1958: Festa dell'immacolata DI giampiero murialdo
Dopo una breve nevicata, un dicembre freddo e secco era calato dalla cresta della Langa sul fondovalle, ora spazzato violentemente dalla tramontana. Il ventaccio soffiava a folate impetuose e sibilava tra l’assito di castagno del balcone.
La luce era rapidamente calata col crepuscolo e Tonio, davanti alla stalla, bestemmiava, curvo, reggendo due secchi d’acqua per le bestie che muggivano per la fame e la sete. Con la cicca spenta, tra le labbra spaccate dal freddo, i geloni alle dita che facevano un male della madonna, governò vacca e vitello, poi dette un calcio alla porta. La cucina lo accolse, fredda ed ostile, col suo tanfo d’umidità, di topi e di sporcizia incrostata dagli anni. Si trascinò con passi pesanti fino al lavandino sotto la finestra e accese la lampada ad acetilene. Nella fioca luce scrutò la parete di fronte, dove stava appesa la vecchia doppietta del padre, caricata e pronta per sparare alle volpi che gli svuotavano il pollaio. Il pavimento era infangato e disseminato di cicche: l’ultima volta l’aveva spazzato sua madre ed erano passati già due anni da quando la polmonite fulminante se l’era portata via, dopo soli quattro giorni di letto. Il medico Buscati, chiamato all’ultimo momento, era giunto nell’aia con la sua Fiat Topolino, entrato velocemente in casa e chinandosi sul letto, le aveva visto gli occhi febbricitanti e le guance accese mentre il resto, dalle gambe in giù, era già gonfio e freddo. I polmoni erano pieni d’acqua, il polso appena si sentiva e Pina tossiva debolmente, rantolando gli ultimi fiati. Sembrava volesse dire ancora qualcosa a Tonio ma forse era solo l’ultima Avemaria. “Chiamate il parroco, che la benedica, per me non c’è più niente da fare”.
Tonio gettò sul sofà il berretto che mascherava una calvizie ormai avanzata, si fregò energicamente le sopracciglia, folte come le fascine accatastate sotto il portico, tirò su col naso ed andò ad attizzare la brace della stufa. Pensava che, a 43 anni, doveva finalmente decidersi a parlare con la Rina, sennò la solitudine l’avrebbe reso proprio un orso, e che una donna ci vuole per forza in una casa, non si può star senza, se non altro per il mangiare, lavare, tenere un po’ pulito , anche togliersi le voglie quando vengono, senza dover correre al casino di Cortemilia, che d’altra parte hanno appena chiuso, bagascia di una Merlin.
Ma bisogna pigliarsi una donna delle nostre parti, che ti aiuti nei campi e nella stalla, allevi i polli, le galline, i conigli, fili la lana, parli poco, lavori e se è timorata di Dio, si lasci comandare dall’uomo.
Tonio si fece scaldare il minestrone. Lo sentiva già un po’ acido ma gli affettò sopra una cipolla, ingurgitò tutto rapidamente intingendoci dentro un pezzo di pane e toma, poi s’alzò, infilò il pastrano e scese per la Tagliata, sulla strada che portava al Villar, pensando che qualche bicchiere di vino all’osteria, ci voleva prima d’affrontare la notte. E poi, voleva vedere la Rina.
Era lunedì 8 dicembre, festa dell’Immacolata, e all’uscita da Vespro, nonostante Don Moneda avesse, come sempre, concluso le orazioni invitando tutti a tornarsene a casa, gli uomini s’infilarono invece in massa all’osteria della Barra di Ferro, e tra il fumo e il chiasso avrebbero tirato fino a tardi bevendo, mangiando e giocando a tresette o “marché o re”.
Le due grosse stufe erano arroventate, una a lato del bancone bar, nel salone principale, ben illuminato dalla luce elettrica, l’altra nella saletta da gioco, poco discosto, dove faceva così caldo che se ne stavano tutti in maniche di camicia. Giacomo, il padrone, un uomo sulla settantina, baffuto, corpulento, occhi porcini, naso rosso e deforme, stava al bancone tenendo d’occhio la cassa, mentre la moglie Maria, secca, alta e severa, con i capelli ormai grigi raccolti a crocchia, tirava la pasta, silenziosa, nella cucina sul retro, che fungeva da pastino e forno.
Rina, la cameriera, di bella corporatura, brunetta ricciolina, con gli occhi neri e luminosi, con la grazia ed il sorriso contagioso cha la distingueva, correva avanti e indietro per le consegne e le ordinazioni, tra le battute, anche pesanti, degli avventori, alcuni già su di giri per l’alcol e la febbre del gioco.
Gepo di Pìn era andato in giro a dire ch’era una smorfiosa, la Rina, perché sembrava li scherzasse troppo o li volesse provocare, gli uomini, ma non era vero, lei di natura, era proprio così, affabile e spiritosa con tutti ma sempre irreprensibile, seria, attenta e precisa. Ma aveva già 34 anni, tota Rina , ed un giorno o l’altro, se non stava attenta, qualcuno si sarebbe montato la testa e qualcos’altro per lei e magari sarebbe successo il patatràc.
