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Quando le canzoni si imparavano al mercato di celeste oricco

Luigina e Teresina del Pavaglione raccontano…

Eravamo giovani quando andare al mercato di Alba significava alzarsi di buon’ora, scendere nei sentieri lungo le “caussàgne” fino al “punt ‘d Mabùc”, passare San Rocco e imboccare la lunga strada che porta dritta al santuario della Moretta, col bel campanile che si mostrava volentieri per primo e sembrava prendersi gioco di noi, tanto tempo ci voleva a raggiungerlo. L’unica attrazione che ci rendeva accettabile questa fatica erano i cantastorie che il sabato comparivano davanti ai portici del Savona. Una coppia di musicanti che improvvisava un vero e proprio “bollettino” dei casi strazianti, cantando con grande passione le più belle e struggenti storie d’amore e accompagnandole con la fisarmonica. Canzoni che portavano alla ribalta episodi di vita consumati nel giro di chissà quali paesi, guadagnando nel percorso qualche arrangiamento di colore. Intorno ai cantastorie si radunavano vecchi e giovani, presi dall’incanto della trama che si andava snodando, quasi sempre per finire in tragedia. La melodia correva sul filo di “arie” semplici e ripetitive che s’ imprimevano subito nella mente per diventare la colonna sonora delle nostre giornate, in ogni occasione, anche nei campi, mentre strappavamo l’erba “panestrel” sotto i filari e il cantare a squarciagola ci accorciava il tempo del lavoro. Le parole scritte sui foglietti si compravano con pochi soldi e raccontavano di amori giovanili e di madri decise a troncare la relazione prematura: “Quindici anni ha sol Reana ed il giovane venti e più, la lor vita è ormai troncata, il lor cuore non batte più…Dalla mamma è proibita, troppo giovane a quindici anni, non sta bene amoreggiar…” Storie di amori difficili per diversa provenienza sociale, come quella di Giulio e Maria: “Di San Carlo vi canto la scena, di due amanti vi voglio parlar, mai nessuno li potè separare perché eterno era il loro amor… Egli amava una cara fanciulla che a vederla sembrava un tesor e campava del proprio lavoro perché orfana al mondo restò. Era buona la bionda Maria, amava il suo Giulio sincera, ma il suo sogno era chimera e piangendo diceva così - Questa vita così tormentosa, prego Dio la faccia finire, lo invoco, mi faccia morire, questo strazio mi faccia troncar… Tu sei ricco, io povera sono, non ho padre né madre lo sai, e un giorno così tu sposerai una ricca al pari di te”. E che dire della bella Rosina, amata e abbandonata: “ Eri più bella di un fior, quando felice il mio cuor ti chiese amor quel dì, allor tremante mi dissi di sì… O Rosin, tu sei stata troppo amata, ora sei sola, abbandonata, con la morte dentro il cuor…” Storie di gelosia in famiglia, come quella di Anastasia e Lucia: “Nel paese di Santa Teresa abitavano due sorelle, eran ricche però orfanelle… A Lucia un bel giovanotto amor domandò, Anastasia in soffitta la chiamò, poi le disse –Tu qui devi abitare, fino al tempo che a me piacerà”. Lucia riuscirà a salvarsi scrivendo col suo sangue un appello disperato. 
Storie che a quel tempo abitavano anche le nostre cascine e i nostri borghi di campagna, dove la vita era impregnata di sacrifici, rinunce, obbedienza senza riserve. E noi tornavamo a casa con il cuore gonfio di commozione per la triste sorte dei protagonisti, senza avvertire che il germe della rassegnazione, eredità atavica, si radicava in noi. Speravamo nella fortuna. Ma una fortuna allora già l’avevamo, era la spensieratezza e la fiducia nella vita che ci appariva carica di promesse di bene.

CELESTE ORICCO
(Foto è di Bartolomeo Costamagna)

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