Bèstia grama
Da tre giorni, ormai, Joanot bighellonava per le vie di Buenos Ayres. Come ogni emigrato, si limitava a praticare le strade che disegnavano le cuadras intorno alla locanda, dove aveva posato la valigia di cartone appena sceso dalla nave. Nelle gambe e nella profondità delle ossa gli si era annidata una sensazione di malessere strana, un nervosismo galoppante, che solo parzialmente riusciva a controllare, camminando lungo i viali ombrosi orientati al Rio de la Plata. Ma, non era soltanto l’esercizio del camminare a trattenere il giovane sotto la canicola argentina, lo attirava l’ambiente cittadino, vario e vasto, affettato da una miriade di strade, dove l’orientarsi era più impegnativo che tra le secolari ceppaie della Pallareta, lassù, sulla sommità delle colline della sua Langa, poste a cavallo tra la Bormida e il Belbo. Oltre all’inspiegabile irrequietezza, il giovane sopportava spiacevoli sensazioni e cupi pensieri, serpeggianti, insidiosi, che gli stipavano l’umida cupoletta del purillo blu. Quanto gli stava accadendo gli parve il naturale contrappasso all’incontenibile esaltazione, che l’aveva posseduto prima della partenza. Lo inquietavano la precaria sistemazione, l’imprevista difficoltà nel comunicare e, soprattutto, la disoccupazione. Il suo modo di camminare era divenuto plastico, a tratti ondivago, senza meta.
Trascorsa la prima mezz’ora quasi incosciente, s’addentrò lungo un anonimo viale transennato da palazzine le cui facciate sbalzavano con poggioli chiusi, per metà altezza, da muriccioli bianchi, disegnati nel vivace stile dell’epoca. Joanot li analizzò mentalmente. Li contò, li ricontò infinite volte, inciampando nel totale, non appena raggiunto il numero cinquanta. Sapeva contare, ma, sui multipli, beh!.... Non sempre era certo del risultato raggiunto. Oh! Ricordava benissimo, all’esame della seconda elementare i numeri non costituivano un problema, purché il totale non superasse le cinque decine. Ora, complici delle sue incertezze erano quei parapetti, esaltati dalle decorazioni, in uno stile a lui sconosciuto, traboccanti di iris, sempreverdi, campanule, calle e pappagalli dai colori sgargianti. Nelle cuadras intorno alla locanda aveva notato altre case affacciarsi sulle strade, addossate una all’altra, visibilmente gravate dal peso dei tetti, sbalzanti dai cornicioni, esili come tese di Borsalino e così bassi da poterli sfiorare solo estendendo le braccia.
Nonostante lo spettacolo cittadino contemplasse tutte le variabili capaci di scatenare la fantasia d’un provinciale scampato ai marosi delle Langhe, il pensiero dominante di Joanot si perdeva nella pampa sterminata in attesa d’una zappa: la sua zappa. Da quanto tempo la sospirava! Pur non avendola mai vista, l’aveva disegnata, nel suo immaginario, più vasta dell’orizzonte al bric delle forche, lungo il confine tra Gottasecca e Prunetto. Quella pampa, ne era certo, avrebbe portato un bravo lavoratore a “fare fortuna”. Quella fortuna, che sarebbe stata impossibile realizzare a casa. Oh! Quanto se n’era chiacchierato nelle osterie, nelle cense, nelle stalle, nelle cucine, scatenando la fantasia delle madri. E, pure negli oratori parrocchiali, complici prevosti e parroci, si fantasticava sulla Merica. Di quella pampa, le menti giovanili se n’erano inzuppate al punto da rincorrere, con la fantasia, un barlume di speranza aldilà dell’oceano. Nei giovani, improvvisamente, si era innescata un’incontenibile smania d’avventura. I porti di Genova, Napoli e Palermo furono invasi da una miriade di uomini, con indosso una giacca di fustagno appena, esaltati all’idea di potersi liberare, finalmente, dei mali di casa. A loro si affiancavano donnette, strette in neri scialli di lana, decise ad affollare le spaventose carrette del mare, rosicchiate dalla ruggine e spinte, da neri sbuffi di fumo e vapore, a cavalcare i marosi dell’oceano.
Estasiato, col naso all’insù, il nostro giovanotto sentiva pulsare, dentro le case arabescate di quella Buenos Ayres, il cuore libero delle persone, che immaginava ben accasate, appagate e protette da quei muri bianchi, alti e inattaccabili come granitiche fortezze.
-Quelli lì-, pensò, - cos’avranno da spartire con noi della valle Bormida?-
Quanti giovanotti, prima di lui, avevano lasciato terra, madre e morosa per correre dietro al sogno mericano, più cristiano d’una vita spesa a sciogliersi l’anima sui terrazzamenti della Bormida.
Mentre curiosava, ciondolando sulle gambe incerte, stormi d’uccelli, seminascosti dalle fronde dei platani, chiacchieravano un cinguettio straniero, pieno d’interrogativi e di sospetto, che gli facevano sentire ancor più greve l’anima. Sul bavero della giacchetta, Joanot aveva l’impressione di dover sostenere un enorme macigno, che, nel camminare inquieto e senza meta, gli comprimeva il petto, procurandogli un dolore sordo, mai provato prima d’ora.
Intento a cercare qualunque cosa da fare, per occupare il tempo dell’interminabile pomeriggio afoso, scorreva lo sguardo sulle targhette ottonate dei campanelli, incastonate nelle pesanti lesene dei portoni d’ingresso, cerate con cura. E così, tanto per occupare il tempo, iniziò a sillabarne le iscrizioni. Stupì nel leggere, su molte di quelle targhe, italianissimi nomi.
-Madonna Santa, quanta gente, prima di me, ha vegliato sui ponti dei bastimenti, la notte, a veder tramontare le stelle nostrane, traballanti nel fumo grasso e denso delle ciminiere!-
Mentre fantasticava, un tizio, con la lingua già ispessita dall’alcool, seminascosto nell’ombra fitta d’un’osteria, che teneva le porte aperte alla luce sfacciata del pomeriggio, gracidò:
-Ehi tu, bevi un bicchiere con me?.... Ti va una birra fresca di ghiacciaia? Forse!…. Forse ti fa piacere una bella limonata fresca!.... Dimmi…. Dai, su, dimmi, preferisci?-
Joanot capì d’essere il destinatario del messaggio, s’arrestò e, come d’abitudine, affondò le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre, raddrizzando le spalle, tentava di distendere la schiena. Restando immobile sul tronco e ruotando lentamente il capo, cercò con gli occhi, l’interlocutore. Nel contrasto luce ombra, però, non gli riusciva di focalizzarne la figura. Come una serpe in posizione difensiva, tentò di comunicare col tizio, ma le corde vocali, disobbedendo, emisero un soffio gravido di timori. Impacciato, tentò ancora di lanciare un saluto. Inutilmente. Tutto l’impegno profuso gli valse a estrarre dalla gola, grippata e ruvida come carta vetrata, un grugnito appena, buono soltanto a dimostrare tutto l’imbarazzo e la tensione che gli occupavano corpo e anima.
- Amico, questa non è l’ora di passeggiare per le strade assolate di Buenos Ayres, - riprese il tizio, che pareva sciolto nella nera ombra del locale, - questa è l’ora della siesta. Gli uomini restano a sonnecchiare in casa, tenendo gli scuretti socchiusi per farsi accarezzare dalla frescura e le donne, coperte di sola sottana, sbavano, stravaccate sui letti umidi, a braccia aperte, con gli occhi febbricitanti e le cosce appiccicose. La brezza della sera, poi, libererà nuovi stimoli e la buona tavola e le finestre spalancate restituiranno i sapori e i profumi del paradiso.-
- Ma, io… io non ho sete! - gracchiò timidamente Joanot, - vado un po’ in giro per le strade a conoscere questi posti. Intanto, se avrò fortuna, mi troverò un padrone e un lavoro. Ma tu! Oh no, non mi sbaglio. Tu sei italiano, neh?-
L’attesa d’una risposta, che tardava a venire, fece sì che Joanot superasse, almeno in parte, le inibizioni e oltrepassasse, impacciato, l’ingresso della balera. Raggiunta la zona d’ombra, si fermò per consentire alle pupille di dilatarsi e fotografare le particolarità dell’ambiente. Lentamente, come una pellicola che si srotoli, percepì un bancone di legno occupante più di mezza sala. All’intorno primeggiava un pesante ronzio di mosche ubriache, sfarfallanti e collose. Più in là, sul lato destro del locale, alcuni tavoli di legno, dalle gambe sapientemente tornite, si allineavano alla parete cieca, ricoperta, per metà altezza, d’un assito scuro, ispessito da una stratificata untuosità, simile alla pelle squamosa d’una biscia. Dello smalto, che ricopriva lo scialbo dei muri, traspariva un bisunto verde pallido, a tratti vagamente ambrato e decorato, in basso, da infinte striature color marrone, prodotte dallo strofinio degli zolfanelli. Sul soffitto, pochi stucchi, circolari e concentrici, apparivano gravemente lesionati. Le decorazioni, che a malapena s’intuivano, imitavano un dagherrotipo stinto e rappresentavano dame pavoneggianti con uomini impomatati intenti a sorbire, galateo in tasca, flutes di rosolio con tazzine fumanti di caffè e cioccolata. Tutte preziosità, che si rifacevano a una nobiltà decaduta, ora sostituita da un nugolo di poveracci in cerca di stimoli. Da quel soffitto, un tempo nobilitato dalle preziose scene ritraenti una società blasonata, ora penzolavano appiccicose strisce di cellofan, fuoruscenti da cilindretti di cartone, brulicanti di mosche ammassate, mortalmente ronzanti. Sullo sfondo, pigramente appoggiata al banco della mescita, emergeva una figura d’uomo emaciata, dall’aspetto volgarmente cirrotico, intento a proporre un “cin cin” per celebrare un brindisi. Dalla sua mano destra s’ergeva un mignolo magro, unghiuto, coronato da un anello d’oro massiccio con incastonata una pietra rubizza, forse preziosa. Il resto dell’ambiente era un insieme di disordine, sporcizia e volgarità.
Finalmente Joanot si trovò davanti al tizio, che l’aveva invitato, seduto, in solitudine, a un tavolino, tipo bistraud, appena aldilà della soglia del locale. Era un uomo di media statura e vestiva una tuta grassa, foracchiata dall’uso. Sul capo un baschetto nero, altrettanto liso e bisunto. Tra il colletto e il basco, mostrava un grugno minuscolo, spigoloso, irto di peluria incolta, forse, ramata. Dallo sbrego della manica fuorusciva una mano magrissima, che lentamente versò, dentro un vetro bolloso, un liquido nerastro. L’altra mano, lentamente, salì a strofinare un naso gonfio, una specie di fragolone maturo, sovrastante una bocca arida e priva di labbra, che intimò:
- Bevi, ne hai bisogno! Annegherai per un po’ gli strani pensieri, che t’impiombano il cervello.-
Non ripeté l’invito. Joanot agguantò il bicchiere e, d’un fiato, tracannò parte del contenuto, restando rigorosamente in piedi, ma rovesciando un po’ il capo all’indietro. Poco prima, nell’afoso pomeriggio, altro non desiderava che starsene solo a pensare alla madre lontana, alle colline della sua Langa e alla misera condizione dell’emigrante, privo d’un riparo e senza lavoro. Ora, la liquida frescura del vino appena tracannato gli stava sciogliendo tutte le preoccupazioni. Lentamente, ammiccando un mezzo sorriso all’interlocutore, si piegò per sedergli di fronte. Nello stesso tempo, sentì pulsargli nel petto un forte desiderio d’aprirsi.
-Fanciot, sei piemontese, neh! – Abbozzò l’uomo, grattandosi il capo attraverso il baschetto. - Ti tradisce la curiosità e quell’aspetto un po’ selvatico che distingue la gente delle mie parti. -
Sorbendo un altro po’ di vino, aggiunse: - Mi chiamo Remo. Fino a ventidue anni ho abitato alla Serra di Prunetto, ma, da più di dieci, ormai, ho lasciato madre e morosa per vivere qui a Buenos Ayres. Da principio, ne ho patito, ma ora non ci penso più e, così, ho anche finito di patirne. Amico, sappi che mi sono così affezionato alle stelle di Buenos Ayres, che le sento ancor più nostrane di quelle che illuminano il cielo sulla valle della scienza. -
Ciò detto, trasportò il purillo sopra l’orecchio destro e, garbatamente, riportò il bicchiere alla bocca. Le labbra, inesistenti, ma amplificate dalla forma lenticolare del fondo del bicchiere, parevano gonfiare a dismisura, goffamente deformate e orribilmente cesellate dall’arsura.
-Ma, che combinazione! - Rispose Joanot. – Io sono di Camerana. I miei vivono a San Rocco. Ho lasciato mia madre, ma lei, per consolarsi, ha ancora degli altri figli. La morosa, no. Quella non ce l’ho mica, anzi (arrossì leggermente), veramente, non l’ho mai avuta. Ma, forse, è meglio così. Là, al paese, non c’è mica lavoro! Noi, in famiglia, siamo sette fratelli, con poca terra, poco grano e poca meliga. Per sfamarci, rastrelliamo appena un paio di sacchi di castagne bianche. Quando in casa c’è poco o niente da mangiare, vince sempre la miseria e s’infila dappertutto, a cominciare dalla madia. Ci resta soltanto la malora! Niente è peggio della malora. Casa e terra valgono un boccone di pane appena, buono, si e no, per qualche settimana. E poi? Mio padre, pace all’anima sua, è morto di crepacuore per aver strumentato l’unico campo del Belbo in cambio di due sacchi di farina gialla. Fu quel caino di Giovanni Berbora della Contrada a ridurci alla fame. A mio padre gli abbiamo fatto un funerale di terza, con un solo prete, senza esequie cantate. Alla sepoltura c’era tutto il paese. La gente borbottava durante la messa, maledicendo il Berbora, lo strumento, il campo del Belbo e la farina gialla. Ma, alla fame non si comanda mica! Dopo la messa della trigesima, intorno a noi s’è fatto il vuoto; nessuno ha più bussato alla nostra porta. -
Joanot approfittò del poco vino, che ancora gli restava sul fondo del bicchiere, e ne bevve lentamente. Soddisfatto, schioccò la lingua contro il palato e lasciò focalizzare lo sguardo su un punto indefinito del muro, in attesa che Remo riprendesse il discorso. Ma, non fu così, socchiuse le palpebre e, spalancata la bocca a dismisura, iniziò a dondolare goffamente la testa a ogni respiro. Sfiorava, ad ogni andirivieni del capo, il legno del tavolo, su cui appoggiava le mani magrissime. Al pensiero che la crisi di sonno potesse durare a lungo, Joanot scostò la sedia, deciso ad andarsene. Ma, in quel preciso momento, Remo si risvegliò, sbottando:
- Cristo signore, te ne vai già? Avrai un nome, spero. -
-Volevo lasciarti dormire! Ma, visto che ora sei sveglio, posso dirti di me. Devi sapere che, quando sono venuto al mondo, mio padre mi chiamò Giovanni, ma, di Giovanni, c’era già mio nonno, che era ancora vivo e così, da subito, mi chiamarono Joanot: Joanot ed Cà Veija. -
Ciò detto, Joanot s’alzò, tirò fuori di tasca il tacco (piccolo portamonete) e aggiunse:
-Ho ancora qualche soldo e voglio proprio pagare da bere. -
Fulmineo, Remo lo trattenne e gl’intimò: - Tieniteli stretti, quelli. Ora non puoi sapere se e quando ne avrai bisogno. Prima di trovare un lavoro, forse, non ti basteranno per pagarti un letto. Ma, se ti trovassi a patire, non farti della gena, a Buenos Ayres, da qualche parte, troverai sempre questo povero Remo pronto a darti una mano. Quando sono arrivato qui in Merica, una nostra compaesana, una certa Teresina, è stata la mia sola ancora di salvezza. Senza di lei? Ora non so dove potrei trovarmi! Sicuramente, sarei bell’e morto.-
Ciò detto, restò un poco in silenzio a pensare. Poco dopo, però, alzò gli occhi, che Joanot incrociò azzurri, dolci, infantili e liquidi come acqua di mare, e aggiunse: - Oh! Cristo signore! Ma, lo sai? Teresina è del tuo paese. Eh, sì! Lei è di Camerana. Devi sapere, caro mio, che quella donna ha attraversato il mare oceano da sola. Il marito, non so come, né perché, alla partenza non è più salito sulla nave, abbandonandola al suo destino. E qui, caro Joanot, per una donna sola la vita è ben dura! Ma, Teresina è una femmina ingamba. Non si è mai lasciata prendere dallo sconforto e ha sempre superato le difficoltà, cavandosela meglio d’un uomo. Stasera vai a dormire…. dove?-
-Alla locanda di Dolores.- disse Joanot, - quella dei piemontesi.-
- Tutti quelli che arrivano a Buenos Ayres alloggiano da Dolores. Stasera, paga il tuo conto e, domani mattina, fatti trovare qui con la valigia. Ti farò conoscere Teresina, lei ha di sicuro una camera da affittare. E poi, Joanot, Teresina… è ancora una bella donna e vale più di cento Dolores. Mi raccomando, domani mattina presto, alle otto, puntuale. Neh? -
Alla proposta, Joanot ammutolì, tentò d’obiettare, ma accettò, non nascondendo l’intima soddisfazione che provava. Appeso ai pensieri della speranza, accantonò le titubanze, ringraziò Remo e s’avviò verso la locanda.
La speranza fu per Joanot la medicina più efficace. La notte, tuttavia, non dormì. Si girò e rigirò infinite volte nell’umido lenzuolo come un capretto sacrificale impalato allo spiedo. Più volte, senza trovarlo, cercò un angolo di frescura sulla ruvida canapa. Un orologio toccò lentamente le tre. Sveglio e irritato, lasciò il letto e raggiunse la finestra. S’affacciò per rubare un po’ della brezza notturna, che, lentamente, rigonfiava la tendina. Il resto della notte la passò appoggiato al davanzale di pietra sbrecciata in attesa del sorgere del sole. Finalmente, un primo riverbero filtrò i rami degli alberi per amplificarsi, lentamente, fino a raggiungere la delicata opalescenza d’un “bicchiere d’acqua e anice”. Pigramente, la luce formò raggi giallognoli, che, parve a Joanot, via via, raggiunsero il colore rosso d’uno sciroppo di visciole. Con l’amplificarsi della luce, s’intensificò il coro aritmico del cinguettio dei passeri. L’insieme dei rumori, nella prima mattina, assunse una sonorità incontrollata con un crescendo assordante, insolente, quasi provocatorio.
Joanot, attento spettatore di quell’alba beneaugurale, addentò un paio di mele mascelline (ultimo rimasuglio mangiativo del viatico preparato dalla madre), s’accostò all’acquaio e spillò acqua dalla brocca. Levò la maglietta di lana e, a torso nudo, si lavò, strofinandosi vigorosamente col sapone. Poi, si rivestì con più cura del solito, pronto ad affrontare Teresina, pulito e in ordine. A sentir Remo, la donna frequentava persone influenti, dunque, meglio evitare brutte figure al primo approccio. Ora, accantonati i cattivi pensieri, sentì d’essere abbastanza sereno. Ma, un tarlo s’insinuò nel suo cervello: non possedeva un vero mestiere. L’unica sua capacità era di saper maneggiare una zappa o qualche altro ferro agricolo. Ma, non era forse questo il motivo per cui era partito? I propagandisti avevano assicurato che là, in Merica, cercavano giovanotti capaci d’usare la zappa. E lui, Joanot, era un instancabile giornaliero. Nessuna fatica l’aveva mai fermato.
-Il mestiere di zappare, - gli era stato detto, -in Merica è così calcolato, e così ben pagato, da riuscire a cambiare, in poco tempo, la vita d’un bravo lavoratore. Un giornaliero, in due o tre anni di duro lavoro, poteva diventare un particolare Mericano.-
E così, sognando la pampa, Joanot si convinse che, sceso dalla nave, nell’angiporto avrebbe trovato vigne da potare e campi da sarchiare. Invece, a deluderlo, trovò quella città smisurata, più grande di Ceva e Mondovì messe insieme. Si stupì pure di quel gennaio caldo e afoso, che lo snervava e lo affaticava già nel camminare.
Ora, gli gonfiava il petto una nuova speranza. Remo gliel’aveva rinfocolata. Con cura ultimò i preparativi, lustrò le scarpe con un grumo di grasso e infilò un fazzoletto bianco, il pettinino d’osso e la stilografica col fiocco nel taschino della giacca. Saltellando, e ignorando il peso della valigia, scese la scala a salutare Dolores. Ripercorsa la strada del giorno precedente, raggiunse l’osteria. Entrò e sedette a un tavolino, davanti al bancone di mescita. Chiese di Remo. La risposta fu una lenta flatulenza alcolica dell’oste. Remo non s’era fatto vivo. Ordinò maté zuccherato e qualche galletta. L’amico giunse poco dopo. La pendola, lentamente, scandì otto tocchi.
Una vigorosa stretta di mano e un cangaceiro ridussero le distanze tra i due. Saldato il conto, uscirono dal locale per raggiungere Teresina. Un poco avanti camminava Remo, mentre Joanot gli stava appresso, tentando di calcarne il passo. Remo tentò di fornire qualche informazione sulla donna ma, Joanot, occupato in mille pensieri, era assente. Lavorava di cesello e fantasia, passettando dietro all’amico, a produrre una figura femminile pari a Teresina, che, via via, andava completando di forme, colori e timbriche prese a prestito dalle ragazze di sua conoscenza. Invano rivisitò tutte le figure femminili, che occupavano il sagrato della chiesa di Camerana Villa la domenica mattina al termine di messa granda. Ad ogni tentativo, Teresina s’affacciava al suo immaginario diversa. Finalmente raggiunsero la casa della donna.
Era una casa bianca con le imposte verde oliva, come quelle dei palazzi genovesi, che aveva notato mentre le nave, appesa ai rimorchiatori sbuffanti, lentamente usciva dal porto. Salirono un’ampia scala di pietra. Joanot, preoccupato e impacciato, sputò l’anima dalla fatica. Non si trattava, però, di vera fatica, ma d’un insieme di sensazioni strane, che gli facevano pulsare il cuore in gola come lo stantuffo d’una locomotiva. Tuttavia, anche in questo frangente, Joanot non mancò di contare i quarantotto gradini che portavano al piano di Teresina. Remo, con decisione, ruotò la levetta cromata del campanello, che riecheggiò per la tromba delle scale con un suono argentino. Poco dopo li raggiunse una voce di donna, che inciampò nei residui del sonno appena interrotto.
-Stamattina? Non aspetto nessuno. Sono molto stanca. Per piacere, lasciatemi riposare. Voglio stare in pace. Avete capito? In pace.-
Remo, superato l’ingombro del naso, trovò una lama di luce nel legno della porta e cercò di rassicurare la donna:
-Teresina, oggi è un giorno speciale. E’ qui con me un amico. Arriva dal tuo paese. E, apri, per favore. Sei proprio sicura di non volerlo vedere? Dopo potrai dormire quanto vorrai.-
La porta, gemendo sui cardini, s’aprì, ma s’arrestò sull’estremo anello del catenaccio.
- Teresin, bella mia, dai, non essere diffidente! Lo sai che non ti racconto bugie. E’ uno nuovo, un bravo giovanotto, di Camerana, appena arrivato in Merica. Si chiama Joanot, Joanot ‘d cà veija e ha bisogno di te. Non puoi rifiutargli la tua amicizia!-
Il flebile fischio d’una macchinetta per il caffè s’amplificò all’aprirsi dell’uscio.
-Scusate. Odio il matè e al caffè, appena sveglia, non so rinunciare.-
Joanot tolse il berretto, per affidarlo alla mano destra, e lo portò dietro la schiena in segno di rispetto. Era un’abitudine, quella di levarsi il cappello, ereditata dai suoi vecchi, che mai avrebbero affrontato il prete, il maestro o il maresciallo a capo coperto. Quando al Poggiolo giungeva la signora Fenoglio, la moglie del padrone, gli uomini restavano a capo scoperto. Joanot ricordava quel tempo con nostalgia, nonostante l’umiliazione della divisione del raccolto, frutto del sudore del mezzadro. Il lavoro in campagna era pesante, tuttavia ripagato da tanto ben di Dio. Ogni giorno sulla tavola non mancavano pane, polli, conigli, uova, latte, salame, salsiccia, minestroni e tome di pecora. Più tardi, però, le cose cambiarono e la vita divenne un inferno.
Superato l’uscio della casa di Teresina, Joanot rimase impalato nell’ingresso. L’ambiente destava un senso di mistero, procurandogli angoscia. Fu la donna a levarlo d’impiccio. Gli puntò l’indice sul petto: - Tu saresti l’emigrante di Camerana? Ah! Matot, guarda che, la Merica, qui è già finita da un pezzo! Ora è molto più facile vivere a Camerana. -
Ciò detto, si ritirò in cucina e ne tornò poco dopo armeggiando un arnese soffiante, dal quale si spandeva un intenso aroma di caffè. Joanot stupì alla vista di quell’arnese. Al paese nessuno conosceva quell’aggeggio. Sua madre preparava il caffè, ma alla maniera di Langa : versava acqua calda nel bricco, già pronto sulla stufa, cui aggiungeva una miscela d’orzo e radici di cicoria tostate. Raramente, però, usava caffè, che barattava, al mercato di Monesiglio, con uova e formaggette.
Teresina li fece accomodare in una stanzetta poco oltre l’ingresso. Sedettero su un divanetto colmo di cuscini variopinti. Versò il caffè nelle tazzine, lo addolcì con zucchero di canna e l’offrì agli ospiti. Remo lo trangugiò, mentre Joanot lentamente lo centellinava, gustandolo. Sul tavolinetto, a forma di violino, colmo di cianfrusaglie, lasciarono le tazzine. Nel ringraziare Teresina, Remo dimostrò una confidenza, che stupì Joanot.
Al paese, nessun uomo, per quanto sfrontato, avrebbe agito in quel modo.
-Probabilmente, - pensò, - in Merica, comportamenti simili saranno normali!-
La sua esperienza educativa s’era fermata al “voi” dei genitori. E così, da quel momento, osservò con più attenzione il comportamento di Teresina. S’accorse di quanto fosse ancora giovane, graziosa d’aspetto, esile nel fisico pur se meravigliosamente in carne: ancora una bella donna.
Tra le pieghe della veste da camera (una novità per Joanot), che teneva aperta sul davanti fin quasi all’ombelico, Teresina scopriva, di tanto in tanto, apprezzabili rotondità.
IL giovane s’impose di non fermare lo sguardo sulla pelle ambrata di Teresina. Ah, se si fosse trovato a sbirciare dalla toppa della serratura, non si sarebbe certo fatto sfuggire tutte quelle preziosità. Ma, così, a viso aperto, beh….. Arrossì, trasudando, non appena incrociò lo sguardo complice di lei. Teresina era una donna di molta esperienza e non mancò di coinvolgerlo in un suo gioco malizioso. Accavallò ripetutamente le gambe. Il serico tessuto lentamente scivolò di lato a scoprire un paio di cosce eburnee, magistralmente tornite. Per solleticare ancor più la curiosità del ragazzo, Teresina, lentamente, le ricopriva. Joanot finì per infiammarsi le retine, non trattenendo un’improvvisa vampata, che lo arrossì dal collo alla fronte.
Remo sfilò una sigaretta e l’accese, strofinando uno zolfanello sulla suola della scarpa, poi s’alzò e disse: “Mia cara, devo abbandonare questa compagnia. Tu lo sai, avrò una dura giornata di lavoro e, se tardassi, il mio padrone, che ben conosci, mi sbatterebbe la porta in faccia, devastando la mia carriera e sarei costretto all’accattonaggio lungo la scaletta alla darsena di Puerto Viejo.”
Teresina, non si trattenne e nell’accompagnarlo alla porta, disse: “Vai, ch’è meglio. Senza lavoro? Oh, povera me! L’ultima volta, altro che scala di Puerto Viejo, t’ho dovuto mantenere per tre mesi. Caro Remo, pensi che lo rifarei? Vai, vai, e, ti prego, non cercarti altri guai.”
Lasciarono il salotto e raggiunsero l’ingresso. Qui si trattennero a parlottare sottovoce. Il botto secco della porta concluse il dialogo.
Joanot, rimasto nello stanzino, prese ad agitarsi e, non sopportando più lo stare seduto, cominciò a camminare nell’angusto spazio, sfiorando ogni cosa. In quel momento, riprovò la sensazione di malessere dei giorni precedenti.
Teresina intuì lo stato d’animo del ragazzo e se ne andò in cucina.
-Madonna santissima, timido il ragazzo-, pensò, -ha bisogno di sentirsi a proprio agio.-
Poco dopo si riaffacciò all’uscio del salotto: “Siedi, comodo, arrivo subito. Oh, mio Dio, ma che sbadata! Indosso ancora la camicia da notte! Faccio subito, ma, comodo, come a casa tua. “
Si avvicinò, gli pizzicò la guancia con fare materno, sfiorandolo col suo seno abbondante, quindi, ruotando mollemente su se stessa, prima d’uscire, gli sorrise: “Mi raccomando.”
Fu inondato dal profumo e dalla tenerezza della donna. Ciò nonostante non mutò d’umore. Restando seduto sul divanetto, accavallò le gambe e cominciò a molleggiare sul piede a terra con nervosismo, sempre più insistente. Pareva un disabile in difficoltà nell’alzarsi da una sedia medica.
Per ammazzare il tempo, osservò più attentamente il salotto, provò a confrontarlo con la sala da pranzo di Ca Veja, ma non trovò alcuna relazione.
Come un giunco, piegato del vento marino, occupò il tempo restante a slacciare e riallacciare le scarpe, prima l’una, poi l’altra. Desiderò persino che Teresina rientrasse in quel momento. Sicuramente, vedendolo occupato ad armeggiare con i lacci, avrebbe preso lei la parola. E, se fosse rimasta in silenzio? Beh! In quel caso, avrebbe avuto modo lui di parlare per primo-
-Oh, le mie stringhe!- Avrebbe detto. -Mannaggia, non c’è modo di tenerle allacciate, basta guardarle che…. già si slegano…. Non riesco a sistemarne una che…. Subito l’altra….-
Mentre si crogiolava in quei pensieri, lo raggiunse la voce squillante e imperativa di Teresina: ”Emigrante di Camerana, per piacere, vieni. Allacciami questa benedetta fibbia del reggiseno, non ce la faccio più. Le mie spalle…. Oh, le mie povere spalle! Sono dolenti e, nell’alzare le braccia, provo fitte insopportabili. Dio mio, ma, quant’è brutto invecchiare!”
Alla singolare richiesta, che neppure sua madre mai avrebbe osato fargli, Joanot si sentì sprofondare. Subito dopo, però, con un filo di voce, rispose: “Vengo…. Vengo subito.”
Cercò di riallacciarsi le stringhe, ma quelle sue mani grandi cominciarono a tremare e, agitato com’era, finì per distruggere entrambi i lacci.
“Bel fieu di Camerana, vuoi sbrigarti?”
Joanot varcò la soglia della camera di Teresina, avanzò come un automa e, rosso in viso, iniziò ad armeggiare sulla minuta fibbia del reggipetto con la stessa foga riservata ai suoi lacci. Il piccolo nastro cedette, sfilacciandosi definitivamente. Teresina, non trattenendo un gesto di sconforto, misto a tenero rimprovero, esclamò: “Eh! Madonna santissima, che forza! Ma… era il caso? ”
Non s’alterò, anzi, voltate le spalle al giovane, si coprì il viso, esplodendo in una sonora risata. Joanot ne ebbe un benefico effetto liberatorio. Esaurita la risata, mantenendo le spalle verso di lui, con naturalezza si sfilò il reggiseno. Joanot, si irrigidì come uno stoccafisso, poi, superata l’abituale vergogna, balbettò: “Oh! Sacratu! Che stupido! Io non ho mai…. Vi chiedo scusa…. S’è rotto…. Ve ne comprerò uno nuovo…. nuovo….. subito…. Appena uscirò. ”
Teresina lo attirò a sé, lo accarezzò teneramente sul viso e con un bacio gli sfiorò la fronte.
“Ma, va là bel matot! Non sapresti nemmeno come comprarmelo, tu, un reggipetto! E poi, mio bel ragazzone…. Io sono una signora di riguardo. Penserai mica che possa indossare uno straccio di reggiseno qualunque? Eh, no! I miei, caro mio, li cuce la mia sarta… i reg-gi-pet-ti!” Poi, mostrandosi a seno scoperto: “Guarda, guarda qui. Ma non vedi come sono abbondante? E allora, senza balene, come riuscirei a tenerle su, queste pupe?”
