Quell’armadio a muro, nella chiesa di San Bovo
celeste oricco
Luigina e Teresina del Pavaglione raccontano…
Quando noi ragazzine, in occasione delle grandi feste, nel vestibolo della chiesa, aprivamo l’armadio a muro che custodiva i vestiti delle “figlie di Maria”, era come aprire uno scrigno profumato di santità, la porta d’ingresso nel mondo delle creature celesti. Felicemente indossavamo la tunica bianca con ai fianchi la fascia azzurra, raccoglievamo i capelli sotto il velo candido, al collo il nastro di seta con la medaglia della Madonna di Lourdes che si affaccia dalla grotta, nel dipinto della cappella accanto. Le donne sposate, “le umiliate”, si coprivano il capo con un grande velo di pizzo nero, “la spagnola”, e infilavano sul braccio una fascia gialla su cui era cucita una medaglia ovale con l’effigie di Maria. Anche i ragazzi avevano la loro divisa, quelli di San Bovo appartenevano alla compagnia dei “Luigin”, di San Luigi, e portavano una fascia trasversale gialla, azzurra nel rovescio, con lunghe frange. E così eravamo pronti per andare in processione. Per il “Corpus Domini” la piazza davanti alla chiesa era addobbata a festa. Gli uomini avevano piantato pali e teso corde tutto intorno, le donne avevano tirato fuori dal baule il “fardel”, il corredo che le spose custodivano per l’occasione, indispensabile per accedere al matrimonio, che aveva superato l’esame e l’approvazione della futura suocera e alle corde avevano appeso le lenzuola, le federe e gli asciugamani ricamati, i “curpié” bianchi lavorati a “punt festun” che si mettevano sul letto o anche sul tavolo nelle grandi occasioni, e la coperta bianca con le frange, che era stato il regalo della madrina agli sposi. I più piccoli avevano riempito tanti cestini con petali di rose, fiori di robinia e ora si preparavano, nel silenzio rumoroso e festoso, a guidare il corteo liturgico. Finalmente tutti sulla porta della chiesa: i bambini, i giovani, gli adulti, gli uomini che portavano il baldacchino, e il parroco avvolto nel mantello dorato con l’ostensorio dava inizio alla processione con inni sacri e preghiere. I bambini procedevano con lentezza spargendo davanti a loro i fiori che formavano un tappeto di colori profumato per accogliere “nostr Sgnor” e avvolgerlo nell’abbraccio di tutta la creazione. Preghiere, litanie, canti e qualche sosta per la benedizione, poi avanti così, fino a terminare il giro della piazza e rientrare in chiesa, sempre accompagnati dal suono delle campane.
Nei tre giorni precedenti la festa dell’Ascensione, c’era la processione delle Rogazioni, per benedire la campagna e ringraziare il cielo di poter vivere su questa terra povera, bagnata di sudore, ma tanto bella.
Sempre con il vestito della Madonna, partivamo dalla chiesa, cantando le litanie dei Santi, il coro degli uomini alternato a quello delle donne, facendo alcune tappe, dove si piantava una croce di legno e il sacerdote dava la benedizione con l’acqua santa ai prati, ai campi, ai filari, ai noccioleti, pronunciando parole in latino a cui rispondevamo “Te rogamus, audi nos”. Si implorava con fede il Buon Dio di tenere a bada la tempesta e ogni genere di malattia che potesse abbattersi sulle coltivazioni. Ma come fosse possibile che quel “grande occhio” potesse occuparsi di tutti e di tutto, per noi rimaneva un mistero. La nostra fertile immaginazione però una soluzione l’aveva trovata: sarebbero arrivati gli angeli custodi. Se c’era un angelo per ciascuno di noi, che ci aiutava nelle vicende quotidiane, certamente c’erano anche angeli protettori incaricati di prendersi cura di tutte le cose: un angelo per fermare la grandine, uno per mandare la pioggia, un altro per scongiurare le malattie…Sperando che quegli angioletti non si lasciassero distrarre nell’adempimento del loro compito, e a noi sulla tavola non venissero a mancare i doni di madre natura: il pane, la polenta, le patate, le castagne…e l’ uva da vendere al mercato di Alba.
Finita la processione, dopo aver riposto con devozione i vestiti nell’armadio, alzando lo sguardo verso la Madonna di Lourdes, ci sembrava di leggere nei suoi occhi un cenno di gratitudine per averla portata con noi nel pellegrinaggio, sottraendola per un po’al grigiore della grotta, per godersi il tepore, la luce e i colori della primavera.
CELESTE ORICCO
La fotografia di Enrico Necade è tratta dal libro “Posti della Malora”