Eligio ai Granarèt
PARTE I
Ricordi d’un tempo che ora pare leggendario, e che pure è soltanto del secolo scorso: il ventesimo dell’Era Volgare.
Infanzia di Eligio Murialdo vissuta ai Granarèt: Cascina del Comune di Gorzegno Versante SUD/EST di Niella Belbo.
Ricordi d’un tempo che ora pare leggendario, e che pure è soltanto del secolo scorso: il ventesimo dell’Era Volgare.
Infanzia di Eligio Murialdo vissuta ai Granarèt: Cascina del Comune di Gorzegno Versante SUD/EST di Niella Belbo.
Sotto i 10 anni, “quando ancor lungo, la speme, e breve ha la memoria corso”, è naturale non pensare al passato, ai ricordi. Ma quando uno ha trascorso i nove decimi di secolo, è giustificato se indulge col pensiero al tempo passato. E’ strano, un ultranovantenne, e chiedo scusa a quanti hanno anche più anni, è statisticamente un sopravissuto oppure come si dice da noi un dimenticato da Nostro Signore. Tuttavia, se ha la fortuna di avere buona memoria, non gli pare di aver trascorso anni, ma giorni, o al massimo, stagioni. Amici coetanei, -1919 – 1920 - : a quale anno appartiene il vostro più antico e chiaro dei ricordi? – sesto della nidiata, io nacqui il 14 gennaio 1920 -. Il mio più antico ricordo risale al giorno che nacque il minore di noi fratelli, ottavo della nidiata. Era una giornata grigia del tardo autunno del ’23 e tutta quella marmaglia – eravamo già in sette fratelli – ( forse i due più anziani non erano in casa, ma presso qualche famiglia a servizio, a guadagnarsi il pane ) -, comunque sia, tutta quella marmaglia, dicevo, nell’occasione era meglio togliersela di torno. Quello dei miei fratelli che era sull’età degli anni dieci, ed era un appassionato di armi e esplosivi, portò la truppa nei boschi, da casa non più lontani di un paio di centinaia di metri. Io avevo tre anni e mezzo, e l’altro più piccolo due. Il compito, ideato dal capo di quel gruppetto di nani, era di far saltare in aria un grosso ceppo di quercia con una carica di dinamite, con innesco a miccia a lenta combustione. Il tutto era stato sottratto dalla scorta di nostro padre che l’adoperava per far saltare le scàfe2, che venivano ad affiorare anno dopo anno in quei ripidi coltivi a terrazzo, contrastando l’opera dell’aratro. Ricordo che il fratello minatore, con la vrin-a3, fece il buco nel ceppo, che essendo piuttosto marcio, fortunatamente rese vana la spinta laterale della mina.
Perché il mio fratellino del 1921, incuriosito dallo smoje4: della miccia, anziché scappare, era corso a curiosare, giungendo nei pressi proprio nel momento dello scoppio. Naturalmente questa avventura rimase sempre in segreto tra noi fratelli, e i nostri genitori non la conobbero mai, non ci credettero, pensando che fosse una delle nostre fantasiose vanterie. Verso i miei quattro anni, e giunto alla fine del primo quinto del mio ventesimo, mia madre prese ad avere anche troppa fiducia nella mia innata sincerità.
Perché il mio fratellino del 1921, incuriosito dallo smoje4: della miccia, anziché scappare, era corso a curiosare, giungendo nei pressi proprio nel momento dello scoppio. Naturalmente questa avventura rimase sempre in segreto tra noi fratelli, e i nostri genitori non la conobbero mai, non ci credettero, pensando che fosse una delle nostre fantasiose vanterie. Verso i miei quattro anni, e giunto alla fine del primo quinto del mio ventesimo, mia madre prese ad avere anche troppa fiducia nella mia innata sincerità.
Quando per qualche motivo si assentava da casa, come quando doveva andare a Monesiglio dai suoi fratelli e sorelle, al ritorno mi chiedeva sempre cosa avevano combinato i miei fratelli. Le domande mi parevano così pacifiche, che per la mia età non potevo che rispondere sempre con piena sincerità. Le marachelle dei miei fratelli mi parevano comportamenti naturali; ma per nostra madre sovente dovevano essere punite, e non risparmiava loro la verga di nocciolo, di castagno oppure di salice, immancabili, anzi abbondanti in quei luoghi. Così, quando si assentava da casa, per far visita ai parenti a Monesiglio o a Monbarcaro, i miei fratelli preferivano che nostra madre mi portasse con se. Ma lei preferiva lasciare il … registratore (che ero io) a casa. I fratelli cercavano di insegnarmi le risposte da dare alla mamma, ma le domande di lei erano sempre diverse, ed io non sapevo rispondere che dicendo la verità.
