IL MERCATO DI CUNU
Appariva nei mesi autunnali, verso il tramonto. Discreto e silenzioso come un’ombra, appoggiava il suo valigione in cartone pressato davanti alla porta di casa nostra e bussava circospetto. Io correvo alla finestra, da dove scorgendo l’uscio di casa avvertivo “E’ arrivato Cunu”. Mio padre allora si alzava per invitarlo a entrare.
Qualche volta Cunu si fermava a cena. Attento a non pesare troppo sull’economia famigliare si faceva servire unicamente caffelatte che colmava di pane e poi si tagliava una fettina di formaggio che divideva a pezzetti e colmava di sale. Ringraziava ossequiosamente per la cena, poi rimaneva silenzioso, attento a non infastidire. A tavola io spiavo il suo grosso naso pieno di venuzze rosse simili alle indicazioni stradali nelle cartine geografiche e i suoi baffi bianchissimi. Mi sembrava molto vecchio ed evitavo di avvicinarmi troppo perché il suo alito era pestilenziale.
Dopo cena mio padre mi mandava a chiamare i vicini di casa per celebrare il mercato di Cunu. Cunu stendeva la valigia al centro della cucina e l’apriva con dignitosa lentezza. Ne uscivano specchietti, bottoni, rocchetti di filo, pettini, elastici, cerniere, stringhe, fettucce e un paio d’ombrelli neri che appoggiava sul tavolo. Con una precisione da certosino ragguagliava, nel suo dialetto delle vallate cuneesi, sui prezzi e sui tipi di materiale dei suoi articoli. Noi piccoli giocavamo a estrarre dalle custodie di pelle i pettinini e infilzavamo i bottoni con le pinzette per il bucato.
Cunu informava delle novità dei paesi che visitava, la memoria che riservava per i suoi articoli veniva meno per i nomi delle località e Farigliano diventava Ragliano, Murazzano Murano, Monesiglio Asilio. Conoscevamo questa tara e cercavamo di instradarlo a parlare di paesi, soprattutto quelli con nomi lunghi. Sghignazzavamo divertiti ai suoi errori, Cunu arrossiva poi si lisciava i baffi mortificato. Erano serate mansuete e tiepide come le castagne che cuocevano dentro una grossa pignatta che bolliva sulla stufa.Cunu, infine, intascava monete, le infilava dentro un grosso portafoglio sgualcito, le donne ritiravano bottoni, qualche pinzetta e stringhe marroni. Gli ombrelli rimanevano sempre invenduti e penso arrugginirono insieme a Cunu, dentro i suoi passi di quei giorni autunnali imbevuti di piogge e nebbie. Di notte si fermava a dormire nella stalla. Si costruiva un giaciglio nella paglia e al mattino si svegliava cisposo e arruffato come un animale senza pretese. A colazione inzuppava il pane dentro il caffellatte, io controllavo bene la tazza che usava, perché l’avrei schivata nei giorni successivi temendo di trovarci dentro l’odore nauseante del suo alito. Prima di andarsene, apriva la sua valigia e mi faceva scegliere un oggetto, un regalo, quello che volevo.
Io guardavo a lungo senza decidermi, poi allungavo le mani, se l’articolo che sceglievo era costoso mia madre mi pizzicava allora io dirigevo la mano verso altri oggetti. Quasi sempre finivo per scegliere un pettinino dentro una custodia di finta pelle nera.
Passammo un autunno e poi l’inverno senza rivedere Cunu.
“Sarà morto” disse mia madre “era un brav’uomo, però puzzava.”.
Onorino Giachino
(Illustrazione di Franco Blandino per Margutte)
Appariva nei mesi autunnali, verso il tramonto. Discreto e silenzioso come un’ombra, appoggiava il suo valigione in cartone pressato davanti alla porta di casa nostra e bussava circospetto. Io correvo alla finestra, da dove scorgendo l’uscio di casa avvertivo “E’ arrivato Cunu”. Mio padre allora si alzava per invitarlo a entrare.
Qualche volta Cunu si fermava a cena. Attento a non pesare troppo sull’economia famigliare si faceva servire unicamente caffelatte che colmava di pane e poi si tagliava una fettina di formaggio che divideva a pezzetti e colmava di sale. Ringraziava ossequiosamente per la cena, poi rimaneva silenzioso, attento a non infastidire. A tavola io spiavo il suo grosso naso pieno di venuzze rosse simili alle indicazioni stradali nelle cartine geografiche e i suoi baffi bianchissimi. Mi sembrava molto vecchio ed evitavo di avvicinarmi troppo perché il suo alito era pestilenziale.
Dopo cena mio padre mi mandava a chiamare i vicini di casa per celebrare il mercato di Cunu. Cunu stendeva la valigia al centro della cucina e l’apriva con dignitosa lentezza. Ne uscivano specchietti, bottoni, rocchetti di filo, pettini, elastici, cerniere, stringhe, fettucce e un paio d’ombrelli neri che appoggiava sul tavolo. Con una precisione da certosino ragguagliava, nel suo dialetto delle vallate cuneesi, sui prezzi e sui tipi di materiale dei suoi articoli. Noi piccoli giocavamo a estrarre dalle custodie di pelle i pettinini e infilzavamo i bottoni con le pinzette per il bucato.
Cunu informava delle novità dei paesi che visitava, la memoria che riservava per i suoi articoli veniva meno per i nomi delle località e Farigliano diventava Ragliano, Murazzano Murano, Monesiglio Asilio. Conoscevamo questa tara e cercavamo di instradarlo a parlare di paesi, soprattutto quelli con nomi lunghi. Sghignazzavamo divertiti ai suoi errori, Cunu arrossiva poi si lisciava i baffi mortificato. Erano serate mansuete e tiepide come le castagne che cuocevano dentro una grossa pignatta che bolliva sulla stufa.Cunu, infine, intascava monete, le infilava dentro un grosso portafoglio sgualcito, le donne ritiravano bottoni, qualche pinzetta e stringhe marroni. Gli ombrelli rimanevano sempre invenduti e penso arrugginirono insieme a Cunu, dentro i suoi passi di quei giorni autunnali imbevuti di piogge e nebbie. Di notte si fermava a dormire nella stalla. Si costruiva un giaciglio nella paglia e al mattino si svegliava cisposo e arruffato come un animale senza pretese. A colazione inzuppava il pane dentro il caffellatte, io controllavo bene la tazza che usava, perché l’avrei schivata nei giorni successivi temendo di trovarci dentro l’odore nauseante del suo alito. Prima di andarsene, apriva la sua valigia e mi faceva scegliere un oggetto, un regalo, quello che volevo.
Io guardavo a lungo senza decidermi, poi allungavo le mani, se l’articolo che sceglievo era costoso mia madre mi pizzicava allora io dirigevo la mano verso altri oggetti. Quasi sempre finivo per scegliere un pettinino dentro una custodia di finta pelle nera.
Passammo un autunno e poi l’inverno senza rivedere Cunu.
“Sarà morto” disse mia madre “era un brav’uomo, però puzzava.”.
Onorino Giachino
(Illustrazione di Franco Blandino per Margutte)
STORIA DI PICUL
Il personaggio di PICUL ha accompagnato gli anni della mia infanzia manghese. Ho sempre creduto che fosse uno di quelli che i nonni chiamavano “girulun”; ho scoperto solo anni dopo che non lo era veramente…
Infatti era il figlio di una donna del paese soprannominata Picula; da qui il nomignolo al maschile.
La madre di Picul lavorava a servizio presso una famiglia benestante di Mango; lui viveva con lei e pare che non avesse mai avuto una gran voglia di lavorare.
Quando la madre morì, Picul si vendette ad uno ad uno tutti i bei mobili antichi e gli oggetti di un certo valore che la donna aveva ricevuto negli anni dal suo datore di lavoro. Quando le cose da vendere finirono, e quindi gli introiti, Picul si ridusse a fare il “girulun”…
Così passava da una casa all’altra, offrendo i suoi servigi, e ricevendo in cambio un giaciglio ed un piatto caldo.
Era un omone – o almeno , così lo ricordo – massiccio, con i piedi marcatamente piatti; la carnagione scura ( non so se olivastra o…non lavata), la barba ispida. Ma noi bambini non ne avevamo paura; era una figura ormai familiare.
Quando arrivava a casa nostra, mio nonno Ricu cercava qualche lavoretto da assegnargli; poi la sera andava a prendere un “balòt” di paglia bella nuova nel fienile, la sparpagliava nella stalla ed il letto per Picul era pronto!
Mia nonna Teresina gli portava una bella scodella di minestrone, o di zuppa di cavoli, e lui la mangiava intingendoci il pane, seduto su una “topa” , cioè un tronco d’albero sezionato, come un cilindro, a fungere da seggiolino, in un angolo della stalla.
Un giorno- ed è per me un ricordo doloroso – Picul era dai nostri vicini più prossimi, a passare qualche giornata alla sua solita maniera, quando io, per fare la furbetta di fronte agli altri bambini, cominciai a saltellargli intorno a mò di girotondo, e cantando a tempo di musica: - Picul…Picul!!!
Non ero cattiva, anzi , ero di cuore buono, ma in quel momento, chissà perché, mi sembrò di fare una spiritosaggine.
Lui improvvisamente divenne rosso dalla rabbia, mi agguantò un braccio come una morsa e mi diede due o tre scossoni ben assestati, facendomi male. Mi disse poi imprecando di non permettermi mai più… Io rimasi pietrificata e quella sua reazione mi disse quanto dovessi averlo ferito. Tornai a casa mogia, ripensando all’accaduto. Ancora adesso penso che quegli strattoni siano stati una giusta lezione.
Tempo dopo, una mattina corse voce che Picul si era suicidato; lo avevano trovato impiccato, non ricordo dove. Si vede che era stanco di quella vita disgraziata, e aveva deciso di farla finita.
Sulla sua povera lapide, sempre trascurata, c’era il nome: Giovanni Mainardi.
Ecco: questo era il nome di Picul, con cui avrebbe voluto essere chiamato….e non con il nomignolo cattivo con cui una stupida bambina lo aveva appellato un giorno, per farsi notare dai compagni di gioco.
Quella mancanza mi pesa sul cuore ancora oggi.
Rosy Volta
Il personaggio di PICUL ha accompagnato gli anni della mia infanzia manghese. Ho sempre creduto che fosse uno di quelli che i nonni chiamavano “girulun”; ho scoperto solo anni dopo che non lo era veramente…
Infatti era il figlio di una donna del paese soprannominata Picula; da qui il nomignolo al maschile.
La madre di Picul lavorava a servizio presso una famiglia benestante di Mango; lui viveva con lei e pare che non avesse mai avuto una gran voglia di lavorare.
Quando la madre morì, Picul si vendette ad uno ad uno tutti i bei mobili antichi e gli oggetti di un certo valore che la donna aveva ricevuto negli anni dal suo datore di lavoro. Quando le cose da vendere finirono, e quindi gli introiti, Picul si ridusse a fare il “girulun”…
Così passava da una casa all’altra, offrendo i suoi servigi, e ricevendo in cambio un giaciglio ed un piatto caldo.
Era un omone – o almeno , così lo ricordo – massiccio, con i piedi marcatamente piatti; la carnagione scura ( non so se olivastra o…non lavata), la barba ispida. Ma noi bambini non ne avevamo paura; era una figura ormai familiare.
Quando arrivava a casa nostra, mio nonno Ricu cercava qualche lavoretto da assegnargli; poi la sera andava a prendere un “balòt” di paglia bella nuova nel fienile, la sparpagliava nella stalla ed il letto per Picul era pronto!
Mia nonna Teresina gli portava una bella scodella di minestrone, o di zuppa di cavoli, e lui la mangiava intingendoci il pane, seduto su una “topa” , cioè un tronco d’albero sezionato, come un cilindro, a fungere da seggiolino, in un angolo della stalla.
Un giorno- ed è per me un ricordo doloroso – Picul era dai nostri vicini più prossimi, a passare qualche giornata alla sua solita maniera, quando io, per fare la furbetta di fronte agli altri bambini, cominciai a saltellargli intorno a mò di girotondo, e cantando a tempo di musica: - Picul…Picul!!!
Non ero cattiva, anzi , ero di cuore buono, ma in quel momento, chissà perché, mi sembrò di fare una spiritosaggine.
Lui improvvisamente divenne rosso dalla rabbia, mi agguantò un braccio come una morsa e mi diede due o tre scossoni ben assestati, facendomi male. Mi disse poi imprecando di non permettermi mai più… Io rimasi pietrificata e quella sua reazione mi disse quanto dovessi averlo ferito. Tornai a casa mogia, ripensando all’accaduto. Ancora adesso penso che quegli strattoni siano stati una giusta lezione.
Tempo dopo, una mattina corse voce che Picul si era suicidato; lo avevano trovato impiccato, non ricordo dove. Si vede che era stanco di quella vita disgraziata, e aveva deciso di farla finita.
Sulla sua povera lapide, sempre trascurata, c’era il nome: Giovanni Mainardi.
Ecco: questo era il nome di Picul, con cui avrebbe voluto essere chiamato….e non con il nomignolo cattivo con cui una stupida bambina lo aveva appellato un giorno, per farsi notare dai compagni di gioco.
Quella mancanza mi pesa sul cuore ancora oggi.
Rosy Volta
ER PIZON
Erano le 11 di mattina ed io come al solito ero dietro alla nonna Secondina, quel giorno stavamo impastando patate e farina per fare gli gnocchi, come al solito cercavo di aiutarla con gran d’affare, improvvisamente i cani abbaiarono arrabbiati, significava l’arrivo di qualcuno non conosciuto. I cani sanno abbaiare in modo differente per ogni diversa situazione, già avevo imparato ad interpretarli… Corsi all’uscio incuriosito, nel mentre dietro arrancava la nonna… l’omone era fermo all’inizio della discesa, pa-pa…pa-pa! suonava con la piccola trombetta in ottone ad uso ferroviario. “Ooh! U l’è cul criste der pizòn…” disse
la nonna, indispettita per l’assordante abbaiare dei cani eccitati dalla trombetta. “buondì Antonio! Avn’ì, avn’ì”. L’uomo rispose con una grassa risata e un espressione gutturale a me incomprensibile, ma dal significato inequivocabile di saluto. Portava sulle spalle una grossa Gerla di vimini dalla quale fuoriuscivano diversi attrezzi da falegname: una pialla lunga, una sega con tiranti a corda, un girabacchino, verrine di varie misure, scalpelli e verso il fondo una moltitudini di attrezzi adatti al mestiere di falegname. Indossava dei grossi stivali di cuoio a mezzagamba e pantaloni spessi di velluto marrone, una camicia a quadri sotto un gilè di fustagno scuro, agganciata all’asola una catena che attraversava il petto fino al taschino ove si intravedeva la forma di un orologio da tasca.
Di fronte a casa accanto all’uscio una lunga e larga pietra di roccia fungeva e funge ancora da panca, l’uomo si avvicinò e vi appoggiò la pesante gerla. “Mi porti un po’ d’acqua” urlò! Lo guardavo incuriosito, Allur! Fece un altro urlo per sollecitarmi a far presto. Capii presto che quello era il suo modo di esprimersi… Quell’uomo era originario della Valtellina e faceva la vita vagabonda tra una cascina e l’altra prestando la sua opera di falegname. Da dove l’è chi veni? Chiese la nonna. Da la fin del mond! Hahaha! La grassa risata non mancava mai… Non si poteva mai sapere da dove venisse e dove andasse mentre io ne ero molto incuriosito, il mio mondo finiva dove arrivava l’occhio, non oltre la colline che circondavano la cascina, quindi questa originale presenza era benvenuta, avrei conosciuto molte cose nuove, racconti che non avevo mai sentito.