Joanot finì per sciogliersi come una goccia di miele in bicchiere di latte caldo. Restò immobile, con i piedi ancorati al pavimento, incapace d’alzare anche un solo dito. Teresina, approfittando della momentanea paresi di Joanot, andò al settimanale, trasse un reggiseno nero orlato di rossa trina e, dimenticando l’artrosi, se lo allacciò, portando entrambe le mani dietro la schiena, così, semplicemente. Terminata la vestizione, cercò di ricondurlo alla realtà:
“Bel matot! Io, proprio non t’aspettavo e, in casa, oltre qualche sciocchezza, non ho niente da mettere in tavola. Usciremo a fare un po’ di provvista per festeggiare il tuo arrivo a Buenos Ayres. Oh, già, che sciocca, ti devi pur sistemare! Non penserai mica che Teresina non abbia una camera per gli ospiti? Prendi le tue cose, apri quell’uscio ed entra. Quella sarà la tua camera. Nel canterano trovi posto ai tuoi indumenti. Ci sono degli abiti maschili. Potrebbero servirti.”
Prima d’uscire, per metterlo a suo agio, gli porse le chiavi di casa: “ Compaesano, con queste entrerai e uscirai a tuo piacimento. Le terrai finché deciderai di lasciare questa casa. “
Joanot ascoltava trasognato, senza batter ciglio. Pareva un orsacchiotto metallico all’ultimo giro di corda. Cominciò a dondolarsi, spostando il peso da un piede all’altro, incapace di pronunciare una sola parola. Ricacciata in gola l’emozione che provava, tentò di manifestare la soddisfazione che provava, ma riuscì a gorgogliare appena qualche frammento di discorso: “Ma, io….. Ve-ra-men-te…. Non so co-me…. Ba-sta-va….. Co… co-me potrò?”
Tentò di spiegarsi meglio, provò a formulare un pensiero compiuto, ma la porta della camera si richiuse energicamente. Rimase solo, stralunato, incapace di distinguere tra il sogno e la realtà. Passarono pochi minuti e lo raggiunse la voce suadente di Teresina: “Bel matot, usciamo?”
Smaltita la sbornia di tenerezza, e dopo aver recuperato un briciolo del naturale vigore, rispose: “Un attimo, solo il tempo di allacciarmi le scarpe. Arrivo subito. ”
Un campanile, nei paraggi, scandì undici tocchi mentre i due varcavano la soglia d’una merceria: una botteguccia con la vetrina inondata dal sole, colma di scatole d’ogni forma e colore e molte cianfrusaglie. All’interno, qua e là, altre scatole sbadigliavano lingérie d’ogni foggia. Dai tiretti semiaperti, traboccavano bottoni, fibbie e accessori vari. Joanot mai avrebbe immaginato che quel buco potesse contenere tanta merce. Teresina lo ammiccò prudentemente e, dimentica della perizia della sarta, acquistò due reggiseni, un più paio di calze, mutande a gambaletto, canottiere di cotone, aghi e filo da rammendo. Visitarono altri negozi di tessuti, prima d’entrare, infine, in un emporio alimentare. Joanot tentò d’estrarre il borsello, ma ricevette occhiatacce di commiserazione. La pendola dell’ingresso scandì un botto mentre i due, trascinando quattro pesanti sporte, colme d’ogni ben di dio, varcarono la soglia.
Pranzarono. Joanot gradì la cucina da Teresina. Si congratulò della bravura della cuciniera, certificando che proprio non aveva dimenticato i sapori e gli aromi della Langa. Sorbito il caffè, che Teresina servì caldo, fumante e ben zuccherato, fu assalito da un’improvvisa sonnolenza, che assecondò, suo malgrado, cedendo alle insistenze della donna, dopo aver raggiunto la camera. S’abbandonò alla sua prima lunga siesta sudamericana.
Sentendo farfugliare una chiave nella toppa, balzò a sedere sul letto. Trasse di tasca il suo Chemin de fèr, ereditato dal nonno, generoso manovale delle regie ferrovie e sbalordì: “Sacratu, ho dormito tre ore?” Le sfere dell’orologio indicavano, infatti, le sei pomeridiane. Teresina, con fare canzonatorio, affacciata alla porta della camera, gli diede il buongiorno, rassicurandolo: “Sto scherzando, neh? Se ti va, puoi dormire ancora. Ne hai bisogno, perciò non genarti. ”
“Mi spiace, non credevo di dormire tanto! Arrivo subito, il tempo di rinfrescarmi e vestirmi.”
Trovò un bagno caldo: una tinozza, bianca di smalto, colma d’acqua e un parallelepipedo di sapone appoggiato sul bordo. Joanot non aveva mai incontrato una vasca da bagno. La sua prima esperienza d’un bagno la fece sulla nave, ma si trattava d’un tubo forato che pisciava acqua tiepida dal soffitto, a tratti molto fredda, sulla testa delle persone. Entrò nella vasca e vi s’immerse fino al collo. Provò una sensazione di benessere umido, inaspettato. A casa, per togliersi di dosso la pula, il fango o il sudore, doveva bagnarsi nei gorghi del Belbo o della Bormida. Terminate le abluzioni, trovò, sulla seggiola in fondo al letto, un grande telo di cotone disegnato a nido d’ape. Vi si avvolse. Rientrando nella camera, più non trovò sul letto gli indumenti di lana che aveva lasciato. Al loro posto c’era una camicia, dei pantaloncini, un paio di calze, sandali, mutande e quanto necessario per un’eleganza che Joanot proprio non conosceva. Mentre gustava tanta generosità, lo raggiunse la voce di Teresina: “E non indossare quegli indumenti di lana. Vuoi stecchire per il caldo? “
Teresina non gli consentiva alternative.
Si vestì, come mai gli era capitato nella sua esistenza cameranese, e si fermò un attimo per osservarsi allo specchio del comò. Stupì, ma si piacque.
Uscendo dalla camera, trovò la padrona di casa intenta ad apparecchiare tavola. Prima che vi prendesse posto, lo avvertì: “E non pensare che sia un regalo. Neh? E’ solo un prestito. Quando avrai guadagnato abbastanza, mi ripagherai. E ora ascoltami bene. Domani mattina, alle sette in punto, t’aspetta il signor Romero. Mentre tu riposavi, è venuto qui. Sentendo che cercava un garzone, gli ho proposto di assegnarti quel lavoro. Accettò.”
Cenarono. Poco dopo un doppio trillo del campanello annunciò una visita. Remo era alla porta e smaniava dal desiderio di conoscere la reazione di Teresina all’arrivo di Joanot.
Entrò, s’affacciò alla cucina e, vedendo il giovane agghindato in abiti coloniali, non potè trattenere una chiassosa risata. Piegato in due, raggiunse e s’abbandonò sul divano tra le braccia di Teresina. L’abbracciò e, baciandola teneramente sulle guance: “Lo sapevo. Oh, se lo sapevo! Hai un cuore tenero e sei generosa, soprattutto con i giovanotti nostrani. Eh! Non te li lasci mica scappare, neh, Teresin?”
Rapida, la donna si liberò dalla stretta e gli mollò due sonori ceffoni: “ Sappi, ai giovanotti e agli uomini per bene, regalo tenerezze, ma, ai mascalzoni come te, solo bastonate, caro il mio balordo!”
Giocarono a carte, bevendo caffè e ratafià fino a tarda ora. Remo lasciò la casa di Teresina insicuro sulle gambe. Joanot lo accompagnò per un tratto di strada. L’ubriaco, rimasto finalmente solo, euforico e traballante, inciampava un po’ ovunque. Procedeva con passo diseguale, a singhiozzo, mentre teneva dotte conversazioni con le inferriate, i lampioni e gli androni semichiusi delle case, costretti a sentir declamare le straordinarie virtù di Teresina Belloni.
Rientrando, Joanot trovò Teresina stravaccata sul divano, mollaccionata, del tutto incapace di raggiungere la camera. Inutilmente tentò di svegliarla. Non gli restò altro da fare che sollevarla a braccia e depositarla inerme sul letto. Poiché era del tutto incosciente, la liberò dei vestiti, la infilò tra le lenzuola e la ricoprì. Al contatto del fresco lino, Teresina aprì un piccolo spiraglio tra le palpebre appesantite, mentre gorgogliava: “ La testa….. Oh! La mia testa…. Una trottola…. Emigrante, acqua, acqua, fammi bere un po’ d’acqua….”
Joanot andò in cucina e tornò con un bicchiere d’acqua fresca, ma quella già ronfava come un mantice slabbrato. Tentò di farla sedere perché potesse bere, ma fu vano ogni tentativo. Teresina comprimeva le labbra, come un bimbo che rifiuti una medicina amara, mugolando flebili lamenti.
Riaprì gli occhi la mattina seguente, quando il sole era già alto nel cielo di Buenos Ayres e la pendola aveva scandito poco prima dieci tocchi, destata dal cigolio della porta d’ingresso.
Joanot, uscito di casa di prima mattina, nel rientrare si soffermò sull’uscio della camera di Teresina. Lentamente, nella semioscurità, raggiunse il letto e si chinò per controllarne il respiro. Fulminea, la donna balzò a sedere, gli cinse il collo con le sue braccia nude e lo trattenne su di se. Ristettero nel letto, troppo grande per una donna sola, abbracciati e sognanti.
Esaurite le tenerezze: “Joanot,” disse Teresina, “Anch’io, un giorno, ormai lontano, arrivai qui a Buenos Ayres, ma, ad attendermi, non c’era nessuno. Ero una povera emigrante, sola. Sappi, però, che le donne, anche se sole, trovano sempre modo per cavarsela. Ed io lo trovai. Sì, lo trovai e me la cavai. Possedevo tre qualità: giovinezza, bell’aspetto e… bocca buona. Eh, sì. Non potevo mica fare la schizzinosa! –O si mangia la minestra o si salta la finestra-, diceva il mio povero nonno. La mia vita, a ripensarla oggi, non è poi stata nemmeno troppo grama. Disavventure ne ho avute tante, ma, lo riconosco, mi hanno anche aiutato a crescere, a superare le difficoltà e, soprattutto, a curarmi le crisi di nervi. Sai quante volte mi sono trovata sui ponti di Rio de la Plata a cercare un gorgo profondo abbastanza? Ma, grazie a Dio, fino ad oggi, non l’ho ancora trovato.”
Rimase qualche attimo in silenzio, poi, tenendogli le mani tra le sue: “ Se avrai la pazienza d’ascoltarmi, compaesano, ti racconterò la mia storia. Quando tornerai al paese, perché tu tornerai al paese, durante le veglie invernali, potrai raccontarla a tutti quelli che chiederanno di me. Sono sicura che molte persone, specialmente le mie amiche di gioventù, ricordandosi di questa poverina, saranno curiose di sapere quale fine mi sia toccata. Dalla tua voce sapranno che razza di marito ho avuto e i patimenti che ho dovuto sopportare per colpa sua, ma anche come sia riuscita a conquistarmi una posizione in questa Merica lontana.”
Ciò detto, sedette sulla sponda del letto, gambe penzoloni, ed iniziò con calma il suo racconto.
“ Da bambina, come già ti avrà detto da Remo, abitavo alla Contrada di Camerana. Mio padre possedeva una bella cascinotta sulla strada per Gottasecca, sotto l’Arzifel. La mia gioventù l’ho trascorsa felicemente: godevo delle premure dei miei genitori, soprattutto dell’affetto del mio povero papà. Il mio destino, però, era già segnato e una sera, quando si liberano le cucine per accatastarvi le pannocchie di meliga da spogliare, i fatti presero una piega che non si poté più cambiare. A spannocchiare e a mazzolare le pannocchie, in casa nostra s’era radunata molta gente. Tra loro c’era un giovanotto, che aveva cominciato a buttarmi gli occhi addosso la domenica, in chiesa, durante messa granda. Io, che non avevo mai provato l’interesse d’un ragazzo, guardandolo da sotto la quèfa (velo), corrispondevo ai suoi sguardi ammiccanti. Se ne stava sempre solo, nella cappella del Suffragio, senza cessare, durante la messa, d’allungare lo sguardo fisso su di me. Che ti devo dire? Sono rimasta stregata da quei suoi occhi. Il suo sguardo era di calamita, ossessivo, più che amorevole. Non seppi resistere a quel suo osservarmi insistentemente. A nulla valsero le raccomandazioni delle mie compagne. Con ogni mezzo, cercarono di riportarmi alla realtà. Ma i loro consigli non ebbero alcun effetto su di me. Me ne innamorai perdutamente. Era un bel ragazzo ma, povero in canna. La sua gente menava a mezzadria una cascinotta di Campo Asinaro, con poca terra e reddito praticamente inesistente. Era la cascina più selvatica del paese e gli abitanti, a dire il vero, erano ancora più selvatici della terra che calpestavano. L’unica vera ricchezza di quella gente erano i pidocchi, che portavano in testa e nei vestiti a nidiate. Mia madre, com’ebbe sentore dei miei pruriti, lo rincorse a scopate, ma, quella sera, vergognandosi dei presenti, non se la sentì di cacciarlo. Fu fatale. Durante la veglia della spogliatura, seguii i consigli di mio nonno, che stravedeva per me. Col tempo gli confidai tutti i miei sospiri per Gioanin. Non voleva contraddirmi, ma non riusciva a trattenere completamente il suo disappunto. Quella sera stessa, durante una pausa della spogliatura, appena mio nonno ebbe insaccate le caldarroste fumanti per ammorbidirle e la vinetta prese a scorre nei bicchieri, approfittai del trambusto per lanciare il mio rocco tra le gambe di Gioanin. Tu sai che, da noi, è usanza che un ragazzo, se riceve il rocco tra i piedi, deve riconsegnarlo alla ragazza cui è sfuggito. Quella sera Gioanin raccolse il fuso e me lo riportò. Me lo porse con mano ben ferma. Fu quella sua energia a convincermi. Pochi giorni dopo, salì all’Arzifel e mi portò l’anellino d’argento di sua nonna. Mia madre, se pure contraria, lasciò che me lo infilasse al dito ed io iniziai a sognare ad occhi aperti. Mio padre, che meglio sapeva della famiglia di Gioanin, cominciò a bestemmiare come un turco e malvolentieri andò alla posta a ritirare le seimila lire del mio fardello. Ci sposammo dopo sei mesi, a primavera, il giorno del merendino, sotto un cielo cupo e grigio, che la diceva lunga circa la fortuna del mio matrimonio. Diluviò fino a notte fonda. Al pranzo di nozze, preparato da mia madre e da una cuciniera della Costa Sottana, mio nonno, imberborato più della carèra della cantina, s’alzò in piedi e, barcollando vistosamente, mentre le lacrime gli solcavano il viso, iniziò a cantare una cantilena propiziatoria:
“ Evviva la sposa bagnata \ sarà fortunata \ evviva la pioggia della sposa \ la vita sarà tutta rosa.”
Povero nonno, se solo avesse immaginato!
Finita la festa, per me iniziò una vita di stenti, grama, impossibile. Scoprii, nella madre di Gioanin, una suocera ignorante, avara e perfida: una masca. Non possedevo alcuna libertà. In tasca, mai un soldo e le seimila lire mi furono sottratte il giorno stesso del matrimonio, per fruttare alla Posta. La mia perfida suocera m’impediva persino di mangiare. “ Oh! Se avessi dato retta a mio padre! ” Mi dicevo. “ Non sarei qui a tribolare. ” Gioanin, passata la festa, si dimostrò il mollusco che era, rimesso, mani e piedi, alla volontà dell’arpia. Mio suocero, col tempo, calò la maschera del maschio per rivelarsi un perfetto cretino, vile e bugiardo, anche peggio del figlio.
Provai tante sofferenze e patimenti. Nel breve tempo di qualche settimana, capii che, per me, non c’era via d’uscita. Soltanto la fuga mi avrebbe salvata. Ma, dove andare? Giorno e notte pensavo a trovare un modo per fuggire da quella casa. Finalmente, ebbi un lampo: Merica. Cercai di convincere il mio Gioanin a tentare la fortuna proprio in Merica. Tanto feci, e tanto insistetti, che, quello stesso autunno, andò a Genova a comprare i biglietti per il viaggio. Finalmente, con i biglietti in tasca a Gioanin, eravamo pronti a iniziare una nuova vita. Sicuramente più dura di quanto potessimo immaginare, ma liberi e, soprattutto, lontano dalle grinfie di quella masca. Il mio pensiero fisso era ora rivolto al paese dove saremmo arrivati. Non m’importava quale. Sapevo soltanto che ci aspettava una nuova terra chiamata pampa argentina.
