Dalla bocca, ancora stretta nel morso, intanto fuorusciva una miscuglio di sangue, schiuma e umori che, nel tentativo di ventilare i polmoni, la bestia fiottava sulla ghiaia, arrossandola. Nervosamente, le mani esperte del medico tastarono polsi, colli e toraci per stabilire chi, tra i disgraziati, si trovasse in pericolo di vita. La conta dei morti fu rapida: cinque in tutto. I feriti ebbero il primo doloroso conforto del medico. Fonso, scampato al macello, con le mani si diradava i capelli, urlando al cielo tutte le maledizioni del gergo carrettieresco. Non si dava pace, mentre ripeteva: “Solo io miracolato? Io, che me ne stavo lassù, bene in vista, di fronte alla mitraglia? E ora? Che ne sarà di questa povera gente straziata, ferita, morta?” Quei poveracci, giunti alla stazione festanti, serravano gelosamente, ancora infilati al braccio, “fazzoletti da nodo” (sporta fatta d’una tovaglietta annodata a quadri bianchi e blu) contenenti poche preziosità esaltate dalla “borsa nera”: caffè verde, olio d’oliva, sale marino grezzo e, solo per i più piccoli un cartoccio di zucchero a grumi. In quei giorni, le uniche richieste di mercato si riferivano ai generi alimentari di prima necessità. Solo il cibo contava, anche per i valbormidesi, che s’erano scordati il superfluo da quando avevano incominciato a piangere figli, fratelli e sposi dispersi sui fronti del Don, della Grecia, del Mercantour e dell’Africa. Dopo l’otto settembre, molti ragazzi, disorientati dagli avvenimenti e senza più guida, avevano disertata la chiamata “repubblichina”, preferendo nascondersi tra le pieghe scafose delle Langhe. Il rischio era altissimo, ma, almeno, le famiglie avrebbero saputo dove cercarli. Col medico giunsero anche i primi soccorritori. Pin, il carrettiere, arrivò per primo col suo carro già liberato delle sponde; s’annunciò con ripetuti schiocchi di frusta, ben noti nel circondario. I feriti furono sistemati sull’assito del mezzo, mentre il medico dispensava preziosi consigli, utili nel trasferimento. Fonso, prelevata la spranga di ferro dal cassetto del Trabalero, tra le lacrime, per pietà, ma deciso, liberò il cavallo ancora vivo dai tormenti dell’agonia. A causa dell’irregolarità del macadam, l’andatura del carro fu molto rallentata per non infliggere ai feriti, già straziati nel corpo e nell’anima, ulteriori sofferenze. Raggiunto il paese, il carro sostò nei pressi della “volta rossa” per depositare il dolente carico. Il medico fece adagiare, su improvvisati giacigli, quei resti d’umanità, non cessando di dispensare preziose cure. Dalla fronte gli grondava copioso il sudore misto a coaguli. Molti si prodigarono per offrire aiuto ai malcapitati, pochi, però, resistettero alla vista delle mutilazioni. Il lavoro sfibrante del medico durò fino a notte inoltrata. Nel tentativo di fermare l’emorragia, con l’aiuto di un blando analgesico, dovette infine amputare una gamba, orribilmente spappolata, a Tina della censa (negozio di generi di monopolio). Intanto, confortata dal sacro crisma, un’altra anima si liberò del proprio corpo. Col buio, il camion del mulino, attrezzato ad ambulanza, trasportò i feriti più gravi all’ospedale di Millesimo. Infine, nella notte, giunsero i famigliari dei trapassati per recuperare le salme. Sopraffatto dalla stanchezza e dolente nel corpo, il medico raggiunse la propria abitazione. Aprì il portone, appoggiandovisi con la spalla e lentamente, gradino dopo gradino, lungo la scala di pietra, raggiunse il primo piano. Entrato in bagno, s’immerse nella vasca zincata colma di acqua caldissima e vi restò a lungo, in silenzio, quasi desiderasse di mondarsi l’anima più che il corpo. Fu una sera non dissimile dalle altre: s’asciugò e si rivesti della sola veste da camera. Mangiò un piatto di minestra riscaldata, sbucciò una mela mascellina già avvizzita e raggiunse la soffitta per ascoltare il comunicato di Radio Londra. Adottò le solite precauzioni: chiuse le imposte, accostò le ante dai vetri prudentemente oscurati con carta oleata e distese un drappo capace di soffocare il gracchiare della radio. Attese in silenzio, curvo, tenendosi il capo tra le mani. Lo assalirono cupi pensieri, più densi del fumo vischioso delle stoppie bruciate. “Da quanto tempo, Beppe, non ti fai vivo?” Gorgogliò ad alta voce a se stesso. Da ben due settimane, oramai, il ragazzo non era più rincasato. Una ruga violacea