Qualcuno diceva che aveva una sorella da qualche parte che lo finanziava perché aveva sempre soldi a disposizione, anche se spesso si manteneva lavorando nelle famiglie.
In seguito a questo putiferio il mio fratellino si svegliò mettendosi a strillare nella culla, il compito di badarlo era il mio e della nonna nel mentre i miei lavoravano nei campi, “quel pìccul li al camina?” non ancora, rispose la nonna, “lo fas caminar mi” risponde l’uomo, che aspettava una scusa buona per mettersi al lavoro. Nel pomeriggio lo zio Pietrin gli procurò dei grossi tronchi che l’uomo squartò con precisi tagli di accetta poi utilizzando una grossa tavola come tavolo di lavoro ed iniziò a piallare e modellare il legno facendo montanti e traverse di quello che oggi si potrebbe chiamare un girello. Si trattava di una tavola con foro centrale che scorreva sulle due traverse superiori come fossero binari, al di sotto un piano sul quale appoggiare i piedi ed era regolabile come altezza, all’interno del foro si metteva il bimbo che sgambettando andava avanti e indietro iniziando a rinforzarsi le gambe. Incredibilmente funzionava benissimo senza incastrarsi. Questo dava già il senso della genialità e capacità manuale di questo uomo, vero artista vagabondo.Naturalmente seguii tutte le fasi del lavoro ed imparai molte nuove “bestemmie” che aumentavano verso sera in proporzione al vino ingerito che pregustava con classe lucidandosi gli spessi baffi e la folta barba.
“Non si può lavorar così!” rivolto alla tavola sguscevole sotto la forza delle sue piallate, dobbiamo provvedere… eh padrun! Ed io che ci faccio dice lo zio? Dobbiamo fare un banco come si deve “boia porc’!”
“Devi provvedermi del legno buono, un grosso tronco e poi lo facciamo, per una casa così grande “ghe vol”
E giù il richiamo di qualche santo misto alle solite grasse risate…
Zio Pietrin promise all’uomo di fornire il materiale che serviva per il prossimo giro che avrebbe fatto.
Alla sera per cena ordinò alla nonna di cuocergli sei uova fritte con la pancetta, che mangiò avidamente, in seguito chiese di provvedergli una decina di scatolette di carne simmenthal che consumava un paio alla volta con adeguate peperonate. Io lo guardavo sbalordito, quando la mamma usava la carne in scatola la spargeva su una grossa conca di insalata ed una doveva bastare per tutti noi e lo stesso valeva per il tonno. Non potevo fare a meno di meravigliarmi di tanto companatico… Immancabile il fiasco di vino da 1 litro e mezzo, che specie alla sera per cena nemmeno bastava al suo bisogno.
Dormiva nel fienile e di notte russava così forte che gli animali notturni di sicuro stavano alla larga.
Un mattino quando mi alzai se ne era già andato via senza alcun preavviso e fu un giorno per me mesto, non mi restava che aspettare il prossimo giro per imparare qualche cosa di nuovo sul come trattare il legno.
Luigi Bertorelli
PAPET
E’ vasto il campionario dei “giȓolon “ (girovaghi) o “lingère” che giravano per le colline e le valli di Langa.
Alcuni di essi erano stati “venturini”. Questi bambini, senza famiglia, figli di NN, passati i 10 anni di affido presso famiglie che li avevano allevati dietro un piccolo compenso mensile, o venivano riscattati dalle stesse famiglie ricevendo ancora una piccola somma, oppure finivano restituiti all’Istituto come un pacco in attesa di una adozione definitiva. Se l’adozione non si realizzava o ondava male (qualcuno passò diversi periodi con famiglie diverse), raggiunta la maggiore età erano finalmente liberi di andarsene per il mondo, e così molti emigrarono in Francia (Provenza e Costa Azzurra), terra che si dimostrava più libera, aperta ed accogliente e dava loro più possibilità di fare fortuna.
Alcuni invece rimasero qui, senza casa, senza famiglia, senza mezzi di sostentamento e finirono a fare i “giȓolon “, i girovaghi. Vivevano alla giornata facendo qualche lavoretto qua e la, accontentandosi di due soldi, di un piatto di minestra e di notti passate a dormire nei fienili o nelle stalle, su giacigli improvvisati.
E’ probabile che tra di loro ci fossero anche persone abbandonate dalle famiglie a causa di difetti fisici, o con tare mentali, o soggetti alcolizzati o perfin qualcuno che s’era perso tutto al gioco e per la vergogna aveva abbandonato famiglia e paese d’origine. Ogni posto aveva poi il proprio “scemo del villaggio”, che viveva da solo in qualche ciabòt, con la sola compagnia di qualche cane e che si adattava a fare i lavori più umili, spesso schernito da grandi e piccini quando entrava in paese o quando usciva barcollando dall’ òsto in preda ai fumi dell’alcool, urlando, bestemmiando, correndo dietro alle donne, ma in realtà tollerato in quanto incapace di fare realmente del male.
Uno dei più noti “giȓolon “della Valle Bormida ,negli anni ’20 e ’30, era un certo Papèt, che veniva frequentemente a Gorzegno risalendo ogni tanto anche sulla Langa verso la Niella e Feisoglio.