Rina e il fratello Carlìn erano rimasti orfani di entrambi i genitori, lei a 18 anni, lui a 23 . Il vecchio, Remo della Valle, se l’era portato via un attacco d’ipocondria e s’era gettato in un gorgo di Bormida, sotto Prunetto; la mamma Rosa, ch’era una santa, l’aveva consunta la tisi e ridotta a un lumicino, spentosi pochi mesi dopo, sotto il ramo dell’ulivo benedetto la Domenica delle Palme ed inchiodato sul letto, sotto l’effige del Sacro Cuore di Gesù.
Erano seguiti tempi grami: Carlìn governava le due povere bestie della stalla e lavorava come un matto le quattro giornate di terra, giù, vicino a Bormida, che rendevano poco ma almeno ci tirava fuori le patate, il grano e un po’ di mais, per passare l’inverno.
Rina, di carattere vivace e intelligente, prima s’era aggiustata da serva per un anno, a Torino, da Madama Tina Mombracco, una ricca, vecchia, antipatica aguzzina . Alle prime rimostranze della ragazza, che non sopportava angherie, Rina era stata rispedita al paese.
Col parere contrario di Don Moneda, che invece meditava di prendersela come perpetua - con la dovuta dispensa del Vescovo, beninteso, data la troppo giovane età - Rina era prima finita a lavorare da barista alla Corona Grossa di Cortemilia, poi, stanca di star troppo lontana dal fratello, s’era trasferita all’Osteria della Barra di Ferro del Villar. Qui, anche se la paga era poca, si trovava più a suo agio, al sicuro, tra gente conosciuta, benvoluta dai padroni. Giacomo e Maria, senza figli, vedevano in lei la gallina dalle uova d’oro: la sua presenza nell’osteria aveva per lo meno raddoppiato la clientela. Era stata proprio per la sua insistenza che Giacomo aveva acconsentito all’idea di piazzare all’osteria il primo televisore della borgata.
Ora il Philips a ventun pollici troneggiava sulla mensola, in alto, a fianco della radio, all’altezza delle targhe metalliche dello Strega e del Vermouth Martini. Sulla parete di fronte, la grossa specchiera rettangolare, inclinata, rifletteva le immagini sfarfallanti del TV in modo tale che da tutte e due le sale gli avventori potessero seguire le teletramissioni.
La sera del giovedì, c’era “Lascia o raddoppia” ed il locale si riempiva come un uovo perché scendevano al Villar da tutte le borgate, anche quelle più in alto, dalla Curma e dal Bric del Gallo, per vedere quel fenomeno di Mike Bongiorno col notaio ed i signori concorrenti.
Quando Tonio irruppe nel locale, lo sbalzo termico gli provocò come una specie di stordimento e quasi inciampò nella ragazza che proprio in quel momento stava portando un cabarèt con quattro caffè al tavolo dove Carlìn della Valle, fratello di Rina e i tre cugini Mori dei Pradonne giocavano a carte.
“È entrato l’orso, scappa veloce, Rina!” – sghignazzò Remo di Mori alla volta di Tonio. Rina invece timidamente si volse e gli sorrise. Tonio dentro si sentiva gelato ma le guance erano infuocate , gli occhi fiammeggiavano e avrebbe lì per lì spaccato la testa a quello sbruffone, lo stesso che due giorni prima, mezzo ciucco, aveva cercato di metter le mani addosso alla Rina e di baciarla. Ma lei s’era scostata gli aveva prontamente afferrato e ritorto un orecchio facendolo desistere ed urlare di fronte a tutti. Pensò quanto forte e imperturbabile fosse la Rina, sapeva badare a se stessa e farsi rispettare ma un po’ smorfiosa lo sembrava, un po’ forse veramente se la cercava ...
Tonio ordinò a Giacomo e si fece portare un pintone di vino. Sedette al tavolino nell’angolo più appartato , spalle al muro un po’ scrostato e fiorito di salnitro, con lo sguardo perso sulla sala satura di fumo ed odori.
Rina aveva servito tutta la sera piatti con l’ insalata russa di Maria e poi tajarin, salumi, toma, accompagnati da vino a volontà. Erano tutti così allegri che il trio Mori prese a cantare in coro le canzoni degli alpini seguito dal resto della cricca. Dopo un po’ Gepo taccò con la fisa: sapeva suonare solo due pezzi e li alternò per tutta la sera senza che i più se ne accorgessero.
Fu alle dieci di sera che Teodoro Martina parcheggiò il suo nuovo e fiammante Leoncino OM davanti all’Osteria della Barra di Ferro. Il campanellino all’ingresso del locale tintinnò e l’omone, con un cappellaccio che pareva il brigante Stella, occupò quasi tutto il vano della porