TERESA di EmaNuele bella
Quando seguivo mio padre a Torresina, alla naturale e infantile felicità di trascorrere del tempo con lui, si sommava la curiosità di allargare un po’ i miei piccoli orizzonti esplorativi. Di molti personaggi ho già scritto ma tanti altri ne restano. C’era una signora, Teresa, che abitava sull’arco lungo e stretto che conduce alla parrocchiale, dove ora è al riparo il vecchio carro. Era una donna di circa settant’anni, di corporatura robusta e con un bel paio di occhi azzurrissimi, su di un viso ampio e buono, perennemente incorniciato da un foulard a fiori. Aveva poche pecore e percepiva una piccola pensione. La vedevo passare ogni mattino dalla terrazza del vecchio ufficio postale, mentre scendeva verso Lopiano, per pascolare non lontano. Iniziai a salutarla mentre parlava con mio papà del più e del meno, osservando quelle poche, belle pecore con la grande testa e la spalla molto alta. Non passavo l’altezza della ringhiera e, per vedere meglio, dovevo salire sulla stessa e sporgermi tra i vasi di tagete colorati ma puzzolenti. Non me ne intendevo ma erano più belle di quelle che avevo visto sino a quel giorno. In aggiunta aveva un grande ariete, con una macchia nera sulla groppa e corna ritorte che non riconobbi subito. Mi colpì il fatto che avesse una grossa mammella che pendeva e ballonzolava sotto il ventre. Pensavo fosse una pecora di un’altra razza. Di giorno in giorno recuperai posizioni, fino a quando mio padre mi diede il permesso di scendere nella curva poco lontana, per osservare Teresa e il suo gregge. Non è che facessero più di tanto. Lei stava all’ombra a sferruzzare un gomitolo di lana blu e loro brucavano tranquille stando fianco a fianco, pressate l’una all’altra come soldati. Salutai. Le pecore sobbalzarono, riprendendo subito dopo a brucare, dopo avermi apostrofato con qualche belato scocciato. Teresa mi salutò allegra e colse occasione per fare qualche parola con qualcuno. La subissavo di domande e lei rispondeva con cognizione di causa, alternando il suo langhetto con qualche parola d’italiano mediata dal dialetto. “Anche mia mamma fa la maglia sai”? “ Come sono grandi le tue pecore”! “Sono capace a fare le tume, me lo ha insegnato Matilde”!
Inutile dire che passammo dal correrle dietro, al momento in cui veniva a cercarmi, alle mattinate in cui salivo in casa sua, prendevo pane, latte e tuma e facevamo colazione insieme, prima di partire. Un mattino arrivai che Mollo stava cuocendo il pane e acquistai una pagnotta perché dissi:” Devo andare a far colazione da Teresa”. M’iniziò al piacere della sùpa fatta con il pane cotto a legna, appena sfornato, bagnato nel latte appena munto delle pecore, in una scodella grande come un grilèt per l’insalata. Pulita la tavola ci preparavamo per il pascolo. Prima di scendere nella piccola stalla, ci fermavamo a girare le tome nella muschera: un armadietto con i lati di rete e i piani coperti di carta oleata. Andavano salate e pulite con una spazzola e mettevo grande impegno nel lavoro.
Ormai le pecore sapevano dove si andava al pascolo. Le chiamava e loro la seguivano saltellando e inondando la strada di palline nere di escrementi. Passavamo sotto all’ufficio di mio padre che rispondeva al saluto, mi copriva di raccomandazioni, chiedeva a Teresa di rispedirmi a calcioni se non avessi fatto il bravo e tornava dentro a bollare la corrispondenza. I tuoni dei bolli ci seguivano sino alla curva successiva. Aveva mani enormi e, tendendo l’orecchio, lo si sarebbe potuto distintamente sentir bollare le lettere da Ceva.
Teresa accompagnava al foulard una camicetta, una gonna lunga e gli stivali che passavano di poco in altezza le calze a gambaletto. Arrivati nel prato prestabilito ci sedevamo, mettevamo al fresco la bottiglia in un ruscello o in un secchio nella cisterna, e poi lei iniziava a sferruzzare e io controllavo con professionalità il gregge, stando all’ombra per evitare i tafani. Vidi il mio primo parto di un agnellino che sgusciò via dalla mamma, cadendo per terra in un sacco di “pelle” sanguinolenta e grigia. Ne avrei visti tanti negli anni successivi nella stalla di Ezio e Gianni a Igliano. Quello però era la prima volta e non capivo bene da che parte fosse uscito l’agnello. Iniziai a indagare e così scoprii che la pecora aveva un altro buco dietro. Quando la sera tuttavia chiesi spiegazioni a mia madre, tossì e mentì dicendo che le pecore erano “ fatte diverse”. Diverse da chi e da che cosa? Mah.
Tutti mentivano. Un giorno chiesi a Teresa perché aveva messo quel grande grembiule alla pecora con la mammella che pendeva e lei; nuovamente tossicchiando e ridendo, mi spiegò che era l’ariete e, visto che era un maschio come me, doveva mettergli il grembiule perché altrimenti si sporcava: le femmine erano più pulite. La spiegazione, vedendo come uscivo il mattino e in che condizioni rientravo il pomeriggio, mi parve appropriata. Mamma al rientro mi dava una prima lavata nell’orto, con la gomma per irrigare, per evitare che portassi il fango in casa.
L’anno successivo nacquero altri agnellini e avevo assistito al parto di qualche mucca, scoprendo innanzitutto che i piccoli non uscivano dal sedere ma da un altro sacco che è nella pancia delle femmine. Me lo aveva spiegato la mamma di un mio amico.
Ritenendomi ferrato in materia, mentre mangiavamo una fresca insalata di Sarsèt e uova, dissi a Teresa che avevo capito come uscivano gli agnellini e da dove; ma che non avevo compreso come c’erano entrati nella pancia della mamma. Lei arrossì, deglutì l’insalata riflettendo e poi mi disse: ” Ci entrano e ci escono come fanno i bambini, è una questione di semi che vanno e che vengono come nell’orto”. Sperava forse che, aumentando la confusione, la conversazione fosse finita lì. Pulii il piatto dall’olio rimasto e, seguendo il filo delle mie riflessioni le chiesi: ” Ma allora Teresa, come si fanno i bambini”?
Restò pietrificata. Guardò il fondo valle, osservò smarrita le pecore…poi il viso le s’illuminò. “ Vedi Manuele, quando ero masnà bisognava badare alle bestie, andare in campagna, lavare, cucire, pulire la casa..eravamo tanto poveri. La mia mamma avrebbe voluto tanto darmi un’istruzione ma non avevamo i soldi e il tempo e così sono riuscita ad andare a scuola solo fino alla terza. Purtroppo Teresa è rimasta un po’ ignorante. Devi chiedere bene a tuo papà questa sera. Lui è uno che ha studiato. Domani poi, quando avrai capito, me lo spieghi e così lo imparo anch’io”. E addentò un pezzo di pane, sollevata e fiera di se stessa.
La sera a casa avevamo ospite un amico sacerdote di papà e posi la domanda facendo saltare in aria i miei sulla sedia. Il sacerdote intervenne sereno, spiegando che i bimbi li portava la cicogna. Mio padre divertito asserì sotto voce che capitava che i parroci dicessero bugie e il sacerdote aggiunse che bugia non era perché più l’uccello era grande e più i bambini arrivavano sani. Amen.
EMANUELE BELLA
Illustrazione di Luigi Leo