Papèt, soggetto d’età indefinita, si offriva ogni giorno qua e là per qualche lavoretto, in cambio d’un piatto di minestra o di polenta e bagna, d’altra parte anche se poveri, i langhetti erano tutti ospitali ed era normale a quei tempi aggiungere un posto a tavola.
Eligio, mio padre, racconta di Laurina, sua madre, un giorno di maggio del 1924, quando aveva già partorito gli otto figli (anzi nove, contando quello nato e subito morto). I tre più grandicelli erano tutti già fuori “gistà da sëȓvitó” ma per la casa ne giravano ancora cinque abbastanza piccoli, alcuni ancora attaccati alla sottana, e pertanto lei non riusciva ad aiutare in campagna il suo Vincèns, che doveva quel giorno giusto raccogliere il fieno nel prato di Cian d’Iriva e portarlo via.
L’arrivo improvviso di Papèt fu provvidenziale, si offrì lui di aiutare il Pà a caricare il fieno. Vincens stava sul carro, Papèt infilzava col tridente il fieno e lo caricava. Ma, come sempre dimostrava la sua inettitudine perdendo per aria il fieno mal inforcato e risparpagliandolo tutto per terra. Dopo circa mezzora di questo lavorare a vuoto, Vincens cominciò a cristonare contro Papèt e dette voce a Laurina di venire lei.
Laurina arrivò trafelata, seguita dalla marmaglia, riprese il “tȓent “a Papèt :“ët sèi pròpi ‘n bon a gnente! làssa parde!” e in quattro e quattr’otto caricò tutto il fieno mentre Vincens da sopra lo distribuiva bene sul carro compattandolo coi piedi.
Papèt, tranquillo, “stà sota ‘n busch” intanto si “torciàva” due foglie di tabacco nella cartina, l’insalivava ben bene, poi, sputacchiando soddisfatto, l’accendeva col “sofrin” e aspirava la cicca.
A “mès bòt” se ne stavano tutti e tre a tavola, in quel lontano giorno di maggio, Laurina imboccava i più piccoli, Vincèns guardava fuori dalla finestra: da lontano sembrava minacciasse pioggia, ma il fieno stava ormai sotto il portico. Papèt stravaccato sulla seggiola impagliata vicino al “putagè”, stava quasi per prender sonno e ci sarebbe riuscito, a schiacciarsi quell’immeritato pisolino, non fosse stato per tutti quei “gagno” che gli ronzavano attorno canzonandolo “ Papèt, Papèt…!”
Giampiero Murialdo
Murycylo Vita Intensa Si Papet era famosissimo se mi mettevo una collana vistosa mia nonna mi riprendeva con un :"te smii a papet". La camicia fuori dai pantaloni :ie rivoie papet " quando ero piccola perché io non l ho conosciuto, era l esempio della persona trasandata.
Silvana Vero Ricordo bene Papet. .
Ricordo la sua mano piena di grossi anelli
Arrivava Spesso all' ora di pranzo appena mia mamma lo vedeva ami diceva := vai a salutarlo dallo sedere sulla pietra e chiedi se vuole mangiare =
Quasi sempre rispondeva di si é ricordo che mi diceva = portamelo qui
Altrimenti tuo fratello piange chiel é cit.. . . =
Ma credo che il motivo fosse un' altro infatti quando poi lui andava via mia mamma lavava la panca con l' acqua
Bollente.
Natale Rubino Il tuo racconto, semplice e reale, ricco di contenuto e sottili sentimenti mi piace moltissimo. Ti riesce di trasmettere con grande energia della parola scritta sentimenti radicati nell'intimo delle persone. Ricordo che Qui in alta valle Bormida (non l'ho conosciuto) girovagava per i cascinali un certo Bisulen Tumata. Dicevano che era tanto grasso da non poter indossare un paio di pantaloni. Così girolava vestito di due grembiuli, uno davanti, l'altro dietro. Era indicato ad esempio per coloro che esageravano col cibo sicché dicevano loro : "mangia, mangia te smiji a Bisulen Tumata.
Giancarlo Negro Mi ricordo di Papet! Io avevo quattro, cinque anni.Quando passava mia mamma gli dava un piatto di pasta asciutta o un piatto di minestrone! Però mi faceva stare lontano per paura dei pidocchi che abbonavano sulla sua testa!, poverino!
Francesca Camera Il "puzate" puliva i pozzi in cambio di cibo"garel" suonava il violino e cantava "valencia tut i fioi ca lan parlaie lan calaie giù le braie" veniva a Feisoglio nel periodo della raccolta delle nocciole lui diceva che era il periodo delle pernici perché scuotendo le piante si sentiva lo stesso rumore che facevano le pernici quando si alzavano in volo tutte insieme
Murycylo Vita Intensa Io mi ricordo benissimo del parapiuve `arrivava carico di ombrelli è con una cassetta con gli attrezzi a Tracolla.,passava 2 volte l anno, In cambio di un pasto e il pernottamento nella stalla, aggiustava gli ombrelli di tutta la casa (una volta si aggiustavano anche gli ombrelli). Noi bambini eravamo affascinati da questo personaggio e stavamo a guardare mentre con filo e ago rattoppava ombrelli. Ma guai avvicinarsi il rischio di prendere pidocchi era altissimo, non ricordo bene ma sicuramente ci raccontava delle storie. il Nome non l abbiamo mai saputo per noi era il parapiuve.
