IL VAlore delle uve di emanuele bella
Stavano seduti a quel tavolo da più di mezz’ora. L’uno di fronte l’altro. Franco aveva i capelli neri, un po’ lunghi e un filo di barba sul mento. La camicia aperta, che lasciava intravedere una catenina d’oro, e i grandi occhiali da sole infilati sulla testa, lo facevano sembrare un attore del cinema dei suoi tempi. Nella manica rivoltata sul bicipite, s’intravvedeva la sagoma di un pacchetto di sigarette. Di fronte a lui stava Beppe, in braghe blu e canottiera di lana. Guardava il fondo del bicchiere quasi vuoto, i pugni contratti e il viso duro e pensoso. Tra di loro stavano vite diverse e più di cinquant’anni. Franco decise di rompere il silenzio che aveva mantenuto sino a quel punto, per non rovinare la trattativa: “Dai Beppe, sono vent’anni che partiamo da Torino per comprare le uve da te. Non mi converrebbe neppure. E in aggiunta quest’anno non sono bellissime. Papà vuole comprarle qui perché è tuo cliente da sempre. Fammi il favore; tira giù sto prezzo”.
Beppe lo sapeva che non erano bellissime, non aveva bisogno che arrivasse quel pelandrone da Torino a farglielo notare; uno che aveva scelto la Fiat alla Langa. Si arrotolò in silenzio una sigaretta, strappando l’avanzo della cartina con i denti e sputandolo ai piedi della pergola. Fissò il ragazzo negli occhi, stringendo con una mano il bicchiere e replicò con aria di sfida: “ Se non sono bellissime come dici tu non comprarle”.
Franco perse la pazienza: ” Ascolta, se fosse stato per me le avrei comprate al mercato a Torino. Là il prezzo è sceso di brutto. Quest’anno il raccolto non è andato bene, il vino non sarà eccezionale e, se proprio devo tirare fuori dei soldi miei e di mio padre, voglio spenderne pochi. Se il vino vale poco valgono poco anche le uve”. Quel reiterare del termine “poco” fu come una bastonata per Beppe. Si guardò attorno, la casa, la 850 verde parcheggiata sotto il portico, la stalla, la legnaia piena. Pensò alla moglie che lo aveva lasciato per un brutto male già da due anni, ai figli lontani che non trascuravano tuttavia di venire a trovarlo la domenica e ad aiutarlo nella vendemmia. Poi si vide nella finestra della stalla, con il viso solcato da troppe rughe e il purilu calcato da una parte. Non ricordava neppure più che faccia doveva aver avuto da giovane. Per saperlo doveva aprire la patente e scrutare quella piccola foto sbiadita in bianco e nero di uno con cui non aveva più nulla a che fare. La soluzione a quella trattativa gli si palesò improvvisamente; chiara, lucida. Tanto che l’averla elaborata lo rese forte e un po’ euforico.
Si voltò deciso a guardare Franco negli occhi. “Ascolta tu che cosa ti dico “Torino”! Stavo pensando al valore delle uve; a quello che gli dai tu e a quello che do io. Sono differenti. Ma non perché tu compri mentre io vendo. Sono differenti perché io nella vigna ci lavoro da più di sessant’anni. Quella vigna lì che adesso ho rifatto, l’ho piantata quando mi sono sposato. Mio padre mi ha dato due bestie, due muni, delle vacche che sembravano dei tori. Con la casa io e Nina buonanima abbiamo comprato per prima cosa una sloira, un aratro. Sai che cosa vuole dire arare una collina con due bestie? Quando le fai partire l’aratro non si pianta. E allora devi tirarlo su. E facendolo ti strappi le braccia. Se entra troppo ti devi buttare di peso per farlo risalire. Le bestie seguivano Nina pian piano e io cercavo di far andare dritto quell’arnese e di tenerlo sempre alla stessa profondità, Quando siamo arrivati in fondo alla caossagna Nina, bella, giovane, sorridente, si è girata a guardarmi con gli occhi innamorati. Avrà detto – Guarda com’è forte il mio uomo, sarà sicuramente capace di mantenere me e i figli che avremo -.
