ër bacialé: sensale di matrimoni, il paraninfo di primo culasso
Canovaccio della fava e della rava: parliamo di antropologia del dopoguerra
Altri esempi: I suoi di Lei, langhetti, sono andati a vedere “l’ESSE” a Magliano Alto d’Alba in casa dello sposo. Il papà di lui li ha portati presso il muretto-parapetto in piazza, proprio davanti alla chiesa e mettendosi la mano a visiera, per allungare la vista e circoscrivere gli obiettivi, dice: “la vedete quell’arbrera laggiù vicino al Tanaro!...” I langhetti con tutti gli sforzi non riuscivano a vedere l’arbrera (pioppeto) nel punto loro indicato. Poi forza di insistere hanno detto di sì. Allora lui, padre dello sposo, soddisfatto ha così esclamato: “quella è la mia meliga!”... Sempre a Magliano, lo stesso signore, gli fa vedere un bel tratto del Fiume Tanaro e per nulla scomposto dichiara: “Io, sotto il Tanaro, ho 30 giornate di prato sott’acqua!”...
Restituita la visita in Langa, i suoi di Lei, in questo caso il papà, li ha accompagnati alla punta di un “bricco” dove si potesse vedere lontano e dice: “La vedete la collina a destra con tutte quelle vigne?! Nebbioli, pinòt grigi, moscato, dolcetto, barbere: ebbene, sono tutte nostre!”
Poi sono passati nella stalla, dove il vicino gli aveva imprestato alcuni capi di “fasson” cioè quelli della coscia, bei grassi. C’erano inoltre 2 buoi in bella vista e buono stato, e tre mucche linde con i vitellini sempre di “fasson”. A questo punto il padre della sposa esclama: “ër mie vàche i-j fan tuti cobi (fanno tutti parti gemellari e guardate il “culo” che hanno! Cioè, i vitelli, nascono tutti della coscia (ëd fasson). In questo caso però, il genitore della controparte più antivisto, senza farsene accorgere, controllava le catene al collo delle bestie. Se erano arrugginite (risonente) voleva dire che non erano mai state usate per cui i bovini non erano di proprietà, ma imprestati per l’occasione.
Un requisito atavico e scherzoso che si traduceva in un utile consiglio alle ragazze da marito era questo: “bele fije për mariesse ben i-j và n’òm ch’o r’àba lo ch’o pend, lo ch’o pissa e lo ch’os drissa”. Al di là delle interpretazioni maliziose, l’invito rivolto alle ragazze da marito era quello di cercare un buon partito in grado da garantire in contemporanea la presenza di tre beni importanti: “…bei salami pendenti dal soffitto, una bella botte di dolcetto che “pissa” in cantina e tanti sacchi di grano e meliga, ritti davanti al granaio”.
Tuttavia, quando la candidata sposa aveva parecchia roba, veniva stranominata “arditera” (cioè ereditaria di tanta roba) correva subito la voce che il moroso andava ad attaccare il cappello al chiodo; nel senso che a quei tempi c’erano molte lingere (poveri cristi) che provenendo da famiglie numerose e povere, raramente riuscivano ad attaccare il cappello al chiodo. Quindi, se andava bene, si sarebbero ardrissati (sistemati) in casa di lei.
L’usanza dell’ESSE in merito alla ròba aveva anche un senso pragmatico, cioè doveva esprimere la responsabilità delle rispettive famiglie di sincerarsi, di persona, sulla situazione morale ed economica dei candidati sposi prima ch’is parlèisso (parlarsi=fidanzamento); affinchè ci fosse almeno una prospettiva di vita dignitosa e onesta. Non la favola dei due cuori e una capanna!... Prima di tutto: fare bella figura, nessuna cagnarra, molto senno e non fare ridere il mondo (fé bela figura, gnun-e cagnàre, bon sust (giudissi) e nen fé grigné ‘r mond).
