Luigina e Teresina del Pavaglione raccontano…
“La memoria è l’unica eredità che possiamo garantire loro” Silvia Pio
Era l’ora del Vespro, quel lontano 19 novembre 1944, ma nessuno si era allontanato dal Pavaglione. Le camionette dei soldati tedeschi avevano viaggiato tutta la notte sulla strada del Pavaglione e da San Bovo sparavano verso Castino. Avevano piazzato il cannone sopra un mucchio di pietre del “brichet”, dove oggi c’è la vignetta di San Bovo e proprio lì, sotto quelle pietre si erano nascosti Ernesto e altri del Carmine e dei Tiodi. Vi rimasero tutto il tempo della sparatoria, uscendone miracolosamente indenni. Quel giorno il vento della distruzione era partito da Benevello, dove erano state sequestrate delle ragazze e incendiate diverse abitazioni; era passato, non senza danni, a San Donato e ora correva voce che le colonne di tedeschi erano state viste scendere sui sentieri della collina di Sant’Elena, nel “rian” che la separa da quella di San Bovo, per inseguire un gruppo di ragazzi che, per la paura di essere catturati, erano scappati dalle loro case e si erano rifugiati nel vallone, non potendo prevedere che quella sarebbe diventata una facile trappola, senza via d’uscita.
Altri, quella notte, avevano scelto di nascondersi al Pavaglione, sotto la paglia del “ciabòt ‘d la marmota”, all’imbocco del sentiero che portava ai Baracchi, e lì vi son rimasti per tutto il giorno seguente, scampando al rastrellamento. Ma all’ora del Vespro,quella domenica, la tragedia incombeva sulle borgate dei Baracchi, Giachinot, Cerini e al Pavaglione, dove man mano arrivavano i genitori dei giovani, per capire che cosa stava succedendo. L’aria si fece irrespirabile quando si sentirono chiare le urla disperate che imploravano pietà, seguite di lì a poco dagli spari netti e ripetuti delle mitraglie…Poi più niente. Silenzio. Un silenzio terrificante, foriero di tragedia. Ed ecco che dal “rian”, come dal profondo abisso della barbarie, emersero i militari, si accalcarono nel nostro cortile, entrando in casa come se niente fosse, cercando ristoro alla sete e alla fame, dopo la fatica dell’impresa. Come in un incubo, vedemmo i genitori dei giovani sventurati, che avevano capito al volo la fine che avevano fatto i loro figli, lasciarsi cadere a terra, battere il capo contro il muro e gridare la loro disperazione. Intanto i militari avevano scovato la cantina e ora in cortile stavano tracannandosi il vino, per poi buttare i vetri in giro dappertutto. Nella dispensa trangugiarono i frutti lasciati a conservare sul tavolone, nella stalla chiamarono nostra madre per farsi mungere il latte… Nostro padre aveva raccomandato al nostro fratello di soli quattordici anni, che in quel mentre aveva mal di gola, di rimanere coricato vicino alla stufa, con in mano la carta di identità. Aveva sul tavolino una scodella con acqua e salvia. Un militare prese quella scodella, andò nella stalla e vi fece versare insieme alla salvia il latte munto, bevendolo d’un fiato, come se niente fosse. I ragazzi trucidati nel “rian” erano tutti giovanissimi, tranne Amilcare del Boscasso, che aveva 33 anni ed era sposato. A lui hanno strappato i soldi che aveva in tasca e l’anello nuziale e ora uno di loro lo brandiva sotto il naso di nostra sorella Secondina chiedendole, in un italiano stentato, se era sposata, se avrebbe sposato lui…senza che lei, sbigottita, riuscisse a proferire parola. Intervenne nostro padre a dire che non era sposata, allora il militare le buttò l’anello addosso e declinò l’offerta. Quando i militari se ne andarono lasciarono lì tutto l’orrore che aveva violato la casa, il cortile, i nostri occhi, la nostra anima e che non se ne sarebbe andato, per sempre… A testimonianza di questa inutile barbarie fu edificato il “Pilon del Chiarle” che riporta i nomi delle sette vittime. Fu anche scritto un canto, divulgato dai cantastorie nei mercati dei paesi di Langa:
……
“Sette bravi giovanotti
che da casa son scappati
uno per uno li han fucilati
e poi gettati giù nel burron.
