Maria dra Bràja di primo culasso
Bisogna che io sia in forma, perché mi incammino a scrivere un tocco di biografia su mia Mamma. Cerco di essere sclinto[1] e di non lasciarmi prendere dalla gena[2], visto che parlo della persona che mi sta troppo a cuore. È “una questione privata”.
Maria è nata nel 1916 alla Bràja, una landa fertile ricca di sorgive, circondata da boschi, con uno sverso sulla sponda ad EST, sopra le case, coltivato a vigna ma solo per il fabbisogno famigliare. Parlo di un’oasi pianeggiante con tranquillità attiva, dove lo zio di mia mamma, Giuvanin, faceva il bifolco di mestiere, cioè il bué; i fratelli di mia mamma, prima di emigrare a cercar fortuna, lavoravano la terra composta da prati, grano, granoturco e la vigna citata. Mio nonno Giusepin col fratello Giuvanin commerciavano un po’ nelle bestie prendendo anche dei vitelli in partita (soccida); inoltre, in famiglia, si faceva anche lo strup[3] nel periodo ottobre/novembre. Poiché mio zio Giuvanin faceva il bué (bifolco) ed era del ‘902, è possibile ispiratore di Beppe Fenoglio, che ne La malora, ha citato la parola “biolca” che riguarda le misure della giornata piemontese (3810 mq) e deriva dalle ore di aratura del bifolco con i due buoi impiegate in una giornata di lavoro, facendo riferimento dell’orario alla stella Buera (Venere) quando spunta e quando tramonta.
Ritrovo lo zio Giuvanin anche nel bellissimo racconto, sempre di B. Fenoglio, Ma il mio amore è Paco, ambientato nell’albergo di BLIN di Rocchetta Belbo, dove narra che Paco, negoziante di bestiame di Feisoglio, in una notte ha perso persino le mutande a giocare a carte.
In casa alla Bràja c’era anche la serva Maria Cita, uno scampolo di persona da vedere, la quale subiva gli sfoghi e le romanzine di mia nonna Talina, e Maria Cita rimaneva imperterrita, come ad incitare Talina… era uno spettacolo.
Devo confessare che le ferie più belle, da gagno, le ho fatte alla Bràja, dove oltre ai vizi da nonni e zii, Talina preparava dei menù squisiti: oltre a tutto il resto mi sono rimasti impressi i trun[4] in composta, i salami fatti in casa che così buoni non li ho più trovati e le tume dello “strup” che non erano da meno, le sogno ancora oggi.
Adesso provo a descrivere il carattere forte e determinato di mia madre: essendo capitata, nelle sue nozze, in una casa dove ha dovuto, giocoforza, prendere le redini in mano, possiamo dire: a r’è bitàsse a purté ‘r bràje[5] infatti aveva sempre ‘r feu ‘nt’ër bràje[6]; sono due modi di dire che esprimono bene la tempra di Lei mettendo però in ombra gli uomini, mio papà Mario e mio nonno Giuvanin ëd Managgiu.
Mio nonno era autoritario ma incline alla socializzazione, suonava la fisarmonica da autodidatta, mio papà invece era un gran lavoratore ma bisognoso di essere comandato a bacchetta.
I rapporti con mia mamma, forse per una certa similitudine di carattere, erano complicati. Una volta si andava a piedi, dal Cappelletto (Trezzo Tinella) alla Bràja c’erano 10 Km ca, durante il percorso facevamo alcune fermate, al Riondino, ai Chinassi, ai Giachinotti, da Purin a dissetarci, io avevo allora 3-4 anni, e la gente del posto diceva a mia mamma: buttalo per terra che è più pesante di te!... Si vede che si è stancata molto perché, finché è vissuta, me l’ha sovente rinfacciato.
[1] Sclint = genuino, trasparente
[2] Gena = soggezione, imbarazzo
[3] Strup = gregge di pecore al montone
[4] Trun = Lactarius deliciosus (funghi)
[5] Purté ‘r bràje = donna che comanda lei
[6] Feu ‘ntër bràje = avere fretta e da fare
Devo però avere anche il coraggio di dire che l’ho presa in ghignone[1] per alcuni motivi, che sono i seguenti.
Le poche volte che mi svagavo con semplici giochi con i miei amici a Lei davamo fastidio e strillando smembrava la combriccola. Poi mi mandava al pascolo in una zona vicina al rittano, oltre il quale c’erano i miei amici che mi aspettavano. Lei mi proibiva di raggiungerli perché la pastura, in codesto luogo, non andava bene. È una delle rare volte che mentalmente ho odiato mia madre. Mi ha sempre comandato a bacchetta: pascolo, davanti ai buoi ad arare filari e campi, e altri lavori adeguati alla mia età. Il suo motto era: guai a perdere tempo. Per lei il divertimento era un peccato!