E quando li puniva, cercava di evitare che io fossi presente. Vorrei che non si pensasse che nostra madre fosse cattiva. Anzi era molto pia, caritatevole verso tutti, di un’attività incredibile. S’era vista mettere al mondo una fila di figli maschi, otto, tra il 1910 e il 1923. In una località a dir poco selvatica, sul fianco di colline erte, con erti sentieri e vie, erto persino il cortile di casa; col paese più vicino distante fors’anche cinque chilometri d’erto cammino, non aveva certo la possibilità di aver qualche aiuto per domare quel plotone di uomini.
Era logico che usasse “la ràma” per tenerci sempre attivi nelle nostre incombenze e svegli all’occorrenza. Nostra madre era sempre la prima ad alzarsi da letto all’alba. Accendere il fuoco (quasi in ogni stagione, essendoci sempre qualcosa da cuocere per noi e per gli animali); fare la sveglia insistentemente, ripetutamente, tanto da troncare anche i nostri sogni del mattino, dovendo condurre le fèje al pascolo, anche prima di andare a scuola. Ricordo che quello dei miei fratelli che aveva quattro anni più di me, un mattino che mamma tornava alla carica, col “salta giù, lascia uscire le fèje”, lui ancora sognava, e con voce lagnosa la pregava: “lasciami ancora schiacciare questa nocciolina !” .
E quando li puniva, cercava di evitare che io fossi presente. Vorrei che non si pensasse che nostra madre fosse cattiva. Anzi era molto pia, caritatevole verso tutti, di un’attività incredibile. S’era vista mettere al mondo una fila di figli maschi, otto, tra il 1910 e il 1923. In una località a dir poco selvatica, sul fianco di colline erte, con erti sentieri e vie, erto persino il cortile di casa; col paese più vicino distante fors’anche cinque chilometri d’erto cammino, non aveva certo la possibilità di aver qualche aiuto per domare quel plotone di uomini.
Era logico che usasse “la ràma” per tenerci sempre attivi nelle nostre incombenze e svegli all’occorrenza. Nostra madre era sempre la prima ad alzarsi da letto all’alba. Accendere il fuoco (quasi in ogni stagione, essendoci sempre qualcosa da cuocere per noi e per gli animali); fare la sveglia insistentemente, ripetutamente, tanto da troncare anche i nostri sogni del mattino, dovendo condurre le fèje al pascolo, anche prima di andare a scuola. Ricordo che quello dei miei fratelli che aveva quattro anni più di me, un mattino che mamma tornava alla carica, col “salta giù, lascia uscire le fèje”, lui ancora sognava, e con voce lagnosa la pregava: “lasciami ancora schiacciare questa nocciolina !” .
PARTE II
Ricordi d’un tempo che ora pare leggendario, e che pure è soltanto del secolo scorso: il ventesimo dell’Era Volgare. Infanzia di Eligio Murialdo vissuta ai Granarèt Cascina del Comune di Gorzegno Versante SUD/EST di Niella Belbo.
Ricordi d’un tempo che ora pare leggendario, e che pure è soltanto del secolo scorso: il ventesimo dell’Era Volgare. Infanzia di Eligio Murialdo vissuta ai Granarèt Cascina del Comune di Gorzegno Versante SUD/EST di Niella Belbo.
” Nostra madre faceva di tutto. Ci faceva le camicie (quelle senza colletto); filava la lana delle nostre fèje, con fuso e canocchia. La usava sia al color naturale, sia dopo averla tinta (quasi sempre di nero); ci faceva le calze col piedino di ricambio. Ci cuciva certe tute caratteristiche (i toni), con una specie di usciolo posteriore, tenuto su con due bottoni. Comodo per i bisognini dei bambini, e perciò quella tuta era la divisa dei primi anni infantili. E la nonna, giunta da Monesiglio, si complimentava con l’ultimo dei miei fratelli, quello del ’23, quando lo trovò anche lui con i calzoni, di fustàgno, anche quelli confezionati da nostra madre. Allora c’era il mal vezzo – (come ora si dice) – di parlare con i bambini con un birignao (parlare da vizioso), che storpiava le parole, specie in dialetto. La nonna aveva detto pressappoco così: “Oh balle, Nic….. ha già le brache!” Noi lo sfottevamo (come ora si dice), traducendo: “oh balle, Nic….. ha già le balle!” Nostra madre lo allattò molto più a lungo degli altri. E noi lo scherzavamo, chiamandolo imitando la voce della mamma: “ Vieni, Nic….., che ti do il pupu !”