Normalmente la cosa ha funzionato bene, anzi, con lincrocio di razze, si sono allevate famiglie serie, intelligenti, e si è arginata la devastazione degli esodi verso le fabbriche.
8. Compenso al Bacialé (solo salvo buon fine): un “tabaleuri” cioè un tabarro,
oppure un “gaban” cioè gabbano oppure una mantellina (mantlin-a). Anche
lui doveva essere presente al pranzo di nozze (Cò chiel o mancava mài au
disné dra sposa. Da qui nasce il detto: “ ’t no fàss ën gaban !”).
9. Se la clausola “salvo buon fine” cioè l’ESSE era favorevole e positivo si
procedeva a:
a) i nubendi tacàvo a porté ‘r busche (inizio del filaggio, simile agli uccelli
che in primavera portano le “busche” (i ramoscelli perché intenzionati a farsi
il nido!) peu parlesse cioè si frequentavano ufficialmente (j’ero moros e
morosa). Il moroso si chiamava anche “giovo” avesse ben avuto 70 anni! Da
noi si chiamava anche andare a vegliare (andé a vijé) sicura conseguenza
del fatto che di giorno il moroso lavorava sodo e il tempo e il permesso, dei
suoi, per far visita alla morosa ce l’aveva solo alla sera.
b) poi si dava “r’ampromission” che consisteva nella solenne promessa di matrimonio: l’anello per la sposa, la “mostra”(orologio) o catenina per lo sposo. Il valore era adeguato alle rispettive possibilità. Tutta roba da buon patto! Mai sgheirare (sprecare).
c) dopo andavano a prendere il contento o farsi iscivere in comune (dòp i andavo a pié ër content ò a fé scrive). 15 gg. prima delle nozze, con 2 testimoni prima in chiesa poi in comune si facevano le pubblicazioni per rendere ufficiale la faccenda.
d) a ra fin is piàvo (si sposavano).
e) bisogna ancora dire che, nel caso del patatràch, cioè la rottura di un ex fidanzamento c’era un’usanza abbastanza cròja (inclemente) da parte del maschio, per una cappellina (innamoramento) non corrisposta. Alla vigilia delle nozze, lo sposo aiutato da qualche testa balorda (viròira), nottetempo, provvedeva a spargere la “Porà” (segatura) dalla casa dell’ex fidanzata fino alla propria. Questa usanza veniva praticata nei Roeri (Castellinaldo, Canale, Vezza). Ciò per significare che la ex non era più di primo pelo.
10. Viaggio di nozze: al massimo fino a Savona, mai all’albergo in intimità,
sempre ospitati da parenti o conoscenti, sdebitandosi con una dozzina di uova o un coniglio. Bisognava cercare di tenere dacconto ad ogni costo! (Viàge ‘d nòsse: ar massim fin-a a Savon-a, mài a r’òstu, sempe d’an parent
portandie na dosen-a d’euv. Tocàva sërché ‘d tene dacont!)
11. Pranzo della sposa, sempre in famiglia per non sprecare gnente, prima dai
suoi di lui, poi dai suoi di lei, così i vicini potevano curiosare e criticare. Però il pranzo era di successo, per farsi vedere, il cuoco o la cuoca erano autoctoni cioè del luogo però erano molto in gamba. Come già detto bisognava farsi vedere!...(Disné dra sposa, sempe ‘n famija për nen sghèiré gnente, pruma da un peu da r’àtr parai j’ausin podivo chejrosé e critiché. Però o disné o j’era sovagnà, ër chisiné ò ra chisinera j’ero “autoctoni” ciè do leu ma j’ero ‘n gamba. Tocàva fesse voghe!...
12. Na còsa ch’a podiva nen manchè, a ra fin do disné, o j’era o Sonèt për ij
spos: ansuma a Rastlèire r’oma bità: poesia recitata agli sposi, da bambini e anche da adulti, seguita da applausi e raccolta mance (bon-a man). L’applauso derivava anche, oltre il componimento della maestra di scuola, dal fatto che i commensali erano ben imbiavati (lord). Insomma: erano ben abbeverati.