Devo tuttavia riconoscere le buone vedute di mia madre: siccome la cascina era piccola e noi eravamo due fratelli, Lei con tanti sacrifici mi mandò nel Collegio Convitto di Alba, dove ho conseguito la licenza di Avviamento Professionale. Scuola molto seria e importante che mi ha spalancato le porte al lavoro. Da lì, come privatista, ho poi conseguito il Diploma di Ragioniere. Col senno del poi, non finirò mai di ringraziare mia mamma per la sua lungimiranza e anche per la spartana scuola di vita che mi ha dato. Aggiungo che in campagna era assai in gamba: pretendeva che la nostra cascina fosse un giardino, poi è stata una pioniera (anni ’50) a mettere in pratica il proverbio che recita: s’ët veuri ‘r vin bun a tüte ‘r ràpe dàje ‘n mursion (se vuoi fare il vino buono a ogni grappolo taglia la punta). Notare che erano i tempi che si coglievano per terra gli asinej (acini).
Concludo raccontando un episodio simpatico su mia mamma quand’era ragazzina: verso i 7-8 anni, quindi nel 1924, oltre agli altri lavori, veniva comandata a portare in pastura 60 bibin[2]. Li guardava molto bene, al punto che ha instaurato con loro un buon rapporto. Quando diventarono grandi e da vendere Lei gli è passata davanti con due Kg di meria (meliga) nel faudà[3] trattenuto con la mano sinistra a mo’ di sacchetta e con la destra, ogni tanto buttava per terra una brancà[4] di meria. Notare che dalla Bràja a Rocchetta c’è un Km di strada amena quasi pianeggiante in mezzo al bosco. Dietro di lei c’era un bibin maschio affezionato che faceva la ronda con le bibin-e ammassate dietro incantate e allegre. Si era scatenato in loro il processo della biochimica dell’amore! Controllava la scena Maria Cita con una ràma in mano. Più indietro nonna Talina, con cavalla e balestrina, da buona matriarca, chiudeva autorevolmente e con signorilità la processione. A Rocchetta c’era il commerciante che le attendeva, l’appuntamento è stato in perfetto orario, non mancava un tacchino. Mia nonna era una gran bella donna! Anche Lei portava le bràje, di fatto Lei era Talina della “Bràja”!
Mia Mamma è morta il 1° gennaio 2009, mancava una brancà di giorni a compiere 93 anni. Non passa settimana che io non mi rechi al cimitero di Trezzo Tinella a farle visita. Peccato che certi sentimenti vengano fuori in differita. Normalmente capita così!
PRIMO CULASSO
(Nelle foto in alto: Maria dra Braja, col sapìn, mamma di Primo e Maria Cita)
[1] Ghignone = espressione schifata e disgustata
[2] Bibin, bibin-e = tacchini
[3] Faudà = grembiule
[4] Brancà = manciata
Maria è nata nel 1916 alla Bràja, una landa fertile ricca di sorgive, circondata da boschi, con uno sverso sulla sponda ad EST, sopra le case, coltivato a vigna ma solo per il fabbisogno famigliare. Parlo di un’oasi pianeggiante con tranquillità attiva, dove lo zio di mia mamma, Giuvanin, faceva il bifolco di mestiere, cioè il bué; i fratelli di mia mamma, prima di emigrare a cercar fortuna, lavoravano la terra composta da prati, grano, granoturco e la vigna citata. Mio nonno Giusepin col fratello Giuvanin commerciavano un po’ nelle bestie prendendo anche dei vitelli in partita (soccida); inoltre, in famiglia, si faceva anche lo strup[3] nel periodo ottobre/novembre. Poiché mio zio Giuvanin faceva il bué (bifolco) ed era del ‘902, è possibile ispiratore di Beppe Fenoglio, che ne La malora, ha citato la parola “biolca” che riguarda le misure della giornata piemontese (3810 mq) e deriva dalle ore di aratura del bifolco con i due buoi impiegate in una giornata di lavoro, facendo riferimento dell’orario alla stella Buera (Venere) quando spunta e quando tramonta.
Ritrovo lo zio Giuvanin anche nel bellissimo racconto, sempre di B. Fenoglio, Ma il mio amore è Paco, ambientato nell’albergo di BLIN di Rocchetta Belbo, dove narra che Paco, negoziante di bestiame di Feisoglio, in una notte ha perso persino le mutande a giocare a carte.
In casa alla Bràja c’era anche la serva Maria Cita, uno scampolo di persona da vedere, la quale subiva gli sfoghi e le romanzine di mia nonna Talina, e Maria Cita rimaneva imperterrita, come ad incitare Talina… era uno spettacolo.
Devo confessare che le ferie più belle, da gagno, le ho fatte alla Bràja, dove oltre ai vizi da nonni e zii, Talina preparava dei menù squisiti: oltre a tutto il resto mi sono rimasti impressi i trun[4] in composta, i salami fatti in casa che così buoni non li ho più trovati e le tume dello “strup” che non erano da meno, le sogno ancora oggi.