Poiché nostra madre coccolava più di tutti gli altri l’ultimo figlio, non mancava a qualcuno degli altri fratelli la fantasia di farle qualche scherzo, a volte anche esagerato. Come quella volta che il fratello Pier… si prese il fratellino a cavalcioni, con le gambe piegate sul davanti e la testa e le braccia pendoloni dietro la schiena, e lo portò alla mamma dicendo che quello era caduto dal muro dell’aia, mentre giocavano, e s’era rotto il collo.
Quando vide la disperazione della mamma, mise in piedi il fratellino, e tutti e due corsero via, prima che la rabbia materna li raggiungesse, con la solita “ràma”, che quella volta era di roverella (detto tanto per sdrammatizzare).
Nostro padre era nato nel 1875, la mamma nel 1888: tredici anni di differenza di età. S’erano sposati nel 1909 e tra il 1910 e il 1923 ebbero otto figli maschi, zero femmine. Ai loro tempi pochi erano gli anni di scuola: Tuttavia, sia papà sia mamma sapevano scrivere, leggere e fare di conto. Papà aveva una grafia che era persino ricercata oltre che chiara, e gli piaceva leggere.
Più che altro libri e pubblicazioni religiose: le uniche che raggiungevano le parrocchie. Poi vite dei Santi e leggende, che i maestri di scuola passavano agli alunni. Su quei colli, mai inquinati da fonti luminose (la luce elettrica ci raggiunse solo dopo il 1946), il cielo notturno sereno era uno spettacolo di miriadi di stelle piccole e grandi, ove spiccavano le costellazioni del nostro emisfero. E nostro padre godeva un mondo a ripeterne i nomi letti sui libri e quelli che la tradizione popolare aveva tramandato. Ora le costellazioni sono cadute tutte per terra. Ogni paese o città ne ha una, brutta e disordinata, e nel cielo a stento si notano le stelle più luminose, né si riesce a capire a quale costellazione appartengono.
Nostra madre, non avendo figlie, ci aveva abituati a fare tutti i lavori di casa: sia le pulizie, sia i lavori di cucina. Nostro padre ci abituò ad usare tutti gli attrezzi di campagna ed accudire agli animali domestici. Sapeva lavorare il legno, dal bion da abbattere, da squadrare, da segnare sopra e sotto con il filo di lana sporco di tinta rossa. Il bion così preparato veniva legato sopra un altro bion, per consentirne la prominenza, fissato ben fermo a terra sopra un bȓicalèt.
Legato con robusta catena, sporgeva per metà lunghezza. Per segarlo in tante assi ci si metteva in due: uno sopra il tronco, l’altro sotto, e seguendo con gli occhi le linee rosse sopra e sotto, con quattro mani veniva tirata e spinta un’apposita sega: quella usata dai segantini del Trentino: troppo difficile da spiegare: però so che si chiamava tȓentina.
Le assi quando erano ben stagionate, servivano per costruire palchetti in legno nelle case. Nostro padre le piallava ad una ad una, faceva gli incastri con i ferri appositi, e incastrandole costruiva palchetti. Costruiva tini, tinozze, secchie in legno di gelso, zoccoletti in legno di ontano, pale e palette in legno di tremulo o di salice.
Sapeva ricucire, risuolare scarpe, fare zoccole da portare in inverno. Non perdeva mai tempo, e come ebbi già ad accennare, all’occorrenza diventava anche … minatore. Tanto per capire come le cose sono cambiate in settanta, ottant’anni, vi dirò come si trebbiava il grano in quei luoghi a quell’epoca.
Nostro padre preparava l’aia (l’unico spazio pianeggiante vicino casa), poco più di un centinaio di metri quadrati, tappando tutti i buchi con pàta, nita e anche con busa di bue. Poi in una giornata di caldo secco stendeva sull’aia ëȓ cheuv di grano, e attaccato un paio di manzi al ribàt, li faceva girare con quello sul grano, girandolo e scuotendolo ogni tanto, sinchè si separassero i chicchi dalla paglia. Poi, via manzi e trebbio, via la paglia, s’ammucchiava la granella, la si vagliava, si ripassava al vàj, che era appeso al tre piedi, che era formato da tre grandi pali riuniti in punta e larghi alla base, su cui era fissata alla punta una catena dondolante a cui era legato il vàj.
