Bȓindeuȓ e Mediatoȓ di Primo CulassoBrindeuȓ - Una volta - anni ’40, ’50 e ’60 - il vino si masantava1 con sëbȓòt, gaȓossèt, gaȓòsse e aȓbiát2 ma anche con piȓia, gòrgia, cagadoȓ e tëȓmeusa3.
Le ziamente4 citate servivano a mivare5 il vino per arearlo e toglierci la feccia. Un modo di dire curioso è quello che recita: o bèiv páid na piȓia che significa uno che beve come un grosso imbuto posato sulla “careȓa”6. La ziamenta più curiosa era la “bȓinda”7 e a quei tempi che non c’erano ancora le pompe con relative gomme a mivare il vino, lo tiravi nell’arbiòt sistemato sotto la “careȓa”, poi lo travasavi nella “bȓinda”, poi con calma, con una scala di legno a pedata, con rampa dolce per evitare rovinose inciampate, lo versavi appoggiando la bȓinda alla piȓia munita di bȓàje8 in una careȓa jolly oppure in quella posta sul carro del cliente. La piȓia aveva l’invito concavo fatto a mezza luna, in maniera che non si rovesciasse il vino per terra. Era un lavoro da camalo. Beppe Colla, un enologo sòla9, si è fatta tutta la gavetta nelle cantine, dove ha acquistato una esperienza coi fiocchi, inoltre lavorando per tanto tempo nella “colla” ha dovuto trattare con una sostanza appiccicosa e complicata che richede molta attenzione e maestria per non lasciare impiastri o danni di qualità sui derivati fisiologici e caratteriali. È per questo che Beppe ricorda molto bene quello che è capitato nel suo vissuto. Proprio Beppe Colla, uno di questi giorni, mi ha raccontato una storia ben interessante: mi ha contato che negli anni ’50 qualche vecchio patriarca, gente nata nella seconda metà dell’800, vendeva il vino a misura e non a peso. Per fare ciò usavano la “bȓinda”. Dalle nostre parti si dice che la madre dei “balengo”10 è sempre “përgna”11, però io aggiungerei che quella dei furbi non è da meno. In parole povere, il bifolco, persona taciturna ma arguta, che sapeva di avere un buon vino, lo vendeva a misura e ci guadagnava sopra la sua buona giornata (quasi l’1%) rispetto al suo peso, che corrispondeva a circa a 1 litro ogni 2 brente (100 litri). C’erano dei farinelli, gente in gamba, che di mestiere facevano i “bȓindeuȓ ò bȓindáu ò bȓindoȓ”12 ed erano specialisti a maneggiare la bȓinda. Il Bȓindeuȓ era un mestiere di una certa abilità, sparito da parecchio tempo, che permetteva di vivere e tirare avanti, che Beppe Colla mi ha messo in mente e che insieme abbiamo pensato fosse utile ricordare sia ai giovani che ai posteri. A quei tempi nelle nostre colline, sia i particolari13 che i mezzadri, normalmente non facevano cantina; costoro al massimo si facevano il vino da bere e lo ciadlavano14 a tempo perso, sovente combinavano delle cialàpe15 che per berle dovevi ingrinfiarti al tavolo di cucina. Sapevano di gomma bruciata, gusti balordi, allora le uve guai a diradarle per cui sovente maturavano come potevano, specialmente negli sversi16 nord-nord/est, erano di tinta barossa e galeuse17, cariche di acido che ti facevano venire la brusaȓòla18. Quelle più belle andavano a finire nell’albio, in piazza oppure le vendevi a casa se ti eri fatta una buona “pòsta”19. Mediatoȓ20 - A questa mira entrava in ballo il mediatore o il sensale. Costoro avevano una nòmina21 non troppo buona, e poco credito, perché tribulavano a mettere daccordo i baròt22 con i clienti: cantine importanti, cassiné23 che arrivavano dalla piana, commercianti/trasportatori che comperavano sempre per i cassiné citati. Beppe Colla, all’inizio che faceva Cȓòta sui vini neri (1949), mi ricorda che di mediatori, contadini, commercianti, ce n’erano dei buoni e dei balordi, nel senso che il Baròt stava con le orecchie dritte perché stufo di prendersi dei ciolarò24, per cui non si tirava indietro nelle maȓminele25. Non parliamo di una regola di comportamento ma di alcune eccezioni esasperate dall’idea di riscattarsi dalla malora. Sempre Beppe Colla mi ha fatto degli esempi curiosi; ne cito uno che serve per tutti. Partiamo dal contadino: c’era quello che portava il cliente a vedere le uve nella vigna, quella con le uve belle, poi le raccoglieva e preparava l’albio dove sotto metteva le uve rosse e la coȓmèiȓa26 la faceva con uve belle. In soprappiù capitava che i più filibustieri aggiungevano acqua nell’albio e qualche rara volta si arrivava al punto di caricare nel cassetto di servizio sotto il carro una grossa pietra, ben nascosta da una coperta, che veniva, con tutte le attenzioni, buttata via di nascosto prima della tara. Per spegnere il fuoco acceso da queste malefatte, a volte intentate anche dal negoziante compratore, si ricorreva a una commissione di competenti a capo della quale negli anni ’50/’60 c’era l’enologo Beppe Colla. Il caso della riduzione del quantitativo di zucchero nel mosto, derivava anche dal tempo di permanenza nell’aȓbi delle uve invendute, essendo esse state premute e compresse con fuoriuscita di mosto che la lungaggine trasformava in alcool. Questo era l’espediente escogitato dal compratore a danno del produttore già incagnito dalle disdette. Parafrasando il famoso detto di Macchiavelli si può dire: “i mezzi giustificano i