13. Riporto 3 proverbi beneauguranti: chi si sposa per la dote farebbe meglio
che si buttasse nelle rocche – l’amicizia tra suocera e nuora dura dalla stufa alla porta – chi attacca il cappello al chiodo si ficca in un bel onere. (chi ch’o së sposa për ra dòte o fa mèj a campesse ‘nt’ër ròche – r’amicissia tra ra madòna e ra nòra a dura dar potagé a ra pòrta ch’a và fòra – chi ch’o tàca ‘r capel au ciò oss fica ‘nt’ën bel badò).
14. Un’altra usanza di una volta e che si è mantenuta nel tempo, sempre per
ragioni commestibili, è il pedaggio o Porta, fatto/a da coscritti e amici dello
sposo. Si trattava della costruzione di un pinnacolo (tipo un gazebo bislungo)
fatto con piante verdi e ornato con edera e fiori. Era sbarrato all’ingresso da
un tronco secco (bion) su un cavalletto su cui era appoggiata una sega
arrugginita. Gli sposi, se volevano entrare, dovevano segare il tronco secco e
duro con una fatica indescrivibile.Ciò avveniva in campagna fino all’avvento
della moda dei pranzi all’albergo. Lì è poi uscita una moda, per me insensata,
che consisteva tra le altre cose di tagliare a fettucce il cravattino dello sposo,
oppure il bere in una scarpa, poi passare alla raccolta di soldi da dare agli
sposi. Questo per dare una mano economica utile al viaggio di nozze.
15. Il portafolio lo teneva stretto solo il suocero (Ër pòrtafeuj o ro masantàva
‘dmàch r’amsé (pàre do spos).
16. Conclusione: pero si tirava avanti senza zap, pc, internet, televisore piatto. Si
lavorava senza fissarsi troppo sui soldi: ce n’erano pochi o nessuno, c’era rispetto anche se sovente era forzato, tenuto dentro, si facevano bambini che si allevavano all’onore del mondo. (Conclision: però is tirava anans sensa cellolar, pc, internet, television. Iss travajava sensa fissesse tròp ën si sòd: ij na j’era pòchi o gnun, j’era o rispèt anche së sovenz o j’era sforsà, is cantava, is catàva dër masnà ch’i s’anlvàvo a r’onor der mond.
Morale: col senno del poi, penso di poterlo dire, se attualizziamo il sistema della “malora”, c’era una morale pragmatica alla vita: il necessario per il sostentamento della famiglia per il futuro, non si è mai fatto il passo più lungo della gamba (j’è mài fàsse ‘r pàss pì longh che ra gamba) e un dettato comportamentale per le regole civili, sociali e morali. Inoltre, con l’intervento di Raul Molinari (punto 7), si è contenuta la diaspora del popolo contadino verso le nuove allettanti mete urbane. Vedendo il disrdine odierno diventa sempre più verosimile il vecchio modo di dire: il tempo è galantuomo.
PRIMO CULASSO
- Indagine sotterranea (nascosta) fatta dal bacialé filibustiere, cioè discreto e furbo. Va sottolineato il fatto che i due nubendi (candidati sposi proposti dal “bacialé”), sovente non si conoscevano neppure perché residenti in paesi diversi, e anche perché c’era assenza di frequentazione pur nello stesso paese, ògnid’un o bèicàva i sò afé! Era rarissimo che iniziassero trattative con simpatie (caplin-e) locali in corso.
- Lavoro di avvicinamento e conoscenza dei genitori dei due sposi, e successiva considerazione sulla “ròba” segnalata dal bacialé për vedere se era interessante per entrambi i genitori e anche per i nonni.
- Voghe r’esse che vuol dire: l’Essere = ròba e anche Se = se và…và, se nò và-là… In quella occasione i genitori si scambiavano le visite per sincerarsi dell’Esse.