Qualche giorno prima della partenza, Gioanin andò, accompagnato da mia suocera, alla posta a ritirare le seimila lire del mio fardello. Strano, mia suocera non s’era opposta, ma ero così felice, di poter fuggire, che non ci badai. Avrei dovuto, invece. Oh, se avrei dovuto! Gioanin mi mostrò il pacco dei soldi, ben incartati e legati nel giornale. Ero tranquilla.
Il giorno stabilito, mio padre ci accompagnò sulla doma alla stazione di Saliceto. Per tutto il percorso, il pover’uomo ciondolava il capo, sconsolato e non proferì parola. Ci lasciò, con i bagagli al piede, prima dell’arrivo del treno. Povero papà, non se la sentì d’affrontare il fischio della locomotiva, sbuffante sui binari, in attesa del segnale del capostazione. Ora, nonostante tanto tempo sia passato, sento ancora la stretta delle sue braccia tremolanti sui miei fianchi e i sussulti del suo petto. Ho ancora presente il suo collo gonfio e vinoso, orribilmente deformato dallo sforzo che fece per trattenere l’urlo di disperazione che gli riempiva la gola.
Raggiungemmo Genova. Non l’avevo mai vista. Era notte fonda e alloggiammo in un alberghetto grinzoso dell’angiporto. Ci svegliammo il mattino dopo, molto presto. Poco dopo mi trovai a trotterellare dietro al passo di Gioanin senza sapere dove andavamo. Raggiungemmo un edificio, decorato e sculpito, fuoruscente dall’acqua del mare. Un’acqua nera, limacciosa che sembrava lordura di grasso liquido. Gioanin me l’indicò col dito: “ Il mare “.
Ci sistemarono, con un’infinità di altre persone, sul marciapiede. Davanti a noi s’ergeva il bastimento: un bestione nero. Sul fianco mostrava una lunga scala che lo collegava al marciapiede. Gioanin mi lasciò sola con i bagagli per andare a prendere certe carte dentro all’edificio. Quel nero bastimento, più grande del castello di Camerana Villa, mi procurava tristezza. Mi sarei messa a piangere, se intorno non avessi avuto tutta quella gente pronta a salire la lunga scala di ferro. Finalmente, Gioanin tornò quando già stavamo avviandoci. Ci volle tempo per entrare nella nave e, dopo aver percorso tanti corridoi e salite molte scalette, fummo su, in alto, ammassati su una terrazza circondata da ringhiere di ferro. Davanti a noi c’era Genova opalescente nella prima luce dell’alba. Ci aggrappammo alla ringhiera e vi restammo ad ammirare la città, che lentamente si inondava di sole. Tutt’intorno alla nave una cerchia di palazzi occhieggiava sul porto ed erano così vicini da poterli sfiorare solo stendendo le braccia. Dietro a quei palazzi, altri, sempre più alti, a ricoprire l’intera collina. Restammo muti e incantati, con la gola secca come pietra di scafa. Domandai a Gioanin se avessimo trovato un po’ di acqua. Non finii di parlare che disse: - Avremmo dovuto pensarci prima. Ma, tu resta qui e stai attenta ai bagagli. Io scendo a prendere i documenti che ho lasciato sul bancone dell’ufficio. E, già che ci sono, compro una bottiglia di fernet per il viaggio.- Ciò detto mi consegnò il pacco dei soldi: -“ Mi raccomando, tienili stretti e metti il pacco nella borsa. C’è il tuo fardello. Per nessun motivo devi aprirla, faccio in fretta. -
Mi fece scivolare tra le mani il pacco dei soldi. Richiusi la borsa, stringendomela al fianco. Sparì nel pancione del bastimento e rispuntò, minuto come a una formica, sul marciapiede. Quindi entrò nella stazione marittima per non uscirne più.
Mi sistemai con i bagagli in attesa del mio Gioanin. Ogni tanto aprivo uno spiraglio della borsa per assicurarmi che il pacchetto fosse lì, al suo posto.
Giunse l’ora della partenza. Un via vai di marinai annunciò il distacco del bastimento dalla banchina. Io, istupidita e sorpresa, rimasi lassù a scrutare le scalette e i boccaporti per veder spuntare il mio Gioanin. Ma di Gioanin, da quel giorno, non rividi più neppure il fantasma. La nave lentamente uscì dal porto appesa ai rimorchiatori. Mezz’ora dopo Genova altro non era che una strisciolina scura, sbiadita, all’orizzonte. Mi sentivo impazzire per la disperazione. Speravo che il mio uomo m’avesse fatto uno scherzo. Di cattivo gusto, ma si trattava pur sempre d’uno scherzo, pensai. Non fu così. La mia sicurezza era ora il pacchetto dei soldi. Avendoli, in qualche modo me la sarei cavata. Aprii la borsa, il pacco era lì a minimizzare la mia sventura. M’arrovellai il cervello per capire cosa diavolo fosse successo a mio marito. Non mi davo ragione di tanta disavventura. Istintivamente, affondai le unghie nel pacchetto dei soldi e lo feci con un tale impeto che la carta si strappò, rigurgitando all’interno della borsa tutto il contenuto. Ciò che mi trovai tra le mani fu spaventoso. Non mi restava altro da fare che urlare di rabbia a squarciagola: “Bastardo”.
Sì, bastardo. M’aveva ciulato, spedita in Merica da sola, senza un soldo e, peggio ancora, senza documenti. Non avevo nemmeno il biglietto per il viaggio. Non uno straccio di documento che potesse dire chi ero, da dove venivo e dove andavo. Oh! L’imperdonabile cretina che sono stata! Eppure, i segni per capire le intenzioni di quel bastardo del Berbora li avevo avuti tutti. L’indifferenza di mia suocera al ritiro dei soldi e la mancanza dei biglietti per il viaggio, di cui non avevo mai chiesto ragione, avrebbero dovuto farmi dubitare. Invece no! Gioanin teneva i biglietti e mi bastò. Provai una profonda vergogna per quanto mi stava succedendo, perciò m’imposi di tacere. Più tardi, smaltita la rabbia, avrei trovato sicuramente un modo di risolvere il problema. Disperata com’ero, più volte provai a scavalcare la murata per farla finita in qualche gorgo del mare. E ancora oggi non mi spiego come mai non lo feci. Forse, la buonanima di mio nonno, morto nel frattempo, mi tenne una mano sulla testa.
Un paio di giorni dopo, i miei nervi crollarono. La provvidenza fece sì che mi trovasse un giovane marinaio riversa sulla murata. Non riuscivo a trattenere le lacrime. Tentò di aiutarmi, pensando che il mio problema fosse il mal di mare. Gli confidai d’essermi persa e di non riuscire più a trovare mio marito. Raccolse le mie cose e m’accompagnò dal comandante, cui raccontai, non tralasciando alcun particolare, la mia disavventura. M’ascoltò attentamente. Comprese la mia disperazione e m’aiutò, come nessun altro avrebbe potuto fare.
Quel comandante fu la mia salvezza. Gli fui grata e, per i trenta giorni successivi, non mi vergogno a dirlo, fui la sua amante, anche se lui nulla mai pretese da me. Che potevo fare per dimostrargli la mia riconoscenza? L’incontro con un vero uomo, dopo le disavventure subite, mise in subbuglio la mia anima, sicché mi donai completamente, senza riserve. Per lui avrei fatto qualsiasi cosa m’avesse chiesta. Una donna sola, su un bastimento per la Merica, senza un marito, né documenti e senza un soldo, è una nullità, non esiste. Avrebbero potuto uccidermi e nessuno si sarebbe preoccupato della mia assenza. Sarei crepata senza un nome, senza un suffragio e gli unici a ricordarsi di me sarebbero stati i pesci del mare oceano.
Ero una ragazza sola, ma abbastanza intelligente da capire che piangere e disperarsi non sarebbe servito. Ribellarsi, poi, non m’avrebbe giovato. Sarei stata cacciata nella stiva della nave in attesa di essere consegnata a qualche gendarme, sempre che non m’avessero dato in pasto alla ciurma, che avrebbe sfogato sul mio corpo i più bassi istinti. Scelsi di restare con quel gentiluomo. Da subito capii di che pasta era fatto. Fui rassicurata dal suo sguardo dolce e comprensivo, che gli inondava il viso. Fu un caro amico e un dolce amante, paziente e sensibile. Per tutto il viaggio mi fu assegnata una cabina lussuosa, piena da comodità e d’ogni ben di Dio. Indossavo vestiti pregiati e provai il piacere d’una vasca da bagno, grande e bianca, come la neve, ricca di saponi e profumi. Poco dopo ricevetti la visita di una parrucchiera, che mi liberò della vecchia treccia, ruvida come la rista, e mi acconciò i capelli in una cascata di seta frusciante. La mia unica penitenza fu dover restare all’interno della cabina durante il giorno. Fu necessario. Il comandante è sempre stato educato e paziente. Entrai nel suo letto senza imposizioni: lo desideravo.
Un paio di giorni prima di sbarcare, egli bussò alla cabina. Entrò, tenendo in mano un libricino. Sedette al mio fianco e, dopo avermi tranquillizzata, mi chiese di scegliere se tornarmene al paese o sbarcare a Buenos Ayres. Là, forse, potevo iniziare una nuova vita. Fu l’odio che nutrivo per Giovanni Berbora a scegliere, per me, di lasciare la nave. Il capitano mi abbracciò. Negli ultimi due giorni passò più tempo nella mia cabina che sul ponte di comando. Poi, stringendomi, disse: “Hai scelto Buenos Ayres e ora debbo avvertirti. D’ora in poi, Clara non sarà più il tuo nome. Ti chiamerai Teresina Belloni, nata a Cherasco il 23 settembre 1898. E’ il nome di una donna sola, pressappoco della tua età. La poverina è deceduta sulla nave ed è stata sepolta in mare. La sua disgrazia sarà la tua fortuna. Ora andrò nell’ufficio a compilare l’atto di morte di Clara Prindo nata a Camerana il 2 agosto 1901. Da questo momento, perciò, tu sarai Teresina: Teresina Belloni. A quelle parole, un brivido mi percorse il filo della schiena e capii a quale rischio si sottopose quel capitano, rinnovando la mia identità. Se ne avessero avuto notizia, per lui sarebbe stata la fine. Superai le molte difficoltà, sorretta dall’odio che provavo per Gioanin. T’assicuro, però, nonostante sia passato tanto tempo, lo rifarei.”
“ Incredibile!” Esclamò Joanot. “ E’ una storia disgraziata e davvero incredibile. Neppure la mente più fantasiosa avrebbe potuto inventarla. “
“Oh! Povera me! Che ho mai fatto?” Mormorò, quindi aggiunse: ”Mi raccomando, che nessuno venga a conoscenza di questa storia. Raccontarla è stata un’imprudenza. Ma tu, Joanot, mi ricordi quel capitano. Come lui sei buono e gentile. Neppure Remo sa della mia disgrazia. E’ un brav’uomo, ma s’ubriaca e chiacchiera troppo. Da quando sono qui, ormai, sono vissuta e morirò col nome di Teresina. Clara è sepolta in un gorgo profondo abbastanza del mare oceano.”
Joanot non riuscì a trattenere le lacrime. Teresina gliele asciugò con i suoi capelli di seta.
Joanot, poco dopo, le si rivolse ancora: “Ora che conosco la tua storia, posso raccontare la parte che ancora tu non conosci.”
Raggiunsero la cucina e sedettero al tavolo della colazione.
“Teresina,” riprese Joanot, “L’uomo che tanto ti ha fatto soffrire, non c’è più. Cessò di vivere una buia sera d’inverno, rientrando da uno dei suoi viaggi d’affari. Anche quella volta aveva sprofondato nella disperazione una famiglia di gente poverissima, che aveva cercato in lui la salvezza. Fu la sua ultima vittima. Lo trovarono congelato, con il ventre squarciato e appeso ad un albero con le sue budella. Una morte atroce che, ora capisco, si è cercata per la sua malvagità. Ma la gente del paese non l’ha mica pianto. In chiesa e al cimitero lo accompagnarono soltanto il prete e il beccamorto. I parenti se ne guardarono bene dal porgergli l’ultimo saluto.”
Teresina ebbe un brivido per tutto il corpo, che Joanot percepì tra le mani. Le chiese: “Ti spiace che sia morto?”
“ L’avrei ucciso con le mie stesse mani. Ma devo riconoscere che, in fondo, quell’essere malvagio m’ha aiutata. Se non m’avesse abbandonata sulla nave, non sarei mai riuscita a rifarmi una vita. “
“Giovanni Berbora distrusse anche la mia famiglia. “ Aggiunse Joanot. “Tornò dalla Merica, due anni dopo essere partito, ricco sfondato. Senz’anima iniziò da subito a investire i suoi denari da farabutto. Il suo lavoro era vagare per le Langhe alla ricerca delle famiglie più disperate, ma non per aiutarle a tirarsi fuori dalla miseria. Prestava loro un po’ di denaro a interesse da usuraio. Alla scadenza dei pagamenti, senza pietà, li costringeva a firmare certe carte e, in poco tempo, s’appropriava delle proprietà, lasciandoli disperati nella miseria più nera. Anche mio padre fu usurato da Giovanni Berbora. Morì di crepacuore tre mesi dopo aver strumentato dal Notaio il campo più bello del Belbo. Per la gente delle nostre parti perdere la terra o il ciabot dei vecchi è il disonore più grande. Dopo resta soltanto la morte. Quel Berbora fu tanto odiato dalla nostra gente che lo soprannominò –Caino- . In paese e sulle Langhe, tutti conoscevano il suo malaffare, ma alla fame non si comanda mica! E così, una alla volta, tutte le famiglie più miserabili sono finite nella sua ragnatela. Un signore di Cadibona, di mestiere fabbro carradore, ricevette da lui un prestito. Finì per arrivare a un debito che non poté pagare. Ma, col fabbro di Cadibona, il Berbora non inveì, in cambio si fece costruire una croce di ferro, con incise le sue iniziali “B G”, che, in occasione dei festeggiamenti alla Contrada di Camerana, fece porre sul lato della strada che sale a Gottasecca, poco prima dell’Amnad. All’inaugurazione si tennero grandi festeggiamenti e Berbora offrì a tutti vino e frittelle. La gente diceva: -Berbora s’è pentito, Berbora s’è pentito-. Ma non fu così. Sentendosi protetto dal simbolo cristiano, che aveva fatto innalzare all’Amnad, ritornò ai suoi traffici maledetti con maggiore impegno, fino alla fine dei suoi giorni.”
Ciò detto, Joanot andò all’acquaio e bevve un bicchiere d’acqua. Teresina pervasa dal disgusto per quell’essere, che fu suo marito, esclamò: “Finalmente il maledetto ha trovato la giusta fine.”
“Ma, non è mica finita.” Continuò Joanot. “Una notte, pochi mesi dopo la sua morte, qualcuno salì alla croce per completare la scritta -B G-. E, da quel giorno, la gente che passa sullo stradone per Gottasecca può leggere: B-estia G-rama. Cara Teresina, l’uomo che ti abbandonò sulla nave, derubandoti del denaro, ebbe la giusta punizione: lo spregevole soprannome di Bestia Grama.”
Joanot tacque. Teresina gli scivolò alle spalle e, teneramente, si strinse a lui. Gli accarezzo il viso e baciandolo, mentre le lacrime le solcavano il viso, disse:
“Joanot, aiutami. Tu solo lo puoi. Se tu vorrai, io cesserò d’essere Teresina Belloni e tornerò ad essere Clara Prindo. Sarò di nuovo quella Rina che mio padre, piangendo, accompagnò con la doma alla stazione di Saliceto. Insieme torneremo al paese. Non dovrai più preoccuparti perché, morta Teresina, tutto ciò che possiede è tuo. Joanot, questa Merica è buona solo per i Mericani. Noi emigranti abbiamo un paese ad attenderci e sogniamo di tornare a calpestarne i sentieri. Di quella terra ci è caro ogni fianco di collina, ogni bricco, ogni valle, ogni fondo di ruscello, ogni fonte, ogni gorgo, il profumo dei campi e dei fiori che là sbocciano. Noi emigranti manteniamo scolpiti nel cuore i volti della nostra gente. Impronte che non si cancellano. La terra, che ci ha accolti nel venire al mondo, nessuna lontananza, per quanto ricca e felice, può farcela dimenticare. “
Teresina tacque. Appesa al collo di Joanot, lentamente gli ruotò intorno per sedergli sulle sue ginocchia. Teneramente, cercò le sue labbra, sussurrando: “ E, se vorrai…. Ma, solo se lo vorrai, Rina sarà la tua serventa. Per sempre. E, non dimenticare, aggiunse civettuola, mentre vezzosamente agitò un poco il seno, Rina è più giovane di Teresina. Ha tre anni di meno. “
Joanot, frastornato da tanta tenerezza, compreso, anima e corpo, in quell’incredibile commedia sudamericana, aprì le mani grandi e callose e, mostrandole a Teresina, con voce pacata, ma decisa, semplicemente, concluse:
“ Rina, tu lo sai, Joanot è buono solo a zappare.”