modi” o per dirla con parole nostrane: “è sempre l’ambiente che fa la musica”. Il mediatore doveva giostrarsi tra il contadino e l’acquirente, spesso una razza di lestofanti. I più tanti allora con albio, carro e bue, andavano ad Alba a fare il mercato in P.zza Savona, poi in piazza San Paolo, infine in piazza Cristo Re e subito dopo portavano il bue o buoi nello stallaggio. Spesso e volentieri capitava che rimanessero delle ore ad aspettare i mediatori e acquirenti, ma l’aspettativa era vana. Sul far della sera, all’imbrunire, lentamente, con circospezione, appariva il mediatore, mandato dal cantiniere o commerciante, che ti offriva delle “canzoni (basso prezzo)” e tu per non fare la fine del topo in bocca al gatto, ti mettevi le mani dietro al fondo/schiena e gli vendevi l’albiata pur di poter andare a casa. Minimo dovevi tërdoccare27 tre ore con bue e Carton28 in base alla distanza. Dimenticavo di dirvi che sempre allora (1950/60) per fare un po’ di giustizia c’erano il Daziere e gli incaricati del Peso Pubblico i quali prendevano nota di peso e contratto poi facevano una media ponderata dei prezzi per tipo di uva. Questa media diventava la base per le contrattazioni del periodo con le uve a casa e in base alla qualità e gradimento si realizzava 1 soldo, 2 soldi, 3 soldi, max 4 soldi per Lira che corrispondevano al 5%, 10%, 15%, 20% in più rispetto ai prezzi della media ponderata. C’era anche la sottomedia da 1 a 3 soldi e si applicava nella formula: lamente nessuna o patto finito quando si raccoglieva a “rej” cioè senza cernere le uve, oppure si penalizzava il contadino quando si riscontravano difetti tollerabili nel contenzioso citato in precedenza. Il mediatore e tutta la storia degli aȓbi in piazza e a casa lo pagava “Pantalone”. A quei tempi la spettanza era del 2% sul prezzo realizzato. Le cantine importanti avevano il Mediatore in proprio il quale trafficava anche come agente di vendita e fattore agricolo. La media di cui abbiamo parlato è stata tolta negli anni ’60, a causa di insufficienze funzionali. Le quotazioni delle uve nel 1957 sono state: Nebbioli di Serralunga 950 Lire/Mg, Dolcetto di Diano, Treiso, Dogliani e Mango: ca 600 Lire/Mg, la Barbera mediamente 700 Lire/Mg. La figura del Mediatoȓ ha cessato di esistere con la chiusura del mercato delle uve in piazza. Oggi che ci siamo emancipati si chiama “Agenzia” con tanto di ufficio, tranne qualche raro travestimento nei dehors dei bar di passaggio. La musica è completamente cambiata!... Adesso parliamo di Beppe Colla: lui mi dice che con un mediatore si è sempre trovato bene, nel senso che si era intrigato con un “Sola” che conosceva le vigne, gli svers giusti, gli scheuj29 di terra favorevoli a produrre cose buone, gli svers da scartare perché non idonei alla vigna. Bisogna anche dire che Beppe Colla era già un cȓotè in gamba che come già ricordato sapeva far bene il suo mestiere. Finisco e aggiungo col dire che Beppe è stato e rimane un soggetto di “carpiniana”30 determinazione, qualifica rara di coerenza e correttezza, nel senso obiettivo e benevolo del termine testé detto. Così preso dagli impegni e dalla sua indole “collante” e intransigente, non ha avuto il tempo necessario a smussare gli spigoli ai duri “listelli” di carpino. PRIMO CULASSO NOTE 1 masantava = maneggiare 2 sëbȓòt = gaȓossèt, gaȓosse, aȓbiát = bigoncini e piccolo albio, tinozza 3 piȓia = gòrgia, cagadoȓ, tëȓmeusa = imbuti invitanti la brenta il cui nome cambiava a seconda dei luoghi 4 ziamenta = attrezzo agricolo 5 mivé = muovere, travasare 6 careȓa = botte grande di quercia nostrana. Si chiamava così perché trasportata sul carro 7 bȓinda = recipiente in legno tronco conico concavo con 2 bretelle (50 litri) 8 piȓia con bȓàje = bȓàje: sostegno ad hòc tra botte e piȓia 9 sòla = persona molto in gamba, un campione di bravura 10 balengo = imbecille, scemo, insensato 11 përgna = gravida, incinta 12 bȓindeuȓ, bȓindáu, bȓindoȓ = operatori della Brenta (50 lit) 13 particolari = proprietari della cascina con terra 14 ciadlé = sistemare, accudire 15 cialàpe = vinotto scadente, di pessima qualità, intruglio 16 svers = versante della collina vocato, oppure no, alla vigna 17 galeuse = colore rosso, verdognolo, opaco 18 brusaȓòla = infiammazione cutanea e non solo nel segmento fondoschiena 19 pòsta = cliente fisso, affezionato 20 mediatoȓ = intermediario: precursore delle attuali agenzie mobiliari/immobiliari 21 nòmina = reputazione 22 baròt = contadino, zappa terra, bifolco 23 cassiné = particolari della pianura (Cuneo, Fossano, Dronero, Saluzzo) 24 ciolarò = fregatura, imbroglio 25 maȓminele = azione illecita, marachella, inganno 26 coȓmèiȓa = ricolmatura, ben sistemata oltre l’orlo dell’albio (troncopiramidale) 27 tërdoché = camminare rumorosamente a piedi accanto al bue 28 carton = carro a due ruote trainato da bue o cavallo 29 scheuj = pezzo di terreno vocato a buoni frutti; dado del bullone 30 carpiniana = derivato da testa ’d Cheȓpo = testa dura, cocciuta come il legno del carpino |
BȒINDEUȒ E MEDIATOȒ
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