- Esempi sulla ròba di Lui: quanti fratelli e sorelle aveva il candidato sposo. Consistenza beni immobili, bestie in stalla, vigne, scorte di grano, scorte di vino, salami appesi alla voltina (soffitto).
- Di Lei sposa: legittima, beni parafernali della sposa (extradote), dote = biancheria e vestiti (lanseù, vesta dra sposa, àtre veste).
- Esempi sulla visita dell’Esse: un terrone candidato sposo alla candidata sposa: tengo u mulinu!... La matun-a (candidata sposa) ha creduto che avesse un “Mulino”, i suoi e lei ci sono cascati e lui teneva un asino, unica bestia che aveva nella stalla. Le fregature c’erano già allora.
Altri esempi: I suoi di Lei, langhetti, sono andati a vedere “l’ESSE” a Magliano Alto d’Alba in casa dello sposo. Il papà di lui li ha portati presso il muretto-parapetto in piazza, proprio davanti alla chiesa e mettendosi la mano a visiera, per allungare la vista e circoscrivere gli obiettivi, dice: “la vedete quell’arbrera laggiù vicino al Tanaro!...” I langhetti con tutti gli sforzi non riuscivano a vedere l’arbrera (pioppeto) nel punto loro indicato. Poi forza di insistere hanno detto di sì. Allora lui, padre dello sposo, soddisfatto ha così esclamato: “quella è la mia meliga!”... Sempre a Magliano, lo stesso signore, gli fa vedere un bel tratto del Fiume Tanaro e per nulla scomposto dichiara: “Io, sotto il Tanaro, ho 30 giornate di prato sott’acqua!”...
Restituita la visita in Langa, i suoi di Lei, in questo caso il papà, li ha accompagnati alla punta di un “bricco” dove si potesse vedere lontano e dice: “La vedete la collina a destra con tutte quelle vigne?! Nebbioli, pinòt grigi, moscato, dolcetto, barbere: ebbene, sono tutte nostre!”
Poi sono passati nella stalla, dove il vicino gli aveva imprestato alcuni capi di “fasson” cioè quelli della coscia, bei grassi. C’erano inoltre 2 buoi in bella vista e buono stato, e tre mucche linde con i vitellini sempre di “fasson”. A questo punto il padre della sposa esclama: “ër mie vàche i-j fan tuti cobi (fanno tutti parti gemellari e guardate il “culo” che hanno! Cioè, i vitelli, nascono tutti della coscia (ëd fasson). In questo caso però, il genitore della controparte più antivisto, senza farsene accorgere, controllava le catene al collo delle bestie. Se erano arrugginite (risonente) voleva dire che non erano mai state usate per cui i bovini non erano di proprietà, ma imprestati per l’occasione.
Un requisito atavico e scherzoso che si traduceva in un utile consiglio alle ragazze da marito era questo: “bele fije për mariesse ben i-j và n’òm ch’o r’àba lo ch’o pend, lo ch’o pissa e lo ch’os drissa”. Al di là delle interpretazioni maliziose, l’invito rivolto alle ragazze da marito era quello di cercare un buon partito in grado da garantire in contemporanea la presenza di tre beni importanti: “…bei salami pendenti dal soffitto, una bella botte di dolcetto che “pissa” in cantina e tanti sacchi di grano e meliga, ritti davanti al granaio”.
Tuttavia, quando la candidata sposa aveva parecchia roba, veniva stranominata “arditera” (cioè ereditaria di tanta roba) correva subito la voce che il moroso andava ad attaccare il cappello al chiodo; nel senso che a quei tempi c’erano molte lingere (poveri cristi) che provenendo da famiglie numerose e povere, raramente riuscivano ad attaccare il cappello al chiodo. Quindi, se andava bene, si sarebbero ardrissati (sistemati) in casa di lei.