NATALE RUBINO
Trascorsa la prima mezz’ora quasi incosciente, s’addentrò lungo un anonimo viale transennato da palazzine le cui facciate sbalzavano con poggioli chiusi, per metà altezza, da muriccioli bianchi, disegnati nel vivace stile dell’epoca. Joanot li analizzò mentalmente. Li contò, li ricontò infinite volte, inciampando nel totale, non appena raggiunto il numero cinquanta. Sapeva contare, ma, sui multipli, beh!.... Non sempre era certo del risultato raggiunto. Oh! Ricordava benissimo, all’esame della seconda elementare i numeri non costituivano un problema, purché il totale non superasse le cinque decine. Ora, complici delle sue incertezze erano quei parapetti, esaltati dalle decorazioni, in uno stile a lui sconosciuto, traboccanti di iris, sempreverdi, campanule, calle e pappagalli dai colori sgargianti. Nelle cuadras intorno alla locanda aveva notato altre case affacciarsi sulle strade, addossate una all’altra, visibilmente gravate dal peso dei tetti, sbalzanti dai cornicioni, esili come tese di Borsalino e così bassi da poterli sfiorare solo estendendo le braccia.
Nonostante lo spettacolo cittadino contemplasse tutte le variabili capaci di scatenare la fantasia d’un provinciale scampato ai marosi delle Langhe, il pensiero dominante di Joanot si perdeva nella pampa sterminata in attesa d’una zappa: la sua zappa. Da quanto tempo la sospirava! Pur non avendola mai vista, l’aveva disegnata, nel suo immaginario, più vasta dell’orizzonte al bric delle forche, lungo il confine tra Gottasecca e Prunetto. Quella pampa, ne era certo, avrebbe portato un bravo lavoratore a “fare fortuna”. Quella fortuna, che sarebbe stata impossibile realizzare a casa. Oh! Quanto se n’era chiacchierato nelle osterie, nelle cense, nelle stalle, nelle cucine, scatenando la fantasia delle madri. E, pure negli oratori parrocchiali, complici prevosti e parroci, si fantasticava sulla Merica. Di quella pampa, le menti giovanili se n’erano inzuppate al punto da rincorrere, con la fantasia, un barlume di speranza aldilà dell’oceano. Nei giovani, improvvisamente, si era innescata un’incontenibile smania d’avventura. I porti di Genova, Napoli e Palermo furono invasi da una miriade di uomini, con indosso una giacca di fustagno appena, esaltati all’idea di potersi liberare, finalmente, dei mali di casa. A loro si affiancavano donnette, strette in neri scialli di lana, decise ad affollare le spaventose carrette del mare, rosicchiate dalla ruggine e spinte, da neri sbuffi di fumo e vapore, a cavalcare i marosi dell’oceano.
Estasiato, col naso all’insù, il nostro giovanotto sentiva pulsare, dentro le case arabescate di quella Buenos Ayres, il cuore libero delle persone, che immaginava ben accasate, appagate e protette da quei muri bianchi, alti e inattaccabili come granitiche fortezze.
-Quelli lì-, pensò, - cos’avranno da spartire con noi della valle Bormida?-
Quanti giovanotti, prima di lui, avevano lasciato terra, madre e morosa per correre dietro al sogno mericano, più cristiano d’una vita spesa a sciogliersi l’anima sui terrazzamenti della Bormida.
Mentre curiosava, ciondolando sulle gambe incerte, stormi d’uccelli, seminascosti dalle fronde dei platani, chiacchieravano un cinguettio straniero, pieno d’interrogativi e di sospetto, che gli facevano sentire ancor più greve l’anima. Sul bavero della giacchetta, Joanot aveva l’impressione di dover sostenere un enorme macigno, che, nel camminare inquieto e senza meta, gli comprimeva il petto, procurandogli un dolore sordo, mai provato prima d’ora.
Intento a cercare qualunque cosa da fare, per occupare il tempo dell’interminabile pomeriggio afoso, scorreva lo sguardo sulle targhette ottonate dei campanelli, incastonate nelle pesanti lesene dei portoni d’ingresso, cerate con cura. E così, tanto per occupare il tempo, iniziò a sillabarne le iscrizioni. Stupì nel leggere, su molte di quelle targhe, italianissimi nomi.
-Madonna Santa, quanta gente, prima di me, ha vegliato sui ponti dei bastimenti, la notte, a veder tramontare le stelle nostrane, traballanti nel fumo grasso e denso delle ciminiere!-
Mentre fantasticava, un tizio, con la lingua già ispessita dall’alcool, seminascosto nell’ombra fitta d’un’osteria, che teneva le porte aperte alla luce sfacciata del pomeriggio, gracidò:
-Ehi tu, bevi un bicchiere con me?.... Ti va una birra fresca di ghiacciaia? Forse!…. Forse ti fa piacere una bella limonata fresca!.... Dimmi…. Dai, su, dimmi, preferisci?-
Joanot capì d’essere il destinatario del messaggio, s’arrestò e, come d’abitudine, affondò le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre, raddrizzando le spalle, tentava di distendere la schiena. Restando immobile sul tronco e ruotando lentamente il capo, cercò con gli occhi, l’interlocutore. Nel contrasto luce ombra, però, non gli riusciva di focalizzarne la figura. Come una serpe in posizione difensiva, tentò di comunicare col tizio, ma le corde vocali, disobbedendo, emisero un soffio gravido di timori. Impacciato, tentò ancora di lanciare un saluto. Inutilmente. Tutto l’impegno profuso gli valse a estrarre dalla gola, grippata e ruvida come carta vetrata, un grugnito appena, buono soltanto a dimostrare tutto l’imbarazzo e la tensione che gli occupavano corpo e anima.
- Amico, questa non è l’ora di passeggiare per le strade assolate di Buenos Ayres, - riprese il tizio, che pareva sciolto nella nera ombra del locale, - questa è l’ora della siesta. Gli uomini restano a sonnecchiare in casa, tenendo gli scuretti socchiusi per farsi accarezzare dalla frescura e le donne, coperte di sola sottana, sbavano, stravaccate sui letti umidi, a braccia aperte, con gli occhi febbricitanti e le cosce appiccicose. La brezza della sera, poi, libererà nuovi stimoli e la buona tavola e le finestre spalancate restituiranno i sapori e i profumi del paradiso.-
- Ma, io… io non ho sete! - gracchiò timidamente Joanot, - vado un po’ in giro per le strade a conoscere questi posti. Intanto, se avrò fortuna, mi troverò un padrone e un lavoro. Ma tu! Oh no, non mi sbaglio. Tu sei italiano, neh?-
L’attesa d’una risposta, che tardava a venire, fece sì che Joanot superasse, almeno in parte, le inibizioni e oltrepassasse, impacciato, l’ingresso della balera. Raggiunta la zona d’ombra, si fermò per consentire alle pupille di dilatarsi e fotografare le particolarità dell’ambiente. Lentamente, come una pellicola che si srotoli, percepì un bancone di legno occupante più di mezza sala. All’intorno primeggiava un pesante ronzio di mosche ubriache, sfarfallanti e collose. Più in là, sul lato destro del locale, alcuni tavoli di legno, dalle gambe sapientemente tornite, si allineavano alla parete cieca, ricoperta, per metà altezza, d’un assito scuro, ispessito da una stratificata untuosità, simile alla pelle squamosa d’una biscia. Dello smalto, che ricopriva lo scialbo dei muri, traspariva un bisunto verde pallido, a tratti vagamente ambrato e decorato, in basso, da infinte striature color marrone, prodotte dallo strofinio degli zolfanelli. Sul soffitto, pochi stucchi, circolari e concentrici, apparivano gravemente lesionati. Le decorazioni, che a malapena s’intuivano, imitavano un dagherrotipo stinto e rappresentavano dame pavoneggianti con uomini impomatati intenti a sorbire, galateo in tasca, flutes di rosolio con tazzine fumanti di caffè e cioccolata. Tutte preziosità, che si rifacevano a una nobiltà decaduta, ora sostituita da un nugolo di poveracci in cerca di stimoli. Da quel soffitto, un tempo nobilitato dalle preziose scene ritraenti una società blasonata, ora penzolavano appiccicose strisce di cellofan, fuoruscenti da cilindretti di cartone, brulicanti di mosche ammassate, mortalmente ronzanti. Sullo sfondo, pigramente appoggiata al banco della mescita, emergeva una figura d’uomo emaciata, dall’aspetto volgarmente cirrotico, intento a proporre un “cin cin” per celebrare un brindisi. Dalla sua mano destra s’ergeva un mignolo magro, unghiuto, coronato da un anello d’oro massiccio con incastonata una pietra rubizza, forse preziosa. Il resto dell’ambiente era un insieme di disordine, sporcizia e volgarità.
Finalmente Joanot si trovò davanti al tizio, che l’aveva invitato, seduto, in solitudine, a un tavolino, tipo bistraud, appena aldilà della soglia del locale. Era un uomo di media statura e vestiva una tuta grassa, foracchiata dall’uso. Sul capo un baschetto nero, altrettanto liso e bisunto. Tra il colletto e il basco, mostrava un grugno minuscolo, spigoloso, irto di peluria incolta, forse, ramata. Dallo sbrego della manica fuorusciva una mano magrissima, che lentamente versò, dentro un vetro bolloso, un liquido nerastro. L’altra mano, lentamente, salì a strofinare un naso gonfio, una specie di fragolone maturo, sovrastante una bocca arida e priva di labbra, che intimò:
- Bevi, ne hai bisogno! Annegherai per un po’ gli strani pensieri, che t’impiombano il cervello.-
Non ripeté l’invito. Joanot agguantò il bicchiere e, d’un fiato, tracannò parte del contenuto, restando rigorosamente in piedi, ma rovesciando un po’ il capo all’indietro. Poco prima, nell’afoso pomeriggio, altro non desiderava che starsene solo a pensare alla madre lontana, alle colline della sua Langa e alla misera condizione dell’emigrante, privo d’un riparo e senza lavoro. Ora, la liquida frescura del vino appena tracannato gli stava sciogliendo tutte le preoccupazioni. Lentamente, ammiccando un mezzo sorriso all’interlocutore, si piegò per sedergli di fronte. Nello stesso tempo, sentì pulsargli nel petto un forte desiderio d’aprirsi.
-Fanciot, sei piemontese, neh! – Abbozzò l’uomo, grattandosi il capo attraverso il baschetto. - Ti tradisce la curiosità e quell’aspetto un po’ selvatico che distingue la gente delle mie parti. -
Sorbendo un altro po’ di vino, aggiunse: - Mi chiamo Remo. Fino a ventidue anni ho abitato alla Serra di Prunetto, ma, da più di dieci, ormai, ho lasciato madre e morosa per vivere qui a Buenos Ayres. Da principio, ne ho patito, ma ora non ci penso più e, così, ho anche finito di patirne. Amico, sappi che mi sono così affezionato alle stelle di Buenos Ayres, che le sento ancor più nostrane di quelle che illuminano il cielo sulla valle della scienza. -
Ciò detto, trasportò il purillo sopra l’orecchio destro e, garbatamente, riportò il bicchiere alla bocca. Le labbra, inesistenti, ma amplificate dalla forma lenticolare del fondo del bicchiere, parevano gonfiare a dismisura, goffamente deformate e orribilmente cesellate dall’arsura.
-Ma, che combinazione! - Rispose Joanot. – Io sono di Camerana. I miei vivono a San Rocco. Ho lasciato mia madre, ma lei, per consolarsi, ha ancora degli altri figli. La morosa, no. Quella non ce l’ho mica, anzi (arrossì leggermente), veramente, non l’ho mai avuta. Ma, forse, è meglio così. Là, al paese, non c’è mica lavoro! Noi, in famiglia, siamo sette fratelli, con poca terra, poco grano e poca meliga. Per sfamarci, rastrelliamo appena un paio di sacchi di castagne bianche. Quando in casa c’è poco o niente da mangiare, vince sempre la miseria e s’infila dappertutto, a cominciare dalla madia. Ci resta soltanto la malora! Niente è peggio della malora. Casa e terra valgono un boccone di pane appena, buono, si e no, per qualche settimana. E poi? Mio padre, pace all’anima sua, è morto di crepacuore per aver strumentato l’unico campo del Belbo in cambio di due sacchi di farina gialla. Fu quel caino di Giovanni Berbora della Contrada a ridurci alla fame. A mio padre gli abbiamo fatto un funerale di terza, con un solo prete, senza esequie cantate. Alla sepoltura c’era tutto il paese. La gente borbottava durante la messa, maledicendo il Berbora, lo strumento, il campo del Belbo e la farina gialla. Ma, alla fame non si comanda mica! Dopo la messa della trigesima, intorno a noi s’è fatto il vuoto; nessuno ha più bussato alla nostra porta. -
Joanot approfittò del poco vino, che ancora gli restava sul fondo del bicchiere, e ne bevve lentamente. Soddisfatto, schioccò la lingua contro il palato e lasciò focalizzare lo sguardo su un punto indefinito del muro, in attesa che Remo riprendesse il discorso. Ma, non fu così, socchiuse le palpebre e, spalancata la bocca a dismisura, iniziò a dondolare goffamente la testa a ogni respiro. Sfiorava, ad ogni andirivieni del capo, il legno del tavolo, su cui appoggiava le mani magrissime. Al pensiero che la crisi di sonno potesse durare a lungo, Joanot scostò la sedia, deciso ad andarsene. Ma, in quel preciso momento, Remo si risvegliò, sbottando:
- Cristo signore, te ne vai già? Avrai un nome, spero. -
-Volevo lasciarti dormire! Ma, visto che ora sei sveglio, posso dirti di me. Devi sapere che, quando sono venuto al mondo, mio padre mi chiamò Giovanni, ma, di Giovanni, c’era già mio nonno, che era ancora vivo e così, da subito, mi chiamarono Joanot: Joanot ed Cà Veija. -
Ciò detto, Joanot s’alzò, tirò fuori di tasca il tacco (piccolo portamonete) e aggiunse:
-Ho ancora qualche soldo e voglio proprio pagare da bere. -
Fulmineo, Remo lo trattenne e gl’intimò: - Tieniteli stretti, quelli. Ora non puoi sapere se e quando ne avrai bisogno. Prima di trovare un lavoro, forse, non ti basteranno per pagarti un letto. Ma, se ti trovassi a patire, non farti della gena, a Buenos Ayres, da qualche parte, troverai sempre questo povero Remo pronto a darti una mano. Quando sono arrivato qui in Merica, una nostra compaesana, una certa Teresina, è stata la mia sola ancora di salvezza. Senza di lei? Ora non so dove potrei trovarmi! Sicuramente, sarei bell’e morto.-
Ciò detto, restò un poco in silenzio a pensare. Poco dopo, però, alzò gli occhi, che Joanot incrociò azzurri, dolci, infantili e liquidi come acqua di mare, e aggiunse: - Oh! Cristo signore! Ma, lo sai? Teresina è del tuo paese. Eh, sì! Lei è di Camerana. Devi sapere, caro mio, che quella donna ha attraversato il mare oceano da sola. Il marito, non so come, né perché, alla partenza non è più salito sulla nave, abbandonandola al suo destino. E qui, caro Joanot, per una donna sola la vita è ben dura! Ma, Teresina è una femmina ingamba. Non si è mai lasciata prendere dallo sconforto e ha sempre superato le difficoltà, cavandosela meglio d’un uomo. Stasera vai a dormire…. dove?-
-Alla locanda di Dolores.- disse Joanot, - quella dei piemontesi.-
- Tutti quelli che arrivano a Buenos Ayres alloggiano da Dolores. Stasera, paga il tuo conto e, domani mattina, fatti trovare qui con la valigia. Ti farò conoscere Teresina, lei ha di sicuro una camera da affittare. E poi, Joanot, Teresina… è ancora una bella donna e vale più di cento Dolores. Mi raccomando, domani mattina presto, alle otto, puntuale. Neh? -
Alla proposta, Joanot ammutolì, tentò d’obiettare, ma accettò, non nascondendo l’intima soddisfazione che provava. Appeso ai pensieri della speranza, accantonò le titubanze, ringraziò Remo e s’avviò verso la locanda.