solcò centralmente la fronte dell’uomo, mentre con lo sguardo seguiva le tracce di alcune macchie d’umidità emergenti sulla parete. Improvvisamente, quelle macchie di umidità gli parvero il segno tangibile di foschi presagi. Sfibrò il mozzicone della sigaretta sul pavimento e restò in attesa della musichetta d’introduzione al comunicato. Neppure gli riuscì di distogliere il pensiero dai morti e dai feriti che avevano riempita la giornata appena trascorsa. Mentre la radio, roca, trasmetteva la musichetta di introduzione (... pino solitario ascolta...), continuava a chiedersi: “Quando potremo mettere la parola fine a questa tragedia? E’ quasi un anno che questi ragazzi, nascosti tra le colline, raramente rientrano a casa solo per un ricambio di biancheria!” I partigiani, se stanati dalla milizia, rischiavano il campo di concentramento e, spesso, terribili esecuzioni e torture. Quanti furono fucilati, appesi con ganci da macellaio ai ponti, ai pali del telegrafo, vilmente oltraggiati. Sulla Langa, anche i muri avevano occhi ed orecchi sensibili e le delazioni erano all’ordine del giorno. Mentre il medico si trovava in soffitta, la moglie restava in cucina a sferruzzare, sempre vigile, per avvertirlo qualora un fascista avesse bussato alla loro porta. Fortunatamente, gli squadristi, anche per necessità, non certo per rispetto, fino a quel momento avevano evitato d’importunarlo e di varcare quella soglia. Se l’avessero fatto, la vendetta sarebbe stata implacabile: medico e moglie avrebbero subito, con l’arresto, innanzitutto le temibili sabbiature. Dalla strada giunse un concitato rumore di passi. Solo un pazzo, a quell’ora, poteva sfidare il coprifuoco, oppure... Il medico accostò l’orecchio all’imposta. Si tranquillizzò. Un ragazzotto, uscito di casa ad incontrare la morosa, parlottava con la madre, che lo aveva raggiunto nel tentativo di ricondurlo al riparo delle mura domestiche. La musichetta cesso. Radio Londra ripeté per tre volte la stessa farse: “Sull’altopiano canta la raganella.” Sicuramente si trattava d’un messaggio cifrato, del tutto incomprensibile al medico. Spense la radio, la ripose sull’assito posto all’interno del caminetto e protesse il tutto, accostando la testiera del letto di ferro al muro. Raggiunse la donna, che trovò in preda ad una crisi di panico. Gli riversò addosso tutta l’angoscia e l’apprensione che provava per quel suo figliolo nascosto in collina. Riuscì a calmarla un poco, ricordandole che sarebbe stato peggio se il loro Beppe avesse ceduto alle minacce fasciste e avesse, perciò, scelto di stare con i repubblichini. Sul legno del portoncino d’ingresso, all’improvviso, risuonarono, decisi, tre colpi di nocche. Trasalirono. Chi mai poteva aver bussato alla loro porta a quell’ora? Il medico raggiunse velocemente l’atrio e con fermezza chiese: “Chi è là?” Una voce ovattata penetrò la toppa: “Volpe... Sono Volpe, signor dottore, apra... apra imediatamente, per favore!” La porta ruotò muta sui cardini e l’uomo, armato fino ai denti, con un balzo fu all’interno. Il medico, abituato a leggere le ansie negli occhi dei pazienti, capì al volo lo stato d’animo di Volpe e fece appena in tempo a raggiungere la poltroncina nell’ingresso, prima di stramazzare al suolo. Si rialzò per non insospettire la moglie mentre, con cautela, sussurrò al giovane: “Non porti buone notizie, vero Volpe?” Il partigiano rispose annuendo semplicemente con un cenno del capo e aggiunse: “Signor dottore, di questi tempi le buone nuove non frequentano più la Valbormida. Dobbiamo rassegnarci al peggio!” “Serve un cordiale”, svicolò il medico rivolto alla moglie e subito aggiunse: “Cara, portaci un cicchettino di ratafià, Volpe ed io ne abbiamo bisogno. Caro Volpe,” proseguì, “ Ci è rimasto questo poco ratafià di visciole: un presente di Celso il butalé. Ogni tanto, la notte, il vecchio riscalda l’alambicco, ma lo fa con prudenza, ché i vapori di grappa pungono le narici, anche da molto lontano.” Il medico non approfondì circa le nuove di Volpe e raggiunse l’armadio, prelevando liquore e bicchierini. Il partigiano capì le intenzioni del medico, che non desiderava coinvolgere la moglie. Non appena sorbito il bicchierino, rivolto alla moglie, il medico proseguì: “Volpe, dammi il tempo di prendere una giacca e quei pochi medicinali, che mi sono rimasti”. Si rivestì, versò nei bicchierini ancora un po’ di