DUE VIGNE IN UNA di emanuele bella
Che stanchezza. Fatemi posare un attimo sta pompa del verderame che non ne posso più. Tutte le sere con la schiena a pezzi. Ho già un braccio più grande dell’altro. Siamo rimasti quelli che giocano a tennis, e noi che diamo il verderame con la pompa a leva, che abbiamo un braccio più grande dell’altro. Adesso butto la giacca per terra e mi riposo un po’ al culo di sto Pumé. Tutte le sante sere, quando non c’è foschia come oggi, resto un attimo a guardare i fiumi che sembrano nastri d’argento e le montagne tutte verdi. Sembra un dipinto che però non è mai uguale. Ora mio cugino Mario spegnerà il cingolino e verrà a sedersi qui vicino a me. Siamo come fratelli io e Mario, meglio che fratelli. Tutti e due abbiamo lavorato trent’anni in fonderia e tutti e due siamo tornati in pensione a casa dei nostri. Fin qui non ci sarebbe niente di strano. Se non che siamo rimasti gli unici in tutta la Langa che fanno andare in comune una vigna, divisa in due, ma che è una sola. Non sono diventato matto o vi sto raccontando una balla. Molti ci prendono in giro; una volta abbiamo persino avuto delle rogne con lo Stato. I finanzieri e la Forestale non riuscivano a capire come mai la vigna fosse divisa in due tra due proprietari che lavoravano insieme e dividevano spese e guadagni. Il maresciallo della Forestale pensava che fossimo due comunisti convinti e così, non perché non voglio essere comunista, solo per chiarezza, gli ho raccontato sta storia che adesso racconto anche a voi. Ormai siamo rimasti in pochi a sapere la cunta di questa vigna unica con due meli, uno in alto e uno in basso, dove la riva cade giù dalle rocche di tufo. Per due punti si sa, passa una sola retta. E la retta ideale che unisce ste due piante, divide in due i filari. A sinistra la mia vigna; a destra quella di mio cugino. Quando siamo tornati tutti e due dal militare, mio zio era mancato da poco tempo per un infarto. Papà aveva voluto ritirarsi un po’ e lasciare a noi l’iniziativa. Non era anziano e le forze non gli mancavano. Voleva solo che la generazione dopo prendesse coraggio. Sapeva quanto il lavoro in fabbrica fosse massacrante; ma ci conosceva ed era sicuro che nessuno di noi due avrebbe rinunciato a far andare la campagna. Noi giovani andavamo d’accordo. Solo che tante volte discutevamo un po’ su certi lavori. Io volevo dare il sulfu e Mario no. Lui voleva fresare l’erba e io volevo falciare. In generale, dopo una bella discussione, ci tenevamo ognuno le proprie idee e facevamo nel nostro pezzo come volevamo. L’unico problema si presentava quando dovevi sapere dove fermarti. Non riuscivi mai a capire dove finivano le tue viti e dove cominciavano quelle dell’altra famiglia. E la stessa storia si presentava quando c’era da raccogliere e da potare. Un giorno siamo andati da mio padre e, con le buone maniere, gli abbiamo chiesto se non potevamo finalmente dividere in due la vigna. Lui è scoppiato a ridere. Stava seduto dove sono seduto io adesso; me lo ricordo come se fosse qui. ” La vigna è già divisa a metà. Il confine va da questo pumé qui a quello laggiù sotto”. Non lo avevamo mai notato. Mentre guardava il fondo valle ci raccontò una storia che non avevamo mai sentito.
“ Più o meno fin quando io ho avuto vent’anni, le nostre due famiglie non si parlavano. Il nonno di Mario e mio padre non si potevano vedere. S’ignoravano e probabilmente non si ricordavano neppure perché avevano litigato; forse per questioni d’eredità. Se la guardavano e avevano tirato un solco, largo un metro, giù per la vigna, riempiendolo di pietre. Si vedeva persino dalla piana. Io e mio cugino, ci odiavamo. A scuola, nei giochi, fuori da messa e al bar, ogni volta che c’incontravamo, o tiravamo via o ci prendevamo a patèle. Tutte le scuse erano buone. Ogni volta che capitava una rusa, le famiglie prendevano le parti a uno e all’altro, continuando a discutere.