La speranza fu per Joanot la medicina più efficace. La notte, tuttavia, non dormì. Si girò e rigirò infinite volte nell’umido lenzuolo come un capretto sacrificale impalato allo spiedo. Più volte, senza trovarlo, cercò un angolo di frescura sulla ruvida canapa. Un orologio toccò lentamente le tre. Sveglio e irritato, lasciò il letto e raggiunse la finestra. S’affacciò per rubare un po’ della brezza notturna, che, lentamente, rigonfiava la tendina. Il resto della notte la passò appoggiato al davanzale di pietra sbrecciata in attesa del sorgere del sole. Finalmente, un primo riverbero filtrò i rami degli alberi per amplificarsi, lentamente, fino a raggiungere la delicata opalescenza d’un “bicchiere d’acqua e anice”. Pigramente, la luce formò raggi giallognoli, che, parve a Joanot, via via, raggiunsero il colore rosso d’uno sciroppo di visciole. Con l’amplificarsi della luce, s’intensificò il coro aritmico del cinguettio dei passeri. L’insieme dei rumori, nella prima mattina, assunse una sonorità incontrollata con un crescendo assordante, insolente, quasi provocatorio.
Joanot, attento spettatore di quell’alba beneaugurale, addentò un paio di mele mascelline (ultimo rimasuglio mangiativo del viatico preparato dalla madre), s’accostò all’acquaio e spillò acqua dalla brocca. Levò la maglietta di lana e, a torso nudo, si lavò, strofinandosi vigorosamente col sapone. Poi, si rivestì con più cura del solito, pronto ad affrontare Teresina, pulito e in ordine. A sentir Remo, la donna frequentava persone influenti, dunque, meglio evitare brutte figure al primo approccio. Ora, accantonati i cattivi pensieri, sentì d’essere abbastanza sereno. Ma, un tarlo s’insinuò nel suo cervello: non possedeva un vero mestiere. L’unica sua capacità era di saper maneggiare una zappa o qualche altro ferro agricolo. Ma, non era forse questo il motivo per cui era partito? I propagandisti avevano assicurato che là, in Merica, cercavano giovanotti capaci d’usare la zappa. E lui, Joanot, era un instancabile giornaliero. Nessuna fatica l’aveva mai fermato.
-Il mestiere di zappare, - gli era stato detto, -in Merica è così calcolato, e così ben pagato, da riuscire a cambiare, in poco tempo, la vita d’un bravo lavoratore. Un giornaliero, in due o tre anni di duro lavoro, poteva diventare un particolare Mericano.-
E così, sognando la pampa, Joanot si convinse che, sceso dalla nave, nell’angiporto avrebbe trovato vigne da potare e campi da sarchiare. Invece, a deluderlo, trovò quella città smisurata, più grande di Ceva e Mondovì messe insieme. Si stupì pure di quel gennaio caldo e afoso, che lo snervava e lo affaticava già nel camminare.
Ora, gli gonfiava il petto una nuova speranza. Remo gliel’aveva rinfocolata. Con cura ultimò i preparativi, lustrò le scarpe con un grumo di grasso e infilò un fazzoletto bianco, il pettinino d’osso e la stilografica col fiocco nel taschino della giacca. Saltellando, e ignorando il peso della valigia, scese la scala a salutare Dolores. Ripercorsa la strada del giorno precedente, raggiunse l’osteria. Entrò e sedette a un tavolino, davanti al bancone di mescita. Chiese di Remo. La risposta fu una lenta flatulenza alcolica dell’oste. Remo non s’era fatto vivo. Ordinò maté zuccherato e qualche galletta. L’amico giunse poco dopo. La pendola, lentamente, scandì otto tocchi.
Una vigorosa stretta di mano e un cangaceiro ridussero le distanze tra i due. Saldato il conto, uscirono dal locale per raggiungere Teresina. Un poco avanti camminava Remo, mentre Joanot gli stava appresso, tentando di calcarne il passo. Remo tentò di fornire qualche informazione sulla donna ma, Joanot, occupato in mille pensieri, era assente. Lavorava di cesello e fantasia, passettando dietro all’amico, a produrre una figura femminile pari a Teresina, che, via via, andava completando di forme, colori e timbriche prese a prestito dalle ragazze di sua conoscenza. Invano rivisitò tutte le figure femminili, che occupavano il sagrato della chiesa di Camerana Villa la domenica mattina al termine di messa granda. Ad ogni tentativo, Teresina s’affacciava al suo immaginario diversa. Finalmente raggiunsero la casa della donna.
Era una casa bianca con le imposte verde oliva, come quelle dei palazzi genovesi, che aveva notato mentre le nave, appesa ai rimorchiatori sbuffanti, lentamente usciva dal porto. Salirono un’ampia scala di pietra. Joanot, preoccupato e impacciato, sputò l’anima dalla fatica. Non si trattava, però, di vera fatica, ma d’un insieme di sensazioni strane, che gli facevano pulsare il cuore in gola come lo stantuffo d’una locomotiva. Tuttavia, anche in questo frangente, Joanot non mancò di contare i quarantotto gradini che portavano al piano di Teresina. Remo, con decisione, ruotò la levetta cromata del campanello, che riecheggiò per la tromba delle scale con un suono argentino. Poco dopo li raggiunse una voce di donna, che inciampò nei residui del sonno appena interrotto.
-Stamattina? Non aspetto nessuno. Sono molto stanca. Per piacere, lasciatemi riposare. Voglio stare in pace. Avete capito? In pace.-
Remo, superato l’ingombro del naso, trovò una lama di luce nel legno della porta e cercò di rassicurare la donna:
-Teresina, oggi è un giorno speciale. E’ qui con me un amico. Arriva dal tuo paese. E, apri, per favore. Sei proprio sicura di non volerlo vedere? Dopo potrai dormire quanto vorrai.-
La porta, gemendo sui cardini, s’aprì, ma s’arrestò sull’estremo anello del catenaccio.
- Teresin, bella mia, dai, non essere diffidente! Lo sai che non ti racconto bugie. E’ uno nuovo, un bravo giovanotto, di Camerana, appena arrivato in Merica. Si chiama Joanot, Joanot ‘d cà veija e ha bisogno di te. Non puoi rifiutargli la tua amicizia!-
Il flebile fischio d’una macchinetta per il caffè s’amplificò all’aprirsi dell’uscio.
-Scusate. Odio il matè e al caffè, appena sveglia, non so rinunciare.-
Joanot tolse il berretto, per affidarlo alla mano destra, e lo portò dietro la schiena in segno di rispetto. Era un’abitudine, quella di levarsi il cappello, ereditata dai suoi vecchi, che mai avrebbero affrontato il prete, il maestro o il maresciallo a capo coperto. Quando al Poggiolo giungeva la signora Fenoglio, la moglie del padrone, gli uomini restavano a capo scoperto. Joanot ricordava quel tempo con nostalgia, nonostante l’umiliazione della divisione del raccolto, frutto del sudore del mezzadro. Il lavoro in campagna era pesante, tuttavia ripagato da tanto ben di Dio. Ogni giorno sulla tavola non mancavano pane, polli, conigli, uova, latte, salame, salsiccia, minestroni e tome di pecora. Più tardi, però, le cose cambiarono e la vita divenne un inferno.
Superato l’uscio della casa di Teresina, Joanot rimase impalato nell’ingresso. L’ambiente destava un senso di mistero, procurandogli angoscia. Fu la donna a levarlo d’impiccio. Gli puntò l’indice sul petto: - Tu saresti l’emigrante di Camerana? Ah! Matot, guarda che, la Merica, qui è già finita da un pezzo! Ora è molto più facile vivere a Camerana. -
Ciò detto, si ritirò in cucina e ne tornò poco dopo armeggiando un arnese soffiante, dal quale si spandeva un intenso aroma di caffè. Joanot stupì alla vista di quell’arnese. Al paese nessuno conosceva quell’aggeggio. Sua madre preparava il caffè, ma alla maniera di Langa : versava acqua calda nel bricco, già pronto sulla stufa, cui aggiungeva una miscela d’orzo e radici di cicoria tostate. Raramente, però, usava caffè, che barattava, al mercato di Monesiglio, con uova e formaggette.
Teresina li fece accomodare in una stanzetta poco oltre l’ingresso. Sedettero su un divanetto colmo di cuscini variopinti. Versò il caffè nelle tazzine, lo addolcì con zucchero di canna e l’offrì agli ospiti. Remo lo trangugiò, mentre Joanot lentamente lo centellinava, gustandolo. Sul tavolinetto, a forma di violino, colmo di cianfrusaglie, lasciarono le tazzine. Nel ringraziare Teresina, Remo dimostrò una confidenza, che stupì Joanot.
Al paese, nessun uomo, per quanto sfrontato, avrebbe agito in quel modo.
-Probabilmente, - pensò, - in Merica, comportamenti simili saranno normali!-
La sua esperienza educativa s’era fermata al “voi” dei genitori. E così, da quel momento, osservò con più attenzione il comportamento di Teresina. S’accorse di quanto fosse ancora giovane, graziosa d’aspetto, esile nel fisico pur se meravigliosamente in carne: ancora una bella donna.
Tra le pieghe della veste da camera (una novità per Joanot), che teneva aperta sul davanti fin quasi all’ombelico, Teresina scopriva, di tanto in tanto, apprezzabili rotondità.
IL giovane s’impose di non fermare lo sguardo sulla pelle ambrata di Teresina. Ah, se si fosse trovato a sbirciare dalla toppa della serratura, non si sarebbe certo fatto sfuggire tutte quelle preziosità. Ma, così, a viso aperto, beh….. Arrossì, trasudando, non appena incrociò lo sguardo complice di lei. Teresina era una donna di molta esperienza e non mancò di coinvolgerlo in un suo gioco malizioso. Accavallò ripetutamente le gambe. Il serico tessuto lentamente scivolò di lato a scoprire un paio di cosce eburnee, magistralmente tornite. Per solleticare ancor più la curiosità del ragazzo, Teresina, lentamente, le ricopriva. Joanot finì per infiammarsi le retine, non trattenendo un’improvvisa vampata, che lo arrossì dal collo alla fronte.
Remo sfilò una sigaretta e l’accese, strofinando uno zolfanello sulla suola della scarpa, poi s’alzò e disse: “Mia cara, devo abbandonare questa compagnia. Tu lo sai, avrò una dura giornata di lavoro e, se tardassi, il mio padrone, che ben conosci, mi sbatterebbe la porta in faccia, devastando la mia carriera e sarei costretto all’accattonaggio lungo la scaletta alla darsena di Puerto Viejo.”
Teresina, non si trattenne e nell’accompagnarlo alla porta, disse: “Vai, ch’è meglio. Senza lavoro? Oh, povera me! L’ultima volta, altro che scala di Puerto Viejo, t’ho dovuto mantenere per tre mesi. Caro Remo, pensi che lo rifarei? Vai, vai, e, ti prego, non cercarti altri guai.”
Lasciarono il salotto e raggiunsero l’ingresso. Qui si trattennero a parlottare sottovoce. Il botto secco della porta concluse il dialogo.
Joanot, rimasto nello stanzino, prese ad agitarsi e, non sopportando più lo stare seduto, cominciò a camminare nell’angusto spazio, sfiorando ogni cosa. In quel momento, riprovò la sensazione di malessere dei giorni precedenti.
Teresina intuì lo stato d’animo del ragazzo e se ne andò in cucina.
-Madonna santissima, timido il ragazzo-, pensò, -ha bisogno di sentirsi a proprio agio.-
Poco dopo si riaffacciò all’uscio del salotto: “Siedi, comodo, arrivo subito. Oh, mio Dio, ma che sbadata! Indosso ancora la camicia da notte! Faccio subito, ma, comodo, come a casa tua. “
Si avvicinò, gli pizzicò la guancia con fare materno, sfiorandolo col suo seno abbondante, quindi, ruotando mollemente su se stessa, prima d’uscire, gli sorrise: “Mi raccomando.”
Fu inondato dal profumo e dalla tenerezza della donna. Ciò nonostante non mutò d’umore. Restando seduto sul divanetto, accavallò le gambe e cominciò a molleggiare sul piede a terra con nervosismo, sempre più insistente. Pareva un disabile in difficoltà nell’alzarsi da una sedia medica.
Per ammazzare il tempo, osservò più attentamente il salotto, provò a confrontarlo con la sala da pranzo di Ca Veja, ma non trovò alcuna relazione.
Come un giunco, piegato del vento marino, occupò il tempo restante a slacciare e riallacciare le scarpe, prima l’una, poi l’altra. Desiderò persino che Teresina rientrasse in quel momento. Sicuramente, vedendolo occupato ad armeggiare con i lacci, avrebbe preso lei la parola. E, se fosse rimasta in silenzio? Beh! In quel caso, avrebbe avuto modo lui di parlare per primo-
-Oh, le mie stringhe!- Avrebbe detto. -Mannaggia, non c’è modo di tenerle allacciate, basta guardarle che…. già si slegano…. Non riesco a sistemarne una che…. Subito l’altra….-
Mentre si crogiolava in quei pensieri, lo raggiunse la voce squillante e imperativa di Teresina: ”Emigrante di Camerana, per piacere, vieni. Allacciami questa benedetta fibbia del reggiseno, non ce la faccio più. Le mie spalle…. Oh, le mie povere spalle! Sono dolenti e, nell’alzare le braccia, provo fitte insopportabili. Dio mio, ma, quant’è brutto invecchiare!”
Alla singolare richiesta, che neppure sua madre mai avrebbe osato fargli, Joanot si sentì sprofondare. Subito dopo, però, con un filo di voce, rispose: “Vengo…. Vengo subito.”
Cercò di riallacciarsi le stringhe, ma quelle sue mani grandi cominciarono a tremare e, agitato com’era, finì per distruggere entrambi i lacci.
“Bel fieu di Camerana, vuoi sbrigarti?”
Joanot varcò la soglia della camera di Teresina, avanzò come un automa e, rosso in viso, iniziò ad armeggiare sulla minuta fibbia del reggipetto con la stessa foga riservata ai suoi lacci. Il piccolo nastro cedette, sfilacciandosi definitivamente. Teresina, non trattenendo un gesto di sconforto, misto a tenero rimprovero, esclamò: “Eh! Madonna santissima, che forza! Ma… era il caso? ”
Non s’alterò, anzi, voltate le spalle al giovane, si coprì il viso, esplodendo in una sonora risata. Joanot ne ebbe un benefico effetto liberatorio. Esaurita la risata, mantenendo le spalle verso di lui, con naturalezza si sfilò il reggiseno. Joanot, si irrigidì come uno stoccafisso, poi, superata l’abituale vergogna, balbettò: “Oh! Sacratu! Che stupido! Io non ho mai…. Vi chiedo scusa…. S’è rotto…. Ve ne comprerò uno nuovo…. nuovo….. subito…. Appena uscirò. ”
Teresina lo attirò a sé, lo accarezzò teneramente sul viso e con un bacio gli sfiorò la fronte.
“Ma, va là bel matot! Non sapresti nemmeno come comprarmelo, tu, un reggipetto! E poi, mio bel ragazzone…. Io sono una signora di riguardo. Penserai mica che possa indossare uno straccio di reggiseno qualunque? Eh, no! I miei, caro mio, li cuce la mia sarta… i reg-gi-pet-ti!” Poi, mostrandosi a seno scoperto: “Guarda, guarda qui. Ma non vedi come sono abbondante? E allora, senza balene, come riuscirei a tenerle su, queste pupe?”
Joanot finì per sciogliersi come una goccia di miele in bicchiere di latte caldo. Restò immobile, con i piedi ancorati al pavimento, incapace d’alzare anche un solo dito. Teresina, approfittando della momentanea paresi di Joanot, andò al settimanale, trasse un reggiseno nero orlato di rossa trina e, dimenticando l’artrosi, se lo allacciò, portando entrambe le mani dietro la schiena, così, semplicemente. Terminata la vestizione, cercò di ricondurlo alla realtà:
“Bel matot! Io, proprio non t’aspettavo e, in casa, oltre qualche sciocchezza, non ho niente da mettere in tavola. Usciremo a fare un po’ di provvista per festeggiare il tuo arrivo a Buenos Ayres. Oh, già, che sciocca, ti devi pur sistemare! Non penserai mica che Teresina non abbia una camera per gli ospiti? Prendi le tue cose, apri quell’uscio ed entra. Quella sarà la tua camera. Nel canterano trovi posto ai tuoi indumenti. Ci sono degli abiti maschili. Potrebbero servirti.”