Bruna Mascarello Bella la storia di Papet. Penso che ogni paese abbia avuto il suo (o i suoi) Papet. La Morra, negli anni 50/60, tra gli altri, aveva Pasticci, buono e simpatico, che dormiva sotto una tettoia in piazza, raccoglieva pelli di coniglio e, nella stagione propizia, vendeva i "gentilomi", i funghi prataioli buonissimi in "bagna".
Mario Visconti Bel racconto; mi ha risvegliato il ricordo della "lingera" che passava da noi, era mal vestito e sporco, con la barba n'era. I miei gli davano qualcosa da mangiare e lo lasciavano dormire al caldo nella stalla. Mi ricordo anche che una volta erano venuti i "CADRIGHÈ". Erano veneti e si fermarono due giorni ad intagliare le sedie con la raffia che si erano portati. Erano velocissimi e ci costruirono anche delle sedie nuove con legno di gelso che noi padre aveva preparato. Con l'accetta squadravano le gambe ricurve e i listelli di giunzione; erano bravissimi, quattro colpi di accetta e un listello era fatto. Alcune di quelle sedie le ho ancora.'
Cinzia Gallo Ahhh mia mamma se lo ricorda Papet!! E dice che non voleva che lo si chiamasse Papet, si arrabbiava e diceva che si chiamava Stefano, detto Steorino...
Erano le 11 di mattina ed io come al solito ero dietro alla nonna Secondina, quel giorno stavamo impastando patate e farina per fare gli gnocchi, come al solito cercavo di aiutarla con gran d’affare, improvvisamente i cani abbaiarono arrabbiati, significava l’arrivo di qualcuno non conosciuto. I cani sanno abbaiare in modo differente per ogni diversa situazione, già avevo imparato ad interpretarli… Corsi all’uscio incuriosito, nel mentre dietro arrancava la nonna… l’omone era fermo all’inizio della discesa, pa-pa…pa-pa! suonava con la piccola trombetta in ottone ad uso ferroviario. “Ooh! U l’è cul criste der pizòn…” disse
la nonna, indispettita per l’assordante abbaiare dei cani eccitati dalla trombetta. “buondì Antonio! Avn’ì, avn’ì”. L’uomo rispose con una grassa risata e un espressione gutturale a me incomprensibile, ma dal significato inequivocabile di saluto. Portava sulle spalle una grossa Gerla di vimini dalla quale fuoriuscivano diversi attrezzi da falegname: una pialla lunga, una sega con tiranti a corda, un girabacchino, verrine di varie misure, scalpelli e verso il fondo una moltitudini di attrezzi adatti al mestiere di falegname. Indossava dei grossi stivali di cuoio a mezzagamba e pantaloni spessi di velluto marrone, una camicia a quadri sotto un gilè di fustagno scuro, agganciata all’asola una catena che attraversava il petto fino al taschino ove si intravedeva la forma di un orologio da tasca.
Di fronte a casa accanto all’uscio una lunga e larga pietra di roccia fungeva e funge ancora da panca, l’uomo si avvicinò e vi appoggiò la pesante gerla. “Mi porti un po’ d’acqua” urlò! Lo guardavo incuriosito, Allur! Fece un altro urlo per sollecitarmi a far presto. Capii presto che quello era il suo modo di esprimersi… Quell’uomo era originario della Valtellina e faceva la vita vagabonda tra una cascina e l’altra prestando la sua opera di falegname. Da dove l’è chi veni? Chiese la nonna. Da la fin del mond! Hahaha! La grassa risata non mancava mai… Non si poteva mai sapere da dove venisse e dove andasse mentre io ne ero molto incuriosito, il mio mondo finiva dove arrivava l’occhio, non oltre la colline che circondavano la cascina, quindi questa originale presenza era benvenuta, avrei conosciuto molte cose nuove, racconti che non avevo mai sentito.
Qualcuno diceva che aveva una sorella da qualche parte che lo finanziava perché aveva sempre soldi a disposizione, anche se spesso si manteneva lavorando nelle famiglie.
In seguito a questo putiferio il mio fratellino si svegliò mettendosi a strillare nella culla, il compito di badarlo era il mio e della nonna nel mentre i miei lavoravano nei campi, “quel pìccul li al camina?” non ancora, rispose la nonna, “lo fas caminar mi” risponde l’uomo, che aspettava una scusa buona per mettersi al lavoro. Nel pomeriggio lo zio Pietrin gli procurò dei grossi tronchi che l’uomo squartò con precisi tagli di accetta poi utilizzando una grossa tavola come tavolo di lavoro ed iniziò a piallare e modellare il legno facendo montanti e traverse di quello che oggi si potrebbe chiamare un girello. Si trattava di una tavola con foro centrale che scorreva sulle due traverse superiori come fossero binari, al di sotto un piano sul quale appoggiare i piedi ed era regolabile come altezza, all’interno del foro si metteva il bimbo che sgambettando andava avanti e indietro iniziando a rinforzarsi le gambe. Incredibilmente funzionava benissimo senza incastrarsi. Questo dava già il senso della genialità e capacità manuale di questo uomo, vero artista vagabondo.Naturalmente seguii tutte le fasi del lavoro ed imparai molte nuove “bestemmie” che aumentavano verso sera in proporzione al vino ingerito che pregustava con classe lucidandosi gli spessi baffi e la folta barba.
“Non si può lavorar così!” rivolto alla tavola sguscevole sotto la forza delle sue piallate, dobbiamo provvedere… eh padrun! Ed io che ci faccio dice lo zio? Dobbiamo fare un banco come si deve “boia porc’!”
“Devi provvedermi del legno buono, un grosso tronco e poi lo facciamo, per una casa così grande “ghe vol”
E giù il richiamo di qualche santo misto alle solite grasse risate…
Zio Pietrin promise all’uomo di fornire il materiale che serviva per il prossimo giro che avrebbe fatto.
Alla sera per cena ordinò alla nonna di cuocergli sei uova fritte con la pancetta, che mangiò avidamente, in seguito chiese di provvedergli una decina di scatolette di carne simmenthal che consumava un paio alla volta con adeguate peperonate. Io lo guardavo sbalordito, quando la mamma usava la carne in scatola la spargeva su una grossa conca di insalata ed una doveva bastare per tutti noi e lo stesso valeva per il tonno. Non potevo fare a meno di meravigliarmi di tanto companatico… Immancabile il fiasco di vino da 1 litro e mezzo, che specie alla sera per cena nemmeno bastava al suo bisogno.
Dormiva nel fienile e di notte russava così forte che gli animali notturni di sicuro stavano alla larga.
Un mattino quando mi alzai se ne era già andato via senza alcun preavviso e fu un giorno per me mesto, non mi restava che aspettare il prossimo giro per imparare qualche cosa di nuovo sul come trattare il legno.
Luigi Bertorelli
PAPET
E’ vasto il campionario dei “giȓolon “ (girovaghi) o “lingère” che giravano per le colline e le valli di Langa.
Alcuni di essi erano stati “venturini”. Questi bambini, senza famiglia, figli di NN, passati i 10 anni di affido presso famiglie che li avevano allevati dietro un piccolo compenso mensile, o venivano riscattati dalle stesse famiglie ricevendo ancora una piccola somma, oppure finivano restituiti all’Istituto come un pacco in attesa di una adozione definitiva. Se l’adozione non si realizzava o ondava male (qualcuno passò diversi periodi con famiglie diverse), raggiunta la maggiore età erano finalmente liberi di andarsene per il mondo, e così molti emigrarono in Francia (Provenza e Costa Azzurra), terra che si dimostrava più libera, aperta ed accogliente e dava loro più possibilità di fare fortuna.
Alcuni invece rimasero qui, senza casa, senza famiglia, senza mezzi di sostentamento e finirono a fare i “giȓolon “, i girovaghi. Vivevano alla giornata facendo qualche lavoretto qua e la, accontentandosi di due soldi, di un piatto di minestra e di notti passate a dormire nei fienili o nelle stalle, su giacigli improvvisati.
E’ probabile che tra di loro ci fossero anche persone abbandonate dalle famiglie a causa di difetti fisici, o con tare mentali, o soggetti alcolizzati o perfin qualcuno che s’era perso tutto al gioco e per la vergogna aveva abbandonato famiglia e paese d’origine. Ogni posto aveva poi il proprio “scemo del villaggio”, che viveva da solo in qualche ciabòt, con la sola compagnia di qualche cane e che si adattava a fare i lavori più umili, spesso schernito da grandi e piccini quando entrava in paese o quando usciva barcollando dall’ òsto in preda ai fumi dell’alcool, urlando, bestemmiando, correndo dietro alle donne, ma in realtà tollerato in quanto incapace di fare realmente del male.
Uno dei più noti “giȓolon “della Valle Bormida ,negli anni ’20 e ’30, era un certo Papèt, che veniva frequentemente a Gorzegno risalendo ogni tanto anche sulla Langa verso la Niella e Feisoglio.
Papèt, soggetto d’età indefinita, si offriva ogni giorno qua e là per qualche lavoretto, in cambio d’un piatto di minestra o di polenta e bagna, d’altra parte anche se poveri, i langhetti erano tutti ospitali ed era normale a quei tempi aggiungere un posto a tavola.
Eligio, mio padre, racconta di Laurina, sua madre, un giorno di maggio del 1924, quando aveva già partorito gli otto figli (anzi nove, contando quello nato e subito morto). I tre più grandicelli erano tutti già fuori “gistà da sëȓvitó” ma per la casa ne giravano ancora cinque abbastanza piccoli, alcuni ancora attaccati alla sottana, e pertanto lei non riusciva ad aiutare in campagna il suo Vincèns, che doveva quel giorno giusto raccogliere il fieno nel prato di Cian d’Iriva e portarlo via.
L’arrivo improvviso di Papèt fu provvidenziale, si offrì lui di aiutare il Pà a caricare il fieno. Vincens stava sul carro, Papèt infilzava col tridente il fieno e lo caricava. Ma, come sempre dimostrava la sua inettitudine perdendo per aria il fieno mal inforcato e risparpagliandolo tutto per terra. Dopo circa mezzora di questo lavorare a vuoto, Vincens cominciò a cristonare contro Papèt e dette voce a Laurina di venire lei.
Laurina arrivò trafelata, seguita dalla marmaglia, riprese il “tȓent “a Papèt :“ët sèi pròpi ‘n bon a gnente! làssa parde!” e in quattro e quattr’otto caricò tutto il fieno mentre Vincens da sopra lo distribuiva bene sul carro compattandolo coi piedi.
Papèt, tranquillo, “stà sota ‘n busch” intanto si “torciàva” due foglie di tabacco nella cartina, l’insalivava ben bene, poi, sputacchiando soddisfatto, l’accendeva col “sofrin” e aspirava la cicca.
A “mès bòt” se ne stavano tutti e tre a tavola, in quel lontano giorno di maggio, Laurina imboccava i più piccoli, Vincèns guardava fuori dalla finestra: da lontano sembrava minacciasse pioggia, ma il fieno stava ormai sotto il portico. Papèt stravaccato sulla seggiola impagliata vicino al “putagè”, stava quasi per prender sonno e ci sarebbe riuscito, a schiacciarsi quell’immeritato pisolino, non fosse stato per tutti quei “gagno” che gli ronzavano attorno canzonandolo “ Papèt, Papèt…!”
Giampiero Murialdo
Murycylo Vita Intensa Si Papet era famosissimo se mi mettevo una collana vistosa mia nonna mi riprendeva con un :"te smii a papet". La camicia fuori dai pantaloni :ie rivoie papet " quando ero piccola perché io non l ho conosciuto, era l esempio della persona trasandata.
Silvana Vero Ricordo bene Papet. .
Ricordo la sua mano piena di grossi anelli
Arrivava Spesso all' ora di pranzo appena mia mamma lo vedeva ami diceva := vai a salutarlo dallo sedere sulla pietra e chiedi se vuole mangiare =
Quasi sempre rispondeva di si é ricordo che mi diceva = portamelo qui
Altrimenti tuo fratello piange chiel é cit.. . . =
Ma credo che il motivo fosse un' altro infatti quando poi lui andava via mia mamma lavava la panca con l' acqua
Bollente.
Natale Rubino Il tuo racconto, semplice e reale, ricco di contenuto e sottili sentimenti mi piace moltissimo. Ti riesce di trasmettere con grande energia della parola scritta sentimenti radicati nell'intimo delle persone. Ricordo che Qui in alta valle Bormida (non l'ho conosciuto) girovagava per i cascinali un certo Bisulen Tumata. Dicevano che era tanto grasso da non poter indossare un paio di pantaloni. Così girolava vestito di due grembiuli, uno davanti, l'altro dietro. Era indicato ad esempio per coloro che esageravano col cibo sicché dicevano loro : "mangia, mangia te smiji a Bisulen Tumata.
Giancarlo Negro Mi ricordo di Papet! Io avevo quattro, cinque anni.Quando passava mia mamma gli dava un piatto di pasta asciutta o un piatto di minestrone! Però mi faceva stare lontano per paura dei pidocchi che abbonavano sulla sua testa!, poverino!
Francesca Camera Il "puzate" puliva i pozzi in cambio di cibo"garel" suonava il violino e cantava "valencia tut i fioi ca lan parlaie lan calaie giù le braie" veniva a Feisoglio nel periodo della raccolta delle nocciole lui diceva che era il periodo delle pernici perché scuotendo le piante si sentiva lo stesso rumore che facevano le pernici quando si alzavano in volo tutte insieme
Murycylo Vita Intensa Io mi ricordo benissimo del parapiuve `arrivava carico di ombrelli è con una cassetta con gli attrezzi a Tracolla.,passava 2 volte l anno, In cambio di un pasto e il pernottamento nella stalla, aggiustava gli ombrelli di tutta la casa (una volta si aggiustavano anche gli ombrelli). Noi bambini eravamo affascinati da questo personaggio e stavamo a guardare mentre con filo e ago rattoppava ombrelli. Ma guai avvicinarsi il rischio di prendere pidocchi era altissimo, non ricordo bene ma sicuramente ci raccontava delle storie. il Nome non l abbiamo mai saputo per noi era il parapiuve.
Bruna Mascarello Bella la storia di Papet. Penso che ogni paese abbia avuto il suo (o i suoi) Papet. La Morra, negli anni 50/60, tra gli altri, aveva Pasticci, buono e simpatico, che dormiva sotto una tettoia in piazza, raccoglieva pelli di coniglio e, nella stagione propizia, vendeva i "gentilomi", i funghi prataioli buonissimi in "bagna".
Mario Visconti Bel racconto; mi ha risvegliato il ricordo della "lingera" che passava da noi, era mal vestito e sporco, con la barba n'era. I miei gli davano qualcosa da mangiare e lo lasciavano dormire al caldo nella stalla. Mi ricordo anche che una volta erano venuti i "CADRIGHÈ". Erano veneti e si fermarono due giorni ad intagliare le sedie con la raffia che si erano portati. Erano velocissimi e ci costruirono anche delle sedie nuove con legno di gelso che noi padre aveva preparato. Con l'accetta squadravano le gambe ricurve e i listelli di giunzione; erano bravissimi, quattro colpi di accetta e un listello era fatto. Alcune di quelle sedie le ho ancora.'
Cinzia Gallo Ahhh mia mamma se lo ricorda Papet!! E dice che non voleva che lo si chiamasse Papet, si arrabbiava e diceva che si chiamava Stefano, detto Steorino...