Scoppiò la guerra e il duce, lui che non guardava le discussioni per le vigne, per non fare torti, ci ha fatto partire tutti e due per la Russia; in reggimenti diversi ma tutti e due negli Alpini. Come Alpini pensavamo di andare in montagna. Invece ci hanno messi a tenere le postazioni lungo il Don, su una piana così lunga che questa qui davanti sembra una stanza. Non sto a farvela lunga. Quando è arrivato l’ordine di ripiegare, mi sono incamminato come tutti gli altri. C’era un vento gelido e teso e tutto attorno vedevi solo neve, ghiaccio e nebbia. Andavamo tutti in colonna, in silenzio, gli uni dietro gli altri. Cercavi di farti forza e di mettere un piede davanti all’altro; senza sapere dove saresti arrivato. Faceva freddo. Un freddo e un gelo che non li ho mai più provati. I tedeschi ripiegavano con i camion; noi a piedi. Ogni tanto i Cosacchi ci attaccavano ai fianchi della colonna. All’inizio ci sbandavamo e ci mettevamo al riparo, rispondendo al fuoco alla bellemeglio. Poi sono arrivate la stanchezza e la rassegnazione. Loro sparavano e noi continuavamo a camminare. Tanti, stanchi di soffrire, giravano fuori dalla colonna e s’incamminavano verso le mitragliatrici russe con le mani in tasca. La maggior parte cadeva e congelava lentamente. Quando gli passavi di fianco, nella tormenta, ti chiedevano per favore, con un filo di voce, di ammazzarli. Chi aveva la pistola e le dita per usarla si sparava. Ogni cinque minuti ti arrivava il rumore di uno sparo attutito dalla neve. Gli ufficiali li finivano con la pistola come si faceva con i muli e piangevano. Una notte ci siamo trovati in un piccolo paesino e ci siamo ficcati in un’isba. Poteva tenere una famiglia di cinque persone ed eravamo in cinquanta. C’era odore di piscio e cancrena. Alcuni dormendo urlavano. Avevano le mani nere con le dita che cadevano. Mentre mi scaldavo, mi sono guardato intorno e ho visto in un cantone, illuminato dal fuoco, mio cugino. E quella volta non mi è venuto il cristu; mi si è slargato il cuore. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto come gagnu. Nelle due settimane dopo abbiamo lottato come leoni uno al fianco dell’altro. Quando c’è stata la sacca dei russi siamo riusciti a passare correndo spalla contro spalla, col ’91 inchiodato dal freddo e la baionetta inastata. Ne abbiamo passate delle belle per portare la pelle a casa; ma ci siamo riusciti. E quando siamo arrivati qui, in cascina, non siamo andati né tra i partigiani né tra i fascisti. Ne avevamo le balle piene della guerra. Ci siamo nascosti come giari nelle grotte e nei boschi. Le due famiglie, finalmente unite, ci portavano da mangiare da strumà. Un mattino poi, quando la guerra era finita da poco più di un anno, sono arrivato nella vigna e ho trovato mio cugino, con un mucchio di pali e di fil di ferro. Riempiva il fosso di confine a picco e pala. Aveva già piantato i due meli e stava preparando per giuntare i filari. Non ci siamo detti niente. Nel giro di tre giorni sembrava una vigna unica. Ognuno sapeva qual’era il suo pezzo ma dividevamo fatiche ed entrate. E quando c’era da giuntarci dei soldi lo facevamo tutti e due in ugual misura. Lui un giorno è andato in fiera a Vicoforte, ha comprato il cingolino e io gli ho dato la metà senza fiatare”. Questa è la storia della vigna divisa in due ma in un pezzo solo.
Così anche oggi io, questo noioso di mio cugino Mario, e la sua cagna da trifule, siamo qui a strapparci le balle per qualche brinda di vino buono. E quando è finita la giornata ci sediamo qui, beviamo un bicchiere e discutiamo sui nomi dei paesi e delle montagne. Che quando siamo finalmente d’accordo su un nome, sembra che qualcuno, nella notte, si prenda il piacere di spostarcelo.
EMANUELE BELLA
Foto di Enrico Necade
“ Più o meno fin quando io ho avuto vent’anni, le nostre due famiglie non si parlavano. Il nonno di Mario e mio padre non si potevano vedere. S’ignoravano e probabilmente non si ricordavano neppure perché avevano litigato; forse per questioni d’eredità. Se la guardavano e avevano tirato un solco, largo un metro, giù per la vigna, riempiendolo di pietre. Si vedeva persino dalla piana. Io e mio cugino, ci odiavamo. A scuola, nei giochi, fuori da messa e al bar, ogni volta che c’incontravamo, o tiravamo via o ci prendevamo a patèle. Tutte le scuse erano buone. Ogni volta che capitava una rusa, le famiglie prendevano le parti a uno e all’altro, continuando a discutere.