Adesso provo a descrivere il carattere forte e determinato di mia madre: essendo capitata, nelle sue nozze, in una casa dove ha dovuto, giocoforza, prendere le redini in mano, possiamo dire: a r’è bitàsse a purté ‘r bràje[5] infatti aveva sempre ‘r feu ‘nt’ër bràje[6]; sono due modi di dire che esprimono bene la tempra di Lei mettendo però in ombra gli uomini, mio papà Mario e mio nonno Giuvanin ëd Managgiu.
Mio nonno era autoritario ma incline alla socializzazione, suonava la fisarmonica da autodidatta, mio papà invece era un gran lavoratore ma bisognoso di essere comandato a bacchetta.
I rapporti con mia mamma, forse per una certa similitudine di carattere, erano complicati. Una volta si andava a piedi, dal Cappelletto (Trezzo Tinella) alla Bràja c’erano 10 Km ca, durante il percorso facevamo alcune fermate, al Riondino, ai Chinassi, ai Giachinotti, da Purin a dissetarci, io avevo allora 3-4 anni, e la gente del posto diceva a mia mamma: buttalo per terra che è più pesante di te!... Si vede che si è stancata molto perché, finché è vissuta, me l’ha sovente rinfacciato.
[1] Sclint = genuino, trasparente
[2] Gena = soggezione, imbarazzo
[3] Strup = gregge di pecore al montone
[4] Trun = Lactarius deliciosus (funghi)
[5] Purté ‘r bràje = donna che comanda lei
[6] Feu ‘ntër bràje = avere fretta e da fare
Devo però avere anche il coraggio di dire che l’ho presa in ghignone[1] per alcuni motivi, che sono i seguenti.
Le poche volte che mi svagavo con semplici giochi con i miei amici a Lei davamo fastidio e strillando smembrava la combriccola. Poi mi mandava al pascolo in una zona vicina al rittano, oltre il quale c’erano i miei amici che mi aspettavano. Lei mi proibiva di raggiungerli perché la pastura, in codesto luogo, non andava bene. È una delle rare volte che mentalmente ho odiato mia madre. Mi ha sempre comandato a bacchetta: pascolo, davanti ai buoi ad arare filari e campi, e altri lavori adeguati alla mia età. Il suo motto era: guai a perdere tempo. Per lei il divertimento era un peccato!
Devo tuttavia riconoscere le buone vedute di mia madre: siccome la cascina era piccola e noi eravamo due fratelli, Lei con tanti sacrifici mi mandò nel Collegio Convitto di Alba, dove ho conseguito la licenza di Avviamento Professionale. Scuola molto seria e importante che mi ha spalancato le porte al lavoro. Da lì, come privatista, ho poi conseguito il Diploma di Ragioniere. Col senno del poi, non finirò mai di ringraziare mia mamma per la sua lungimiranza e anche per la spartana scuola di vita che mi ha dato. Aggiungo che in campagna era assai in gamba: pretendeva che la nostra cascina fosse un giardino, poi è stata una pioniera (anni ’50) a mettere in pratica il proverbio che recita: s’ët veuri ‘r vin bun a tüte ‘r ràpe dàje ‘n mursion (se vuoi fare il vino buono a ogni grappolo taglia la punta). Notare che erano i tempi che si coglievano per terra gli asinej (acini).
Concludo raccontando un episodio simpatico su mia mamma quand’era ragazzina: verso i 7-8 anni, quindi nel 1924, oltre agli altri lavori, veniva comandata a portare in pastura 60 bibin[2]. Li guardava molto bene, al punto che ha instaurato con loro un buon rapporto. Quando diventarono grandi e da vendere Lei gli è passata davanti con due Kg di meria (meliga) nel faudà[3] trattenuto con la mano sinistra a mo’ di sacchetta e con la destra, ogni tanto buttava per terra una brancà[4] di meria. Notare che dalla Bràja a Rocchetta c’è un Km di strada amena quasi pianeggiante in mezzo al bosco. Dietro di lei c’era un bibin maschio affezionato che faceva la ronda con le bibin-e ammassate dietro incantate e allegre. Si era scatenato in loro il processo della biochimica dell’amore! Controllava la scena Maria Cita con una ràma in mano. Più indietro nonna Talina, con cavalla e balestrina, da buona matriarca, chiudeva autorevolmente e con signorilità la processione. A Rocchetta c’era il commerciante che le attendeva, l’appuntamento è stato in perfetto orario, non mancava un tacchino. Mia nonna era una gran bella donna! Anche Lei portava le bràje, di fatto Lei era Talina della “Bràja”!
Mia Mamma è morta il 1° gennaio 2009, mancava una brancà di giorni a compiere 93 anni. Non passa settimana che io non mi rechi al cimitero di Trezzo Tinella a farle visita. Peccato che certi sentimenti vengano fuori in differita. Normalmente capita così!
PRIMO CULASSO
(Nelle foto in alto: Maria dra Braja, col sapìn, mamma di Primo e Maria Cita)
[1] Ghignone = espressione schifata e disgustata
[2] Bibin, bibin-e = tacchini
[3] Faudà = grembiule
[4] Brancà = manciata