Prima d’uscire, per metterlo a suo agio, gli porse le chiavi di casa: “ Compaesano, con queste entrerai e uscirai a tuo piacimento. Le terrai finché deciderai di lasciare questa casa. “
Joanot ascoltava trasognato, senza batter ciglio. Pareva un orsacchiotto metallico all’ultimo giro di corda. Cominciò a dondolarsi, spostando il peso da un piede all’altro, incapace di pronunciare una sola parola. Ricacciata in gola l’emozione che provava, tentò di manifestare la soddisfazione che provava, ma riuscì a gorgogliare appena qualche frammento di discorso: “Ma, io….. Ve-ra-men-te…. Non so co-me…. Ba-sta-va….. Co… co-me potrò?”
Tentò di spiegarsi meglio, provò a formulare un pensiero compiuto, ma la porta della camera si richiuse energicamente. Rimase solo, stralunato, incapace di distinguere tra il sogno e la realtà. Passarono pochi minuti e lo raggiunse la voce suadente di Teresina: “Bel matot, usciamo?”
Smaltita la sbornia di tenerezza, e dopo aver recuperato un briciolo del naturale vigore, rispose: “Un attimo, solo il tempo di allacciarmi le scarpe. Arrivo subito. ”
Un campanile, nei paraggi, scandì undici tocchi mentre i due varcavano la soglia d’una merceria: una botteguccia con la vetrina inondata dal sole, colma di scatole d’ogni forma e colore e molte cianfrusaglie. All’interno, qua e là, altre scatole sbadigliavano lingérie d’ogni foggia. Dai tiretti semiaperti, traboccavano bottoni, fibbie e accessori vari. Joanot mai avrebbe immaginato che quel buco potesse contenere tanta merce. Teresina lo ammiccò prudentemente e, dimentica della perizia della sarta, acquistò due reggiseni, un più paio di calze, mutande a gambaletto, canottiere di cotone, aghi e filo da rammendo. Visitarono altri negozi di tessuti, prima d’entrare, infine, in un emporio alimentare. Joanot tentò d’estrarre il borsello, ma ricevette occhiatacce di commiserazione. La pendola dell’ingresso scandì un botto mentre i due, trascinando quattro pesanti sporte, colme d’ogni ben di dio, varcarono la soglia.
Pranzarono. Joanot gradì la cucina da Teresina. Si congratulò della bravura della cuciniera, certificando che proprio non aveva dimenticato i sapori e gli aromi della Langa. Sorbito il caffè, che Teresina servì caldo, fumante e ben zuccherato, fu assalito da un’improvvisa sonnolenza, che assecondò, suo malgrado, cedendo alle insistenze della donna, dopo aver raggiunto la camera. S’abbandonò alla sua prima lunga siesta sudamericana.
Sentendo farfugliare una chiave nella toppa, balzò a sedere sul letto. Trasse di tasca il suo Chemin de fèr, ereditato dal nonno, generoso manovale delle regie ferrovie e sbalordì: “Sacratu, ho dormito tre ore?” Le sfere dell’orologio indicavano, infatti, le sei pomeridiane. Teresina, con fare canzonatorio, affacciata alla porta della camera, gli diede il buongiorno, rassicurandolo: “Sto scherzando, neh? Se ti va, puoi dormire ancora. Ne hai bisogno, perciò non genarti. ”
“Mi spiace, non credevo di dormire tanto! Arrivo subito, il tempo di rinfrescarmi e vestirmi.”
Trovò un bagno caldo: una tinozza, bianca di smalto, colma d’acqua e un parallelepipedo di sapone appoggiato sul bordo. Joanot non aveva mai incontrato una vasca da bagno. La sua prima esperienza d’un bagno la fece sulla nave, ma si trattava d’un tubo forato che pisciava acqua tiepida dal soffitto, a tratti molto fredda, sulla testa delle persone. Entrò nella vasca e vi s’immerse fino al collo. Provò una sensazione di benessere umido, inaspettato. A casa, per togliersi di dosso la pula, il fango o il sudore, doveva bagnarsi nei gorghi del Belbo o della Bormida. Terminate le abluzioni, trovò, sulla seggiola in fondo al letto, un grande telo di cotone disegnato a nido d’ape. Vi si avvolse. Rientrando nella camera, più non trovò sul letto gli indumenti di lana che aveva lasciato. Al loro posto c’era una camicia, dei pantaloncini, un paio di calze, sandali, mutande e quanto necessario per un’eleganza che Joanot proprio non conosceva. Mentre gustava tanta generosità, lo raggiunse la voce di Teresina: “E non indossare quegli indumenti di lana. Vuoi stecchire per il caldo? “
Teresina non gli consentiva alternative.
Si vestì, come mai gli era capitato nella sua esistenza cameranese, e si fermò un attimo per osservarsi allo specchio del comò. Stupì, ma si piacque.
Uscendo dalla camera, trovò la padrona di casa intenta ad apparecchiare tavola. Prima che vi prendesse posto, lo avvertì: “E non pensare che sia un regalo. Neh? E’ solo un prestito. Quando avrai guadagnato abbastanza, mi ripagherai. E ora ascoltami bene. Domani mattina, alle sette in punto, t’aspetta il signor Romero. Mentre tu riposavi, è venuto qui. Sentendo che cercava un garzone, gli ho proposto di assegnarti quel lavoro. Accettò.”
Cenarono. Poco dopo un doppio trillo del campanello annunciò una visita. Remo era alla porta e smaniava dal desiderio di conoscere la reazione di Teresina all’arrivo di Joanot.
Entrò, s’affacciò alla cucina e, vedendo il giovane agghindato in abiti coloniali, non potè trattenere una chiassosa risata. Piegato in due, raggiunse e s’abbandonò sul divano tra le braccia di Teresina. L’abbracciò e, baciandola teneramente sulle guance: “Lo sapevo. Oh, se lo sapevo! Hai un cuore tenero e sei generosa, soprattutto con i giovanotti nostrani. Eh! Non te li lasci mica scappare, neh, Teresin?”
Rapida, la donna si liberò dalla stretta e gli mollò due sonori ceffoni: “ Sappi, ai giovanotti e agli uomini per bene, regalo tenerezze, ma, ai mascalzoni come te, solo bastonate, caro il mio balordo!”
Giocarono a carte, bevendo caffè e ratafià fino a tarda ora. Remo lasciò la casa di Teresina insicuro sulle gambe. Joanot lo accompagnò per un tratto di strada. L’ubriaco, rimasto finalmente solo, euforico e traballante, inciampava un po’ ovunque. Procedeva con passo diseguale, a singhiozzo, mentre teneva dotte conversazioni con le inferriate, i lampioni e gli androni semichiusi delle case, costretti a sentir declamare le straordinarie virtù di Teresina Belloni.
Rientrando, Joanot trovò Teresina stravaccata sul divano, mollaccionata, del tutto incapace di raggiungere la camera. Inutilmente tentò di svegliarla. Non gli restò altro da fare che sollevarla a braccia e depositarla inerme sul letto. Poiché era del tutto incosciente, la liberò dei vestiti, la infilò tra le lenzuola e la ricoprì. Al contatto del fresco lino, Teresina aprì un piccolo spiraglio tra le palpebre appesantite, mentre gorgogliava: “ La testa….. Oh! La mia testa…. Una trottola…. Emigrante, acqua, acqua, fammi bere un po’ d’acqua….”
Joanot andò in cucina e tornò con un bicchiere d’acqua fresca, ma quella già ronfava come un mantice slabbrato. Tentò di farla sedere perché potesse bere, ma fu vano ogni tentativo. Teresina comprimeva le labbra, come un bimbo che rifiuti una medicina amara, mugolando flebili lamenti.
Riaprì gli occhi la mattina seguente, quando il sole era già alto nel cielo di Buenos Ayres e la pendola aveva scandito poco prima dieci tocchi, destata dal cigolio della porta d’ingresso.
Joanot, uscito di casa di prima mattina, nel rientrare si soffermò sull’uscio della camera di Teresina. Lentamente, nella semioscurità, raggiunse il letto e si chinò per controllarne il respiro. Fulminea, la donna balzò a sedere, gli cinse il collo con le sue braccia nude e lo trattenne su di se. Ristettero nel letto, troppo grande per una donna sola, abbracciati e sognanti.
Esaurite le tenerezze: “Joanot,” disse Teresina, “Anch’io, un giorno, ormai lontano, arrivai qui a Buenos Ayres, ma, ad attendermi, non c’era nessuno. Ero una povera emigrante, sola. Sappi, però, che le donne, anche se sole, trovano sempre modo per cavarsela. Ed io lo trovai. Sì, lo trovai e me la cavai. Possedevo tre qualità: giovinezza, bell’aspetto e… bocca buona. Eh, sì. Non potevo mica fare la schizzinosa! –O si mangia la minestra o si salta la finestra-, diceva il mio povero nonno. La mia vita, a ripensarla oggi, non è poi stata nemmeno troppo grama. Disavventure ne ho avute tante, ma, lo riconosco, mi hanno anche aiutato a crescere, a superare le difficoltà e, soprattutto, a curarmi le crisi di nervi. Sai quante volte mi sono trovata sui ponti di Rio de la Plata a cercare un gorgo profondo abbastanza? Ma, grazie a Dio, fino ad oggi, non l’ho ancora trovato.”
Rimase qualche attimo in silenzio, poi, tenendogli le mani tra le sue: “ Se avrai la pazienza d’ascoltarmi, compaesano, ti racconterò la mia storia. Quando tornerai al paese, perché tu tornerai al paese, durante le veglie invernali, potrai raccontarla a tutti quelli che chiederanno di me. Sono sicura che molte persone, specialmente le mie amiche di gioventù, ricordandosi di questa poverina, saranno curiose di sapere quale fine mi sia toccata. Dalla tua voce sapranno che razza di marito ho avuto e i patimenti che ho dovuto sopportare per colpa sua, ma anche come sia riuscita a conquistarmi una posizione in questa Merica lontana.”
Ciò detto, sedette sulla sponda del letto, gambe penzoloni, ed iniziò con calma il suo racconto.
“ Da bambina, come già ti avrà detto da Remo, abitavo alla Contrada di Camerana. Mio padre possedeva una bella cascinotta sulla strada per Gottasecca, sotto l’Arzifel. La mia gioventù l’ho trascorsa felicemente: godevo delle premure dei miei genitori, soprattutto dell’affetto del mio povero papà. Il mio destino, però, era già segnato e una sera, quando si liberano le cucine per accatastarvi le pannocchie di meliga da spogliare, i fatti presero una piega che non si poté più cambiare. A spannocchiare e a mazzolare le pannocchie, in casa nostra s’era radunata molta gente. Tra loro c’era un giovanotto, che aveva cominciato a buttarmi gli occhi addosso la domenica, in chiesa, durante messa granda. Io, che non avevo mai provato l’interesse d’un ragazzo, guardandolo da sotto la quèfa (velo), corrispondevo ai suoi sguardi ammiccanti. Se ne stava sempre solo, nella cappella del Suffragio, senza cessare, durante la messa, d’allungare lo sguardo fisso su di me. Che ti devo dire? Sono rimasta stregata da quei suoi occhi. Il suo sguardo era di calamita, ossessivo, più che amorevole. Non seppi resistere a quel suo osservarmi insistentemente. A nulla valsero le raccomandazioni delle mie compagne. Con ogni mezzo, cercarono di riportarmi alla realtà. Ma i loro consigli non ebbero alcun effetto su di me. Me ne innamorai perdutamente. Era un bel ragazzo ma, povero in canna. La sua gente menava a mezzadria una cascinotta di Campo Asinaro, con poca terra e reddito praticamente inesistente. Era la cascina più selvatica del paese e gli abitanti, a dire il vero, erano ancora più selvatici della terra che calpestavano. L’unica vera ricchezza di quella gente erano i pidocchi, che portavano in testa e nei vestiti a nidiate. Mia madre, com’ebbe sentore dei miei pruriti, lo rincorse a scopate, ma, quella sera, vergognandosi dei presenti, non se la sentì di cacciarlo. Fu fatale. Durante la veglia della spogliatura, seguii i consigli di mio nonno, che stravedeva per me. Col tempo gli confidai tutti i miei sospiri per Gioanin. Non voleva contraddirmi, ma non riusciva a trattenere completamente il suo disappunto. Quella sera stessa, durante una pausa della spogliatura, appena mio nonno ebbe insaccate le caldarroste fumanti per ammorbidirle e la vinetta prese a scorre nei bicchieri, approfittai del trambusto per lanciare il mio rocco tra le gambe di Gioanin. Tu sai che, da noi, è usanza che un ragazzo, se riceve il rocco tra i piedi, deve riconsegnarlo alla ragazza cui è sfuggito. Quella sera Gioanin raccolse il fuso e me lo riportò. Me lo porse con mano ben ferma. Fu quella sua energia a convincermi. Pochi giorni dopo, salì all’Arzifel e mi portò l’anellino d’argento di sua nonna. Mia madre, se pure contraria, lasciò che me lo infilasse al dito ed io iniziai a sognare ad occhi aperti. Mio padre, che meglio sapeva della famiglia di Gioanin, cominciò a bestemmiare come un turco e malvolentieri andò alla posta a ritirare le seimila lire del mio fardello. Ci sposammo dopo sei mesi, a primavera, il giorno del merendino, sotto un cielo cupo e grigio, che la diceva lunga circa la fortuna del mio matrimonio. Diluviò fino a notte fonda. Al pranzo di nozze, preparato da mia madre e da una cuciniera della Costa Sottana, mio nonno, imberborato più della carèra della cantina, s’alzò in piedi e, barcollando vistosamente, mentre le lacrime gli solcavano il viso, iniziò a cantare una cantilena propiziatoria:
“ Evviva la sposa bagnata \ sarà fortunata \ evviva la pioggia della sposa \ la vita sarà tutta rosa.”
Povero nonno, se solo avesse immaginato!
Finita la festa, per me iniziò una vita di stenti, grama, impossibile. Scoprii, nella madre di Gioanin, una suocera ignorante, avara e perfida: una masca. Non possedevo alcuna libertà. In tasca, mai un soldo e le seimila lire mi furono sottratte il giorno stesso del matrimonio, per fruttare alla Posta. La mia perfida suocera m’impediva persino di mangiare. “ Oh! Se avessi dato retta a mio padre! ” Mi dicevo. “ Non sarei qui a tribolare. ” Gioanin, passata la festa, si dimostrò il mollusco che era, rimesso, mani e piedi, alla volontà dell’arpia. Mio suocero, col tempo, calò la maschera del maschio per rivelarsi un perfetto cretino, vile e bugiardo, anche peggio del figlio.
Provai tante sofferenze e patimenti. Nel breve tempo di qualche settimana, capii che, per me, non c’era via d’uscita. Soltanto la fuga mi avrebbe salvata. Ma, dove andare? Giorno e notte pensavo a trovare un modo per fuggire da quella casa. Finalmente, ebbi un lampo: Merica. Cercai di convincere il mio Gioanin a tentare la fortuna proprio in Merica. Tanto feci, e tanto insistetti, che, quello stesso autunno, andò a Genova a comprare i biglietti per il viaggio. Finalmente, con i biglietti in tasca a Gioanin, eravamo pronti a iniziare una nuova vita. Sicuramente più dura di quanto potessimo immaginare, ma liberi e, soprattutto, lontano dalle grinfie di quella masca. Il mio pensiero fisso era ora rivolto al paese dove saremmo arrivati. Non m’importava quale. Sapevo soltanto che ci aspettava una nuova terra chiamata pampa argentina.
Qualche giorno prima della partenza, Gioanin andò, accompagnato da mia suocera, alla posta a ritirare le seimila lire del mio fardello. Strano, mia suocera non s’era opposta, ma ero così felice, di poter fuggire, che non ci badai. Avrei dovuto, invece. Oh, se avrei dovuto! Gioanin mi mostrò il pacco dei soldi, ben incartati e legati nel giornale. Ero tranquilla.