Questo è un fatto pur del vero
chiunque passi in quel sentiero
una lacrima deve versar”
CELESTE ORICCO
Era l’ora del Vespro, quel lontano 19 novembre 1944, ma nessuno si era allontanato dal Pavaglione. Le camionette dei soldati tedeschi avevano viaggiato tutta la notte sulla strada del Pavaglione e da San Bovo sparavano verso Castino. Avevano piazzato il cannone sopra un mucchio di pietre del “brichet”, dove oggi c’è la vignetta di San Bovo e proprio lì, sotto quelle pietre si erano nascosti Ernesto e altri del Carmine e dei Tiodi. Vi rimasero tutto il tempo della sparatoria, uscendone miracolosamente indenni. Quel giorno il vento della distruzione era partito da Benevello, dove erano state sequestrate delle ragazze e incendiate diverse abitazioni; era passato, non senza danni, a San Donato e ora correva voce che le colonne di tedeschi erano state viste scendere sui sentieri della collina di Sant’Elena, nel “rian” che la separa da quella di San Bovo, per inseguire un gruppo di ragazzi che, per la paura di essere catturati, erano scappati dalle loro case e si erano rifugiati nel vallone, non potendo prevedere che quella sarebbe diventata una facile trappola, senza via d’uscita.
Altri, quella notte, avevano scelto di nascondersi al Pavaglione, sotto la paglia del “ciabòt ‘d la marmota”, all’imbocco del sentiero che portava ai Baracchi, e lì vi son rimasti per tutto il giorno seguente, scampando al rastrellamento. Ma all’ora del Vespro,quella domenica, la tragedia incombeva sulle borgate dei Baracchi, Giachinot, Cerini e al Pavaglione, dove man mano arrivavano i genitori dei giovani, per capire che cosa stava succedendo. L’aria si fece irrespirabile quando si sentirono chiare le urla disperate che imploravano pietà, seguite di lì a poco dagli spari netti e ripetuti delle mitraglie…Poi più niente. Silenzio. Un silenzio terrificante, foriero di tragedia. Ed ecco che dal “rian”, come dal profondo abisso della barbarie, emersero i militari, si accalcarono nel nostro cortile, entrando in casa come se niente fosse, cercando ristoro alla sete e alla fame, dopo la fatica dell’impresa. Come in un incubo, vedemmo i genitori dei giovani sventurati, che avevano capito al volo la fine che avevano fatto i loro figli, lasciarsi cadere a terra, battere il capo contro il muro e gridare la loro disperazione. Intanto i militari avevano scovato la cantina e ora in cortile stavano tracannandosi il vino, per poi buttare i vetri in giro dappertutto. Nella dispensa trangugiarono i frutti lasciati a conservare sul tavolone, nella stalla chiamarono nostra madre per farsi mungere il latte… Nostro padre aveva raccomandato al nostro fratello di soli quattordici anni, che in quel mentre aveva mal di gola, di rimanere coricato vicino alla stufa, con in mano la carta di identità. Aveva sul tavolino una scodella con acqua e salvia. Un militare prese quella scodella, andò nella stalla e vi fece versare insieme alla salvia il latte munto, bevendolo d’un fiato, come se niente fosse. I ragazzi trucidati nel “rian” erano tutti giovanissimi, tranne Amilcare del Boscasso, che aveva 33 anni ed era sposato. A lui hanno strappato i soldi che aveva in tasca e l’anello nuziale e ora uno di loro lo brandiva sotto il naso di nostra sorella Secondina chiedendole, in un italiano stentato, se era sposata, se avrebbe sposato lui…senza che lei, sbigottita, riuscisse a proferire parola. Intervenne nostro padre a dire che non era sposata, allora il militare le buttò l’anello addosso e declinò l’offerta. Quando i militari se ne andarono lasciarono lì tutto l’orrore che aveva violato la casa, il cortile, i nostri occhi, la nostra anima e che non se ne sarebbe andato, per sempre… A testimonianza di questa inutile barbarie fu edificato il “Pilon del Chiarle” che riporta i nomi delle sette vittime. Fu anche scritto un canto, divulgato dai cantastorie nei mercati dei paesi di Langa:
……
“Sette bravi giovanotti
che da casa son scappati
uno per uno li han fucilati
e poi gettati giù nel burron.
Questo è un fatto pur del vero
chiunque passi in quel sentiero
una lacrima deve versar”
CELESTE ORICCO