L’usanza dell’ESSE in merito alla ròba aveva anche un senso pragmatico, cioè doveva esprimere la responsabilità delle rispettive famiglie di sincerarsi, di persona, sulla situazione morale ed economica dei candidati sposi prima ch’is parlèisso (parlarsi=fidanzamento); affinchè ci fosse almeno una prospettiva di vita dignitosa e onesta. Non la favola dei due cuori e una capanna!... Prima di tutto: fare bella figura, nessuna cagnarra, molto senno e non fare ridere il mondo (fé bela figura, gnun-e cagnàre, bon sust (giudissi) e nen fé grigné ‘r mond).
- È poi subentrato Raul Molinari coi matrimoni tra Nord e Sud (siamo negli anni 1955/60 e dintorni), ciò perchè con l’avvento della fabbrica, le ragazze non ne volevano più sapere di rimanere in campagna e in famiglia. I maschi diventavano tutti “zitelli” cioè si sarebbe estinta la stirpe.
Normalmente la cosa ha funzionato bene, anzi, con lincrocio di razze, si sono allevate famiglie serie, intelligenti, e si è arginata la devastazione degli esodi verso le fabbriche.
8. Compenso al Bacialé (solo salvo buon fine): un “tabaleuri” cioè un tabarro,
oppure un “gaban” cioè gabbano oppure una mantellina (mantlin-a). Anche
lui doveva essere presente al pranzo di nozze (Cò chiel o mancava mài au
disné dra sposa. Da qui nasce il detto: “ ’t no fàss ën gaban !”).
9. Se la clausola “salvo buon fine” cioè l’ESSE era favorevole e positivo si
procedeva a:
a) i nubendi tacàvo a porté ‘r busche (inizio del filaggio, simile agli uccelli
che in primavera portano le “busche” (i ramoscelli perché intenzionati a farsi
il nido!) peu parlesse cioè si frequentavano ufficialmente (j’ero moros e
morosa). Il moroso si chiamava anche “giovo” avesse ben avuto 70 anni! Da
noi si chiamava anche andare a vegliare (andé a vijé) sicura conseguenza
del fatto che di giorno il moroso lavorava sodo e il tempo e il permesso, dei
suoi, per far visita alla morosa ce l’aveva solo alla sera.
b) poi si dava “r’ampromission” che consisteva nella solenne promessa di matrimonio: l’anello per la sposa, la “mostra”(orologio) o catenina per lo sposo. Il valore era adeguato alle rispettive possibilità. Tutta roba da buon patto! Mai sgheirare (sprecare).
c) dopo andavano a prendere il contento o farsi iscivere in comune (dòp i andavo a pié ër content ò a fé scrive). 15 gg. prima delle nozze, con 2 testimoni prima in chiesa poi in comune si facevano le pubblicazioni per rendere ufficiale la faccenda.
d) a ra fin is piàvo (si sposavano).
e) bisogna ancora dire che, nel caso del patatràch, cioè la rottura di un ex fidanzamento c’era un’usanza abbastanza cròja (inclemente) da parte del maschio, per una cappellina (innamoramento) non corrisposta. Alla vigilia delle nozze, lo sposo aiutato da qualche testa balorda (viròira), nottetempo, provvedeva a spargere la “Porà” (segatura) dalla casa dell’ex fidanzata fino alla propria. Questa usanza veniva praticata nei Roeri (Castellinaldo, Canale, Vezza). Ciò per significare che la ex non era più di primo pelo.
10. Viaggio di nozze: al massimo fino a Savona, mai all’albergo in intimità,
sempre ospitati da parenti o conoscenti, sdebitandosi con una dozzina di uova o un coniglio. Bisognava cercare di tenere dacconto ad ogni costo! (Viàge ‘d nòsse: ar massim fin-a a Savon-a, mài a r’òstu, sempe d’an parent
portandie na dosen-a d’euv. Tocàva sërché ‘d tene dacont!)