Il giorno stabilito, mio padre ci accompagnò sulla doma alla stazione di Saliceto. Per tutto il percorso, il pover’uomo ciondolava il capo, sconsolato e non proferì parola. Ci lasciò, con i bagagli al piede, prima dell’arrivo del treno. Povero papà, non se la sentì d’affrontare il fischio della locomotiva, sbuffante sui binari, in attesa del segnale del capostazione. Ora, nonostante tanto tempo sia passato, sento ancora la stretta delle sue braccia tremolanti sui miei fianchi e i sussulti del suo petto. Ho ancora presente il suo collo gonfio e vinoso, orribilmente deformato dallo sforzo che fece per trattenere l’urlo di disperazione che gli riempiva la gola.
Raggiungemmo Genova. Non l’avevo mai vista. Era notte fonda e alloggiammo in un alberghetto grinzoso dell’angiporto. Ci svegliammo il mattino dopo, molto presto. Poco dopo mi trovai a trotterellare dietro al passo di Gioanin senza sapere dove andavamo. Raggiungemmo un edificio, decorato e sculpito, fuoruscente dall’acqua del mare. Un’acqua nera, limacciosa che sembrava lordura di grasso liquido. Gioanin me l’indicò col dito: “ Il mare “.
Ci sistemarono, con un’infinità di altre persone, sul marciapiede. Davanti a noi s’ergeva il bastimento: un bestione nero. Sul fianco mostrava una lunga scala che lo collegava al marciapiede. Gioanin mi lasciò sola con i bagagli per andare a prendere certe carte dentro all’edificio. Quel nero bastimento, più grande del castello di Camerana Villa, mi procurava tristezza. Mi sarei messa a piangere, se intorno non avessi avuto tutta quella gente pronta a salire la lunga scala di ferro. Finalmente, Gioanin tornò quando già stavamo avviandoci. Ci volle tempo per entrare nella nave e, dopo aver percorso tanti corridoi e salite molte scalette, fummo su, in alto, ammassati su una terrazza circondata da ringhiere di ferro. Davanti a noi c’era Genova opalescente nella prima luce dell’alba. Ci aggrappammo alla ringhiera e vi restammo ad ammirare la città, che lentamente si inondava di sole. Tutt’intorno alla nave una cerchia di palazzi occhieggiava sul porto ed erano così vicini da poterli sfiorare solo stendendo le braccia. Dietro a quei palazzi, altri, sempre più alti, a ricoprire l’intera collina. Restammo muti e incantati, con la gola secca come pietra di scafa. Domandai a Gioanin se avessimo trovato un po’ di acqua. Non finii di parlare che disse: - Avremmo dovuto pensarci prima. Ma, tu resta qui e stai attenta ai bagagli. Io scendo a prendere i documenti che ho lasciato sul bancone dell’ufficio. E, già che ci sono, compro una bottiglia di fernet per il viaggio.- Ciò detto mi consegnò il pacco dei soldi: -“ Mi raccomando, tienili stretti e metti il pacco nella borsa. C’è il tuo fardello. Per nessun motivo devi aprirla, faccio in fretta. -
Mi fece scivolare tra le mani il pacco dei soldi. Richiusi la borsa, stringendomela al fianco. Sparì nel pancione del bastimento e rispuntò, minuto come a una formica, sul marciapiede. Quindi entrò nella stazione marittima per non uscirne più.
Mi sistemai con i bagagli in attesa del mio Gioanin. Ogni tanto aprivo uno spiraglio della borsa per assicurarmi che il pacchetto fosse lì, al suo posto.
Giunse l’ora della partenza. Un via vai di marinai annunciò il distacco del bastimento dalla banchina. Io, istupidita e sorpresa, rimasi lassù a scrutare le scalette e i boccaporti per veder spuntare il mio Gioanin. Ma di Gioanin, da quel giorno, non rividi più neppure il fantasma. La nave lentamente uscì dal porto appesa ai rimorchiatori. Mezz’ora dopo Genova altro non era che una strisciolina scura, sbiadita, all’orizzonte. Mi sentivo impazzire per la disperazione. Speravo che il mio uomo m’avesse fatto uno scherzo. Di cattivo gusto, ma si trattava pur sempre d’uno scherzo, pensai. Non fu così. La mia sicurezza era ora il pacchetto dei soldi. Avendoli, in qualche modo me la sarei cavata. Aprii la borsa, il pacco era lì a minimizzare la mia sventura. M’arrovellai il cervello per capire cosa diavolo fosse successo a mio marito. Non mi davo ragione di tanta disavventura. Istintivamente, affondai le unghie nel pacchetto dei soldi e lo feci con un tale impeto che la carta si strappò, rigurgitando all’interno della borsa tutto il contenuto. Ciò che mi trovai tra le mani fu spaventoso. Non mi restava altro da fare che urlare di rabbia a squarciagola: “Bastardo”.
Sì, bastardo. M’aveva ciulato, spedita in Merica da sola, senza un soldo e, peggio ancora, senza documenti. Non avevo nemmeno il biglietto per il viaggio. Non uno straccio di documento che potesse dire chi ero, da dove venivo e dove andavo. Oh! L’imperdonabile cretina che sono stata! Eppure, i segni per capire le intenzioni di quel bastardo del Berbora li avevo avuti tutti. L’indifferenza di mia suocera al ritiro dei soldi e la mancanza dei biglietti per il viaggio, di cui non avevo mai chiesto ragione, avrebbero dovuto farmi dubitare. Invece no! Gioanin teneva i biglietti e mi bastò. Provai una profonda vergogna per quanto mi stava succedendo, perciò m’imposi di tacere. Più tardi, smaltita la rabbia, avrei trovato sicuramente un modo di risolvere il problema. Disperata com’ero, più volte provai a scavalcare la murata per farla finita in qualche gorgo del mare. E ancora oggi non mi spiego come mai non lo feci. Forse, la buonanima di mio nonno, morto nel frattempo, mi tenne una mano sulla testa.
Un paio di giorni dopo, i miei nervi crollarono. La provvidenza fece sì che mi trovasse un giovane marinaio riversa sulla murata. Non riuscivo a trattenere le lacrime. Tentò di aiutarmi, pensando che il mio problema fosse il mal di mare. Gli confidai d’essermi persa e di non riuscire più a trovare mio marito. Raccolse le mie cose e m’accompagnò dal comandante, cui raccontai, non tralasciando alcun particolare, la mia disavventura. M’ascoltò attentamente. Comprese la mia disperazione e m’aiutò, come nessun altro avrebbe potuto fare.
Quel comandante fu la mia salvezza. Gli fui grata e, per i trenta giorni successivi, non mi vergogno a dirlo, fui la sua amante, anche se lui nulla mai pretese da me. Che potevo fare per dimostrargli la mia riconoscenza? L’incontro con un vero uomo, dopo le disavventure subite, mise in subbuglio la mia anima, sicché mi donai completamente, senza riserve. Per lui avrei fatto qualsiasi cosa m’avesse chiesta. Una donna sola, su un bastimento per la Merica, senza un marito, né documenti e senza un soldo, è una nullità, non esiste. Avrebbero potuto uccidermi e nessuno si sarebbe preoccupato della mia assenza. Sarei crepata senza un nome, senza un suffragio e gli unici a ricordarsi di me sarebbero stati i pesci del mare oceano.
Ero una ragazza sola, ma abbastanza intelligente da capire che piangere e disperarsi non sarebbe servito. Ribellarsi, poi, non m’avrebbe giovato. Sarei stata cacciata nella stiva della nave in attesa di essere consegnata a qualche gendarme, sempre che non m’avessero dato in pasto alla ciurma, che avrebbe sfogato sul mio corpo i più bassi istinti. Scelsi di restare con quel gentiluomo. Da subito capii di che pasta era fatto. Fui rassicurata dal suo sguardo dolce e comprensivo, che gli inondava il viso. Fu un caro amico e un dolce amante, paziente e sensibile. Per tutto il viaggio mi fu assegnata una cabina lussuosa, piena da comodità e d’ogni ben di Dio. Indossavo vestiti pregiati e provai il piacere d’una vasca da bagno, grande e bianca, come la neve, ricca di saponi e profumi. Poco dopo ricevetti la visita di una parrucchiera, che mi liberò della vecchia treccia, ruvida come la rista, e mi acconciò i capelli in una cascata di seta frusciante. La mia unica penitenza fu dover restare all’interno della cabina durante il giorno. Fu necessario. Il comandante è sempre stato educato e paziente. Entrai nel suo letto senza imposizioni: lo desideravo.
Un paio di giorni prima di sbarcare, egli bussò alla cabina. Entrò, tenendo in mano un libricino. Sedette al mio fianco e, dopo avermi tranquillizzata, mi chiese di scegliere se tornarmene al paese o sbarcare a Buenos Ayres. Là, forse, potevo iniziare una nuova vita. Fu l’odio che nutrivo per Giovanni Berbora a scegliere, per me, di lasciare la nave. Il capitano mi abbracciò. Negli ultimi due giorni passò più tempo nella mia cabina che sul ponte di comando. Poi, stringendomi, disse: “Hai scelto Buenos Ayres e ora debbo avvertirti. D’ora in poi, Clara non sarà più il tuo nome. Ti chiamerai Teresina Belloni, nata a Cherasco il 23 settembre 1898. E’ il nome di una donna sola, pressappoco della tua età. La poverina è deceduta sulla nave ed è stata sepolta in mare. La sua disgrazia sarà la tua fortuna. Ora andrò nell’ufficio a compilare l’atto di morte di Clara Prindo nata a Camerana il 2 agosto 1901. Da questo momento, perciò, tu sarai Teresina: Teresina Belloni. A quelle parole, un brivido mi percorse il filo della schiena e capii a quale rischio si sottopose quel capitano, rinnovando la mia identità. Se ne avessero avuto notizia, per lui sarebbe stata la fine. Superai le molte difficoltà, sorretta dall’odio che provavo per Gioanin. T’assicuro, però, nonostante sia passato tanto tempo, lo rifarei.”
“ Incredibile!” Esclamò Joanot. “ E’ una storia disgraziata e davvero incredibile. Neppure la mente più fantasiosa avrebbe potuto inventarla. “
“Oh! Povera me! Che ho mai fatto?” Mormorò, quindi aggiunse: ”Mi raccomando, che nessuno venga a conoscenza di questa storia. Raccontarla è stata un’imprudenza. Ma tu, Joanot, mi ricordi quel capitano. Come lui sei buono e gentile. Neppure Remo sa della mia disgrazia. E’ un brav’uomo, ma s’ubriaca e chiacchiera troppo. Da quando sono qui, ormai, sono vissuta e morirò col nome di Teresina. Clara è sepolta in un gorgo profondo abbastanza del mare oceano.”
Joanot non riuscì a trattenere le lacrime. Teresina gliele asciugò con i suoi capelli di seta.
Joanot, poco dopo, le si rivolse ancora: “Ora che conosco la tua storia, posso raccontare la parte che ancora tu non conosci.”
Raggiunsero la cucina e sedettero al tavolo della colazione.
“Teresina,” riprese Joanot, “L’uomo che tanto ti ha fatto soffrire, non c’è più. Cessò di vivere una buia sera d’inverno, rientrando da uno dei suoi viaggi d’affari. Anche quella volta aveva sprofondato nella disperazione una famiglia di gente poverissima, che aveva cercato in lui la salvezza. Fu la sua ultima vittima. Lo trovarono congelato, con il ventre squarciato e appeso ad un albero con le sue budella. Una morte atroce che, ora capisco, si è cercata per la sua malvagità. Ma la gente del paese non l’ha mica pianto. In chiesa e al cimitero lo accompagnarono soltanto il prete e il beccamorto. I parenti se ne guardarono bene dal porgergli l’ultimo saluto.”
Teresina ebbe un brivido per tutto il corpo, che Joanot percepì tra le mani. Le chiese: “Ti spiace che sia morto?”
“ L’avrei ucciso con le mie stesse mani. Ma devo riconoscere che, in fondo, quell’essere malvagio m’ha aiutata. Se non m’avesse abbandonata sulla nave, non sarei mai riuscita a rifarmi una vita. “
“Giovanni Berbora distrusse anche la mia famiglia. “ Aggiunse Joanot. “Tornò dalla Merica, due anni dopo essere partito, ricco sfondato. Senz’anima iniziò da subito a investire i suoi denari da farabutto. Il suo lavoro era vagare per le Langhe alla ricerca delle famiglie più disperate, ma non per aiutarle a tirarsi fuori dalla miseria. Prestava loro un po’ di denaro a interesse da usuraio. Alla scadenza dei pagamenti, senza pietà, li costringeva a firmare certe carte e, in poco tempo, s’appropriava delle proprietà, lasciandoli disperati nella miseria più nera. Anche mio padre fu usurato da Giovanni Berbora. Morì di crepacuore tre mesi dopo aver strumentato dal Notaio il campo più bello del Belbo. Per la gente delle nostre parti perdere la terra o il ciabot dei vecchi è il disonore più grande. Dopo resta soltanto la morte. Quel Berbora fu tanto odiato dalla nostra gente che lo soprannominò –Caino- . In paese e sulle Langhe, tutti conoscevano il suo malaffare, ma alla fame non si comanda mica! E così, una alla volta, tutte le famiglie più miserabili sono finite nella sua ragnatela. Un signore di Cadibona, di mestiere fabbro carradore, ricevette da lui un prestito. Finì per arrivare a un debito che non poté pagare. Ma, col fabbro di Cadibona, il Berbora non inveì, in cambio si fece costruire una croce di ferro, con incise le sue iniziali “B G”, che, in occasione dei festeggiamenti alla Contrada di Camerana, fece porre sul lato della strada che sale a Gottasecca, poco prima dell’Amnad. All’inaugurazione si tennero grandi festeggiamenti e Berbora offrì a tutti vino e frittelle. La gente diceva: -Berbora s’è pentito, Berbora s’è pentito-. Ma non fu così. Sentendosi protetto dal simbolo cristiano, che aveva fatto innalzare all’Amnad, ritornò ai suoi traffici maledetti con maggiore impegno, fino alla fine dei suoi giorni.”
Ciò detto, Joanot andò all’acquaio e bevve un bicchiere d’acqua. Teresina pervasa dal disgusto per quell’essere, che fu suo marito, esclamò: “Finalmente il maledetto ha trovato la giusta fine.”
“Ma, non è mica finita.” Continuò Joanot. “Una notte, pochi mesi dopo la sua morte, qualcuno salì alla croce per completare la scritta -B G-. E, da quel giorno, la gente che passa sullo stradone per Gottasecca può leggere: B-estia G-rama. Cara Teresina, l’uomo che ti abbandonò sulla nave, derubandoti del denaro, ebbe la giusta punizione: lo spregevole soprannome di Bestia Grama.”
Joanot tacque. Teresina gli scivolò alle spalle e, teneramente, si strinse a lui. Gli accarezzo il viso e baciandolo, mentre le lacrime le solcavano il viso, disse:
“Joanot, aiutami. Tu solo lo puoi. Se tu vorrai, io cesserò d’essere Teresina Belloni e tornerò ad essere Clara Prindo. Sarò di nuovo quella Rina che mio padre, piangendo, accompagnò con la doma alla stazione di Saliceto. Insieme torneremo al paese. Non dovrai più preoccuparti perché, morta Teresina, tutto ciò che possiede è tuo. Joanot, questa Merica è buona solo per i Mericani. Noi emigranti abbiamo un paese ad attenderci e sogniamo di tornare a calpestarne i sentieri. Di quella terra ci è caro ogni fianco di collina, ogni bricco, ogni valle, ogni fondo di ruscello, ogni fonte, ogni gorgo, il profumo dei campi e dei fiori che là sbocciano. Noi emigranti manteniamo scolpiti nel cuore i volti della nostra gente. Impronte che non si cancellano. La terra, che ci ha accolti nel venire al mondo, nessuna lontananza, per quanto ricca e felice, può farcela dimenticare. “
Teresina tacque. Appesa al collo di Joanot, lentamente gli ruotò intorno per sedergli sulle sue ginocchia. Teneramente, cercò le sue labbra, sussurrando: “ E, se vorrai…. Ma, solo se lo vorrai, Rina sarà la tua serventa. Per sempre. E, non dimenticare, aggiunse civettuola, mentre vezzosamente agitò un poco il seno, Rina è più giovane di Teresina. Ha tre anni di meno. “
Joanot, frastornato da tanta tenerezza, compreso, anima e corpo, in quell’incredibile commedia sudamericana, aprì le mani grandi e callose e, mostrandole a Teresina, con voce pacata, ma decisa, semplicemente, concluse:
“ Rina, tu lo sai, Joanot è buono solo a zappare.”
NATALE RUBINO