liquore, quindi informò la donna: “ Cara, rientrerò domani mattina. Stanotte resterò in collina con Volpe. C’è un altro ferito da medicare.” Spenta la luce dell’ingresso e, aperto l’uscio con circospezione, uscirono per dileguarsi lungo il carrugio della chiesa. Trovarono aperto il cancelletto dell’orto la casa canonica e, in breve, per la stradina del vecchio cimitero, raggiunsero la riva destra del Bormida. La luna calante occhieggiava melanconica tra rade nuvole. La scarsa luce dell’astro contribuiva a rendere meno probabili le insidie della milizia. Superata la cascina dell’uccellaio, raggiunsero casa Giorgione, alla sommità della collina di Rovereto. Il medico si fermò, posò un piede su un basso muretto di arenaria adiacente alla strada e diede il “la” al rosario delle domande che gli scoppiavano in petto. Volpe, stretto all’angolo dalle richieste, fornì brevi ed evasive risposte. L’uomo insistette: “Volpe, non menare il can per l’aia! Si tratta di Beppe, vero?” Il partigiano, imbarazzato, restò muto per un attimo. Quel silenzio fu, per il medico, più chiarificatore d’una conferenza stampa. “Che è successo”, incalzò. “Un’imboscata, dottore, repubblichini maledetti! E dire che... sembravano contadini innocui... invece... iene, iene assetate di sangue, signor dottore.” “E’ grave?” affondò ancora il medico. “La notizia è giunta al centro trasmissioni –Mauri-... io non l’ho potuto vedere ma... quelli, caro dottore, non scherzano!” La fatica, nel salire al Bric della Gamellona, si fece sentire. Al medico dolevano i visceri. Ormai certo dell’impossibilità di poter approfondire e che Volpe, comunque, non avrebbe aggiunto, a quanto già detto, una sola parola, pensò di risparmiare il fiato per raggiungere al più presto Castellino. Albeggiava quando si delineò, nella bruma, il vago contorno d’un abitato. Il partigiano decise, allora, di fornire maggiori dettagli all’uomo: “Pare che le ferite siano state gravi, signor dottore. Molto meglio non illudersi.” Non rispose alcunché e Volpe ebbe la certezza d’essere stato inteso bene. Poco dopo, nel contorno dell’abitato, apparve il vano grigio dell’ingresso di una chiesa. Nello spazio dell’apertura percepirono il debole tremolio d’alcuni ceri allineati. Nell’incerto procedere dei loro passi, l’interno del piccolo tempio apparve loro sempre più bianco: un lazzaretto. Si diressero verso quei lumi. Nel contempo sentivano una forza contraria, quasi temessero di raggiungerli. All’ingresso distinsero la salma d’un uomo disteso nella rigidità della morte. Al medico cedettero le ginocchia. Sorretto da Volpe, si rialzò, si diresse barcollante verso il cadavere: “Beppe mio, povera la tua mamma!” L’uomo, straziato dal dolore, fece spazio alla professionalità del medico. Aprì la borsa medicale e, incredibilmente calmo, ne trasse garze, forbici ed alcool. Il corpo del giovane partigiano mostrava tutto il brutale impegno profuso dalle belve repubblichine. Sul viso risaltavano, come un macabro bassorilievo, il calco del calcio dei fucili e le chiodature degli scarponi. Sul lato del capo, una parte della materia cerebrale, mista a coaguli, tra ciuffi di capelli e cuoio cappelluto, lordava il pavimento. Il medico del Trabalero si inginocchiò e, dopo aver ripulito in ogni parte il corpo del figlio, lo ricompose. In breve, nonostante il pallore della morte, il suo Beppe tornò a essere il giovanotto invidiato dai coetanei e conteso dalle ragazzette valbormidesi. Con fare professionale, visitò ancora il corpo del suo Beppe e lo rivestì d’una uniforme fornita per l’occasione da alcuni compagni di lotta. Terminata la pietosa ricomposizione del suo ragazzo, lo baciò e lo accarezzò ripetutamente, staccandosene a fatica. Sfinito, ricevette, severo, i sentimenti di cordoglio dei presenti e del comandante. Con calma raccolse le sue cose, le ripose, con delicatezza, nella borsa medicale e, lentamente, la richiuse. Infine, salutati i presenti, già rivolto verso l’ingresso, si scusò: “Devo rientrare, i feriti del Trabalero attendono”. Ebbe un breve tentennamento, si volse, si inginocchiò ancora una volta accanto allo sfortunato figliolo e, tra qualche lacrima a solcargli il viso, aggiunse: “Beppe mio... addio per sempre.” Lasciò la chiesetta, solo, senza voltarsi. S’avviò lentamente verso la Valle Bormida, curvo come un giunco piegato da impietosa corrente. Il sole era già alto sulla Pedaggera.