11. Pranzo della sposa, sempre in famiglia per non sprecare gnente, prima dai
suoi di lui, poi dai suoi di lei, così i vicini potevano curiosare e criticare. Però il pranzo era di successo, per farsi vedere, il cuoco o la cuoca erano autoctoni cioè del luogo però erano molto in gamba. Come già detto bisognava farsi vedere!...(Disné dra sposa, sempe ‘n famija për nen sghèiré gnente, pruma da un peu da r’àtr parai j’ausin podivo chejrosé e critiché. Però o disné o j’era sovagnà, ër chisiné ò ra chisinera j’ero “autoctoni” ciè do leu ma j’ero ‘n gamba. Tocàva fesse voghe!...
12. Na còsa ch’a podiva nen manchè, a ra fin do disné, o j’era o Sonèt për ij
spos: ansuma a Rastlèire r’oma bità: poesia recitata agli sposi, da bambini e anche da adulti, seguita da applausi e raccolta mance (bon-a man). L’applauso derivava anche, oltre il componimento della maestra di scuola, dal fatto che i commensali erano ben imbiavati (lord). Insomma: erano ben abbeverati.
13. Riporto 3 proverbi beneauguranti: chi si sposa per la dote farebbe meglio
che si buttasse nelle rocche – l’amicizia tra suocera e nuora dura dalla stufa alla porta – chi attacca il cappello al chiodo si ficca in un bel onere. (chi ch’o së sposa për ra dòte o fa mèj a campesse ‘nt’ër ròche – r’amicissia tra ra madòna e ra nòra a dura dar potagé a ra pòrta ch’a và fòra – chi ch’o tàca ‘r capel au ciò oss fica ‘nt’ën bel badò).
14. Un’altra usanza di una volta e che si è mantenuta nel tempo, sempre per
ragioni commestibili, è il pedaggio o Porta, fatto/a da coscritti e amici dello
sposo. Si trattava della costruzione di un pinnacolo (tipo un gazebo bislungo)
fatto con piante verdi e ornato con edera e fiori. Era sbarrato all’ingresso da
un tronco secco (bion) su un cavalletto su cui era appoggiata una sega
arrugginita. Gli sposi, se volevano entrare, dovevano segare il tronco secco e
duro con una fatica indescrivibile.Ciò avveniva in campagna fino all’avvento
della moda dei pranzi all’albergo. Lì è poi uscita una moda, per me insensata,
che consisteva tra le altre cose di tagliare a fettucce il cravattino dello sposo,
oppure il bere in una scarpa, poi passare alla raccolta di soldi da dare agli
sposi. Questo per dare una mano economica utile al viaggio di nozze.
15. Il portafolio lo teneva stretto solo il suocero (Ër pòrtafeuj o ro masantàva
‘dmàch r’amsé (pàre do spos).
16. Conclusione: pero si tirava avanti senza zap, pc, internet, televisore piatto. Si
lavorava senza fissarsi troppo sui soldi: ce n’erano pochi o nessuno, c’era rispetto anche se sovente era forzato, tenuto dentro, si facevano bambini che si allevavano all’onore del mondo. (Conclision: però is tirava anans sensa cellolar, pc, internet, television. Iss travajava sensa fissesse tròp ën si sòd: ij na j’era pòchi o gnun, j’era o rispèt anche së sovenz o j’era sforsà, is cantava, is catàva dër masnà ch’i s’anlvàvo a r’onor der mond.
Morale: col senno del poi, penso di poterlo dire, se attualizziamo il sistema della “malora”, c’era una morale pragmatica alla vita: il necessario per il sostentamento della famiglia per il futuro, non si è mai fatto il passo più lungo della gamba (j’è mài fàsse ‘r pàss pì longh che ra gamba) e un dettato comportamentale per le regole civili, sociali e morali. Inoltre, con l’intervento di Raul Molinari (punto 7), si è contenuta la diaspora del popolo contadino verso le nuove allettanti mete urbane. Vedendo il disrdine odierno diventa sempre più verosimile il vecchio modo di dire: il tempo è galantuomo.
PRIMO CULASSO