Ero già a pezzi. Le ho sorriso ma dentro ho avuto una di quelle paure…ho pensato – E adesso questa come la mantengo? Le ho dato la mia parola ma io prima di finire sta vigna muoio. La lascio vedova-. A girare tutta la terra ho impiegato due settimane. Un giorno l’aratro ha centrato un nido di scarabrùn. Le vacche sono scappate giù per la discesa; io dalla parte opposta. Buttandosi giù hanno strappato i finimenti e l’aratro si è infilato in un tronco di una Gura mata; così profondo che ho dovuta tagliarla e spaccarla coi cunei. Poi sono partito per Mondovì a far rifare i finimenti e li ho presi a credito perché non avevo i soldi per pagarli. Quando ho finito di arare, io, le bestie e Nina eravamo un mucchio si stanchezza. Sudore, tagli, mosche. La schiena, a forza di stare inclinato da una parte per non camminare nel solco, era piegata in due. Mi sono detto: ” Il grosso è fatto” ma quando ho guardato il pezzo di terra, c’era una distesa di zolle grandi come una televisione che non riuscivi a camminarci in mezzo. E non pioveva, che le avrebbe ammollate un po’. Così sono andato con la moto a quella casa bianca là dall’altra parte delle colline, che era una casa di signori di Alba, e ho chiesto al mezzadro di prestarmi l’erpice. Subito non ha voluto per paura. Poi ha pensato che eravamo sposini novelli e me lo ha dato arrotolato, tra mille raccomandazioni. Non so come ho fatto ad arrivare fin qui con l’erpice di traverso alla lambretta. Sarà stato due quintali. Infine ho fatto su e giù mille volte, con le caviglie che si storcevano a me e alle vacche che non ne potevamo più. Poi ho passato un trave attaccato con due catene per spianare, ho pareggiato tutto con la pala, ed è venuto il momento di piantare i pali. Sai quanti pali c’erano in quella vigna? Duemila. Tutti tagliati, appuntiti e pelati a mano l’inverno prima. E tutti piantati con il palo di ferro. E sai come ho comprato il fil di ferro? Facendo altri debiti.
Nina ha piantatato anche lei le barbatelle. Inginocchiata per terra dieci ore al giorno su un cuscino di juta. Non perdeva mai il sorriso ma la vedevo sempre più stanca. Ogni tanto anche lei si chiedeva se ce l’avremmo fatta ma non me lo diceva. Non ci mancava nulla; avevamo l’orto, le pecore, qualche coniglio. Ma la paura di non riuscire, di non pagare i debiti era sempre lì.
La vigna ha iniziato a fruttare dopo cinque/sei anni. Ogni volta che tempestava pensavo a quello che avrei dovuto dire al direttore della banca. Tutti i maledetti giorni della mia vita, tolta qualche domenica e i funerali, li ho passati nei filari. Sempre lì come un condannato a togliere le foglie malate, a dare il verderame e la poltiglia, a raccogliere l’uva, a potare, a legare. Sono morti i miei, mio suocero, gli amici, i miei figli hanno studiato, hanno trovato lavoro, si sono sposati, hanno avuto i miei nipoti. Persino quando Nina è mancata stavo lavorando e piangendo nella vigna. Non c’è stata buona o cattiva notizia che non siano venuti a dirmela nei filari. E quando c’era da potare e legare, al freddo con il mazzo di gurat attaccato al fianco e quelle forbici… Alla sera non riuscivi neppure più a tenere il cucchiaio in mano per mangiare la minestra. Tagliavo, legavo, e passavo alla pianta dopo. E sai a che cosa pensavo quando potavo e legavo? O quando davo il verderame e la poltiglia? Mi chiedevo se fossi riuscito a pagare la casa, gli studi dei figli, tutti i debiti con il consorzio. Sai quante volte ho avuto paura in quella cristo di vigna?
Bene, adesso la paura è passata. Ho 75 anni e mia moglie mi ha lasciato solo. Mai un giorno di ferie, un viaggio da qualche parte. Sai che cosa ti dico? Ti dico che tu parli di prezzo del vino e delle uve ma il vino, le mie uve non hanno prezzo perché le ho pagate tutta la vita”.
E se ne andò lasciando Franco al tavolo senza alcuna possibilità di ribattere.
EMANUELE BELLA
Foto di Enrico Necade