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LE ROGAZIONI di emanuele bella

La domenica, visto che lungo la settimana la partenza per la scuola e l’ufficio era alle sei in punto, ci svegliavamo presto; alle sette-sette e mezza. Veramente io e la mamma avremmo dormito. Papà soffriva d’insonnia e svegliava tutti tirando su le tapparelle e accendendo la tele. 
Un mattino, avrò avuto 4-5 anni, stavo dormendo della grossa, sentii distintamente il suono grave delle campane. Che fossi rimasto addormentato? Saltai dal letto e vidi nella stanza dei miei che dormivano ancora entrambi. Fuori in strada un vociare grave e continuo attrasse la mia attenzione. Stava passando una processione e l’orologio del campanile indicava chiaramente le sei. Il parroco vestiva un bel piviale violetto e stava un po’ indietro rispetto alla croce. Questa era seguita dalle donne e da pochi assonnati bimbi. Dietro stava il parroco che cantilenava, seguivano gli uomini con i cappelli in mano. Mio padre, accorso in canotta di cotone e mutande militari bianche, si sporse dal balcone esclamando: ” Cosa cristo capita?!”. 
Era il 25 aprile e, abitando a Farigliano di fronte al monumento ai caduti. Per me era un gran giorno perché ci sarebbe stata la commemorazione, i labari, la banda, le divise. Ero preparato a tutto ma non a una processione religiosa di primo mattino. Mio padre mandando a quel paese il parroco, le campane, l’intero pantheon cattolico e parte del creato se ne tornò dentro. Tra i sacramenti distinsi più volte la parola “rogazioni”. Fu mamma, come sempre a spiegarmi con serenità ciò che stava accadendo. Davanti a una bella tazza di latte mi raccontò che il 25 aprile, e durante la settimana precedente l’Ascensione, si praticavano le grandi e le piccole Rogazioni.
Il sacerdote di mattino prestissimo diceva messa e poi si partiva per una processione che aveva varie tappe. A ogni stazione si dava una benedizione aspergendo l’Acqua Santa verso i quattro punti cardinali e continuando a recitare le Litanie. Il parroco diceva: “A fulgure et tempestate” e il popolo: “ Libera nos domine”. Indi, ancora il sacerdote: “Ut fructus terrae dare et conservare digneris”- e la popolazione rispondeva:” Te rogamus, audi nos”.
Nel frattempo papà, che dopo il caffè, tre sigarette e una rapida lettura de “La Stampa”, si era ricordato di aver trascorso un paio di anni in seminario, esordì dicendo che era una tradizione antichissima, già praticata dai primi cristiani e prima dai romani:” Le chiamavano Ambarvalia ed erano processioni a Cerere per propiziare il buon raccolto e proteggere il grano e le bestie dalle malattie, dalla tempesta e dal fulmine. Come sempre Don Costamagna non ha inventato niente, concluse sarcastico”.
L’anno successivo tenevo a partecipare e mamma mise la sveglia prestissimo. Prese il velo, ci recammo in chiesa e poi si partì per questa bella processione. Dico bella perché era una camminata a tappe, nella fresca aria di un mattino di primavera. Ci si fermava, si pregava, si cantilenava in latino, si benedicevano il grano e le vigne e i bimbi piantavano in terra dei rami d’ulivo o dei rametti legati a croce. Poi tutti al bar che per l’occasione apriva in anticipo. E un’altra bella stagione sarebbe iniziata.

EMANUELE BELLA

Fotografia di Enrico Necade

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