TONI bon di celeste oricco
Luigina e Teresina del Pavaglione raccontano…
Si chiamava Antonio , ma tutti lo chiamavano Tòni bon. A Trezzo Tinella forse c’è ancora oggi qualcuno che indica la località Leomonte, dicendo “da Tòni bon”. Il nostro nonno materno era una di quelle persone che dal nulla sanno scrivere la storia di una famiglia, con la sola forza del lavoro, sorretto dall’imperativo dell’onestà, riconosciuta da tutti. Per questo fu soprannominato Tòni bon.
Era nato nel 1863, era un trovatello, come tanti a quell’epoca, allevato da una famiglia di Trezzo. A dodici anni già faceva il servitù per guadagnarsi la pagnotta e ci rimase fino a quando sposò Giuseppina, detta Pinota e prese a mezzadria la cascina Bricco, sotto San Donato di Mango. Qualche anno, poi passò alla cascina Gherta di Mango, sempre a fare il mezzadro. Con i primi risparmi comprò una casa nella borgata Leomonte, a Trezzo Tinella, con un po’ di terra da lavorare. Vennero i figli, i primi due morti appena nati, poi Margherita, detta Ghitin e Michele. Pinota faceva la “conducente”, aveva un cavallo con il carton, andava ad Alba a caricare la merce all’ingrosso e la portava a Camilot che aveva il negozio lì nella borgata. Antonio e i figli lavoravano la campagna, anche Ghitin, nostra madre, si sobbarcava i lavori pesanti, forte come un uomo. Quando la vendemmia andava bene, Antonio comprava un pezzo di terra e presto ce ne fu abbastanza per piantare una bella vigna sul fianco della collina, sotto la cascina Serra. Lui e i suoi figli dissotterravano le pietre, le portavano in spalla, le radunavano a metà collina, per costruire il ciabot. Facevano i solchi per piantare le viti e li riempivano con il letame che portavano in spalla, nel gorbon, dalla stalla fino alla salita della vigna. Antonio aveva sì una bella coppia di buoi, ma li teneva con riguardo perché avevano preso il primo premio alla fiera del paese. A nostra madre è venuta una spalla più bassa dell’altra a forza di caricare. Il ciabot l’hanno costruito bello grande, a due piani, con sotto il ricovero degli attrezzi e sopra una stanza con un tavolo e la stufa per riscaldare la bagna cauda a colazione. Un orto a lato e intorno l’uva bacò, la primizia da portare ad assaggiare ai parenti. Il vino, Antonio lo sapeva fare bene. “Andiamo a bere un bicchiere” diceva a chiunque passasse di là e stappava una bottiglia di vino buono. Poi incominciava a raccontare, perché Antonio era un buon affabulatore. Nelle sere d’inverno, i vicini si radunavano a casa sua. Sentirlo declamare le storie era uno spasso e lui ne snocciolava una dopo l’altra, chissà dove andava a pescarle: Daradin, Stomi comodò, Tribursia…
Ghitin, nostra madre, che si era sposata a sedici anni per andare a vivere al Pavaglione, ha ereditato dal nonno l’arte delle storie e le sere d’inverno, mentre lavorava a maglia, ci radunava tutti intorno alla stufa. Ascoltavamo innumerevoli volte l’avventura del mugnaio avaro che si fa burlare dal contadino scaltro, le rocambolesche stramberie di Tribursia e ridevamo a crepapelle. Giovannina, la nostra sorella più grande, andava spesso dai nonni a Trezzo. Partivano a piedi dal Pavaglione, lei e la mamma e appena arrivate il nonno diceva alla moglie “Vai da Camilot e compera qualcosa a questa bambina”. Si trattava di un paio di pantofole, un vestitino…un lusso a quei tempi! Giovannina si fermava qualche giorno, poi ritornava al Pavaglione, sempre a piedi sui sentieri, accompagnata dalla nonna che andava dicendo “Ancheu mè noda a compiss neuv àgn, a ȓ’è nà a neuv oȓe e mi ȓ’heu fàje cheuse n’euv!” Pensate, un uovo per il compleanno!
Antonio a sessant’anni si è ammalato, le gambe non volevano più reggerlo. Prima che il cuore cedesse ha passato quattro anni seduto nel letto. Di lui ci è rimasta una sola foto di quel periodo e noi lo ricordiamo così, rassegnato, nel suo letto. Al camposanto, Giovannina ha iniziato a dire la poesia, ma alle parole “caro nonno” le lacrime hanno avuto la meglio e le hanno impedito di continuare. Ancora oggi, quando diciamo a chi viene da Trezzo che noi siamo le nipoti di Tòni bon, il viso si illumina: hanno capito chi siamo.
CELESTE ORICCO
Si chiamava Antonio , ma tutti lo chiamavano Tòni bon. A Trezzo Tinella forse c’è ancora oggi qualcuno che indica la località Leomonte, dicendo “da Tòni bon”. Il nostro nonno materno era una di quelle persone che dal nulla sanno scrivere la storia di una famiglia, con la sola forza del lavoro, sorretto dall’imperativo dell’onestà, riconosciuta da tutti. Per questo fu soprannominato Tòni bon.
Era nato nel 1863, era un trovatello, come tanti a quell’epoca, allevato da una famiglia di Trezzo. A dodici anni già faceva il servitù per guadagnarsi la pagnotta e ci rimase fino a quando sposò Giuseppina, detta Pinota e prese a mezzadria la cascina Bricco, sotto San Donato di Mango. Qualche anno, poi passò alla cascina Gherta di Mango, sempre a fare il mezzadro. Con i primi risparmi comprò una casa nella borgata Leomonte, a Trezzo Tinella, con un po’ di terra da lavorare. Vennero i figli, i primi due morti appena nati, poi Margherita, detta Ghitin e Michele. Pinota faceva la “conducente”, aveva un cavallo con il carton, andava ad Alba a caricare la merce all’ingrosso e la portava a Camilot che aveva il negozio lì nella borgata. Antonio e i figli lavoravano la campagna, anche Ghitin, nostra madre, si sobbarcava i lavori pesanti, forte come un uomo. Quando la vendemmia andava bene, Antonio comprava un pezzo di terra e presto ce ne fu abbastanza per piantare una bella vigna sul fianco della collina, sotto la cascina Serra. Lui e i suoi figli dissotterravano le pietre, le portavano in spalla, le radunavano a metà collina, per costruire il ciabot. Facevano i solchi per piantare le viti e li riempivano con il letame che portavano in spalla, nel gorbon, dalla stalla fino alla salita della vigna. Antonio aveva sì una bella coppia di buoi, ma li teneva con riguardo perché avevano preso il primo premio alla fiera del paese. A nostra madre è venuta una spalla più bassa dell’altra a forza di caricare. Il ciabot l’hanno costruito bello grande, a due piani, con sotto il ricovero degli attrezzi e sopra una stanza con un tavolo e la stufa per riscaldare la bagna cauda a colazione. Un orto a lato e intorno l’uva bacò, la primizia da portare ad assaggiare ai parenti. Il vino, Antonio lo sapeva fare bene. “Andiamo a bere un bicchiere” diceva a chiunque passasse di là e stappava una bottiglia di vino buono. Poi incominciava a raccontare, perché Antonio era un buon affabulatore. Nelle sere d’inverno, i vicini si radunavano a casa sua. Sentirlo declamare le storie era uno spasso e lui ne snocciolava una dopo l’altra, chissà dove andava a pescarle: Daradin, Stomi comodò, Tribursia…
Ghitin, nostra madre, che si era sposata a sedici anni per andare a vivere al Pavaglione, ha ereditato dal nonno l’arte delle storie e le sere d’inverno, mentre lavorava a maglia, ci radunava tutti intorno alla stufa. Ascoltavamo innumerevoli volte l’avventura del mugnaio avaro che si fa burlare dal contadino scaltro, le rocambolesche stramberie di Tribursia e ridevamo a crepapelle. Giovannina, la nostra sorella più grande, andava spesso dai nonni a Trezzo. Partivano a piedi dal Pavaglione, lei e la mamma e appena arrivate il nonno diceva alla moglie “Vai da Camilot e compera qualcosa a questa bambina”. Si trattava di un paio di pantofole, un vestitino…un lusso a quei tempi! Giovannina si fermava qualche giorno, poi ritornava al Pavaglione, sempre a piedi sui sentieri, accompagnata dalla nonna che andava dicendo “Ancheu mè noda a compiss neuv àgn, a ȓ’è nà a neuv oȓe e mi ȓ’heu fàje cheuse n’euv!” Pensate, un uovo per il compleanno!
Antonio a sessant’anni si è ammalato, le gambe non volevano più reggerlo. Prima che il cuore cedesse ha passato quattro anni seduto nel letto. Di lui ci è rimasta una sola foto di quel periodo e noi lo ricordiamo così, rassegnato, nel suo letto. Al camposanto, Giovannina ha iniziato a dire la poesia, ma alle parole “caro nonno” le lacrime hanno avuto la meglio e le hanno impedito di continuare. Ancora oggi, quando diciamo a chi viene da Trezzo che noi siamo le nipoti di Tòni bon, il viso si illumina: hanno capito chi siamo.
CELESTE ORICCO