Con molta pazienza, e poca granella per volta, la si puliva da ogni impurità, e si metteva nel sacco. Ora che ho detto “si puliva” mi viene in mente che non ho accennato al momento che il grano veniva liberato dalla pula. Questo si otteneva, dopo aver tolto la paglia, slansando contro vento con la pala, tutto il rimanente, dopo averlo ammucchiato sul lato contro vento.
Il ribàt non era che un grosso tronco d’albero, lungo un po’ più di un metro, al massimo un metro e mezzo, scanalato longitudinalmente da profonde tacche triangolari, che finivano di dare al medesimo l’aspetto di un cilindro simile ad una grande ruota di ingranaggio.
Il ribàt inoltre aveva due sà che spuntavano dal centro delle due basi, veniva ancora sistemato con un bot di legno con bissora, in modo da poterlo far ruotare e poi trascinare, con un timone fissato ai due bot citati, perciò rotolante e trainato dai manzi cui accennai prima. Se è difficile spiegare questo modo di trebbiare il grano per prepararlo da essere macinato, capirete che il farlo era ancora più complicato. Così ci riconciliamo con i tempi moderni, che ci hanno reso difficile vedere le stelle, ma ci hanno completamente facilitato il modo di portare in tavola il pane.
Con molta pazienza, e poca granella per volta, la si puliva da ogni impurità, e si metteva nel sacco. Ora che ho detto “si puliva” mi viene in mente che non ho accennato al momento che il grano veniva liberato dalla pula. Questo si otteneva, dopo aver tolto la paglia, slansando contro vento con la pala, tutto il rimanente, dopo averlo ammucchiato sul lato contro vento.
Il ribàt non era che un grosso tronco d’albero, lungo un po’ più di un metro, al massimo un metro e mezzo, scanalato longitudinalmente da profonde tacche triangolari, che finivano di dare al medesimo l’aspetto di un cilindro simile ad una grande ruota di ingranaggio.
Il ribàt inoltre aveva due sà che spuntavano dal centro delle due basi, veniva ancora sistemato con un bot di legno con bissora, in modo da poterlo far ruotare e poi trascinare, con un timone fissato ai due bot citati, perciò rotolante e trainato dai manzi cui accennai prima. Se è difficile spiegare questo modo di trebbiare il grano per prepararlo da essere macinato, capirete che il farlo era ancora più complicato. Così ci riconciliamo con i tempi moderni, che ci hanno reso difficile vedere le stelle, ma ci hanno completamente facilitato il modo di portare in tavola il pane.
IL Compleanno di Eligio Montelupo, 11 gennaio 2015
Eligio, nostro padre, oggi compie 95 anni. Eccolo nel momento della sera in cui, nella penombra, studia, legge e prega. (Veramente qui è stato colto mentre fa le parole crociate, per tener sveglio il cervello). Ha passato tutta la sua vita, dopo la guerra e tre anni di prigionia in Germania, a lavorare, leggere e studiare. E' appassionato di greco e latino ma con questo non mi ha mai aiutato al liceo a tradurre una di quelle bastardissime versioni. In compenso corregge le traduzioni in italiano dei classici, così, per diletto. Parla anche un po' di tedesco, francese e legge pure qualche romanzo in spagnolo. Ora vive con Saida, la sua simpatica badante marocchina, con la quale oramai scambia diverse frasi in arabo. Questi due sono ormai molto affiatati e rappresentano un perfetto esempio di convivenza interculturale. Ognuno prega il suo Dio, sebbene in stanze diverse. Eligio, a suo modo, ha seguito il ramadàn di Saida e, pur rammaricato di dover pranzare da solo, ha sempre aspettato il calar del sole per cenare con Saida. Il salame e la salsiccia, di cui è sempre stato ghiotto, li mangia solo fuori casa. Quando è il mio turno e viene su a mangiare da noi, non glielo facciamo mai mancare. "Tutto mi sarei aspettato, ma mai di passare gli ultimi anni della mia vita mangiando secondo i dettami del Profeta!", me l'ha detto qualche tempo fa, sorridendo... Jhonny Giampiero Murialdo |