Scoppiò la guerra e il duce, lui che non guardava le discussioni per le vigne, per non fare torti, ci ha fatto partire tutti e due per la Russia; in reggimenti diversi ma tutti e due negli Alpini. Come Alpini pensavamo di andare in montagna. Invece ci hanno messi a tenere le postazioni lungo il Don, su una piana così lunga che questa qui davanti sembra una stanza. Non sto a farvela lunga. Quando è arrivato l’ordine di ripiegare, mi sono incamminato come tutti gli altri. C’era un vento gelido e teso e tutto attorno vedevi solo neve, ghiaccio e nebbia. Andavamo tutti in colonna, in silenzio, gli uni dietro gli altri. Cercavi di farti forza e di mettere un piede davanti all’altro; senza sapere dove saresti arrivato. Faceva freddo. Un freddo e un gelo che non li ho mai più provati. I tedeschi ripiegavano con i camion; noi a piedi. Ogni tanto i Cosacchi ci attaccavano ai fianchi della colonna. All’inizio ci sbandavamo e ci mettevamo al riparo, rispondendo al fuoco alla bellemeglio. Poi sono arrivate la stanchezza e la rassegnazione. Loro sparavano e noi continuavamo a camminare. Tanti, stanchi di soffrire, giravano fuori dalla colonna e s’incamminavano verso le mitragliatrici russe con le mani in tasca. La maggior parte cadeva e congelava lentamente. Quando gli passavi di fianco, nella tormenta, ti chiedevano per favore, con un filo di voce, di ammazzarli. Chi aveva la pistola e le dita per usarla si sparava. Ogni cinque minuti ti arrivava il rumore di uno sparo attutito dalla neve. Gli ufficiali li finivano con la pistola come si faceva con i muli e piangevano. Una notte ci siamo trovati in un piccolo paesino e ci siamo ficcati in un’isba. Poteva tenere una famiglia di cinque persone ed eravamo in cinquanta. C’era odore di piscio e cancrena. Alcuni dormendo urlavano. Avevano le mani nere con le dita che cadevano. Mentre mi scaldavo, mi sono guardato intorno e ho visto in un cantone, illuminato dal fuoco, mio cugino. E quella volta non mi è venuto il cristu; mi si è slargato il cuore. Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto come gagnu. Nelle due settimane dopo abbiamo lottato come leoni uno al fianco dell’altro. Quando c’è stata la sacca dei russi siamo riusciti a passare correndo spalla contro spalla, col ’91 inchiodato dal freddo e la baionetta inastata. Ne abbiamo passate delle belle per portare la pelle a casa; ma ci siamo riusciti. E quando siamo arrivati qui, in cascina, non siamo andati né tra i partigiani né tra i fascisti. Ne avevamo le balle piene della guerra. Ci siamo nascosti come giari nelle grotte e nei boschi. Le due famiglie, finalmente unite, ci portavano da mangiare da strumà. Un mattino poi, quando la guerra era finita da poco più di un anno, sono arrivato nella vigna e ho trovato mio cugino, con un mucchio di pali e di fil di ferro. Riempiva il fosso di confine a picco e pala. Aveva già piantato i due meli e stava preparando per giuntare i filari. Non ci siamo detti niente. Nel giro di tre giorni sembrava una vigna unica. Ognuno sapeva qual’era il suo pezzo ma dividevamo fatiche ed entrate. E quando c’era da giuntarci dei soldi lo facevamo tutti e due in ugual misura. Lui un giorno è andato in fiera a Vicoforte, ha comprato il cingolino e io gli ho dato la metà senza fiatare”. Questa è la storia della vigna divisa in due ma in un pezzo solo.
Così anche oggi io, questo noioso di mio cugino Mario, e la sua cagna da trifule, siamo qui a strapparci le balle per qualche brinda di vino buono. E quando è finita la giornata ci sediamo qui, beviamo un bicchiere e discutiamo sui nomi dei paesi e delle montagne. Che quando siamo finalmente d’accordo su un nome, sembra che qualcuno, nella notte, si prenda il piacere di spostarcelo.
EMANUELE BELLA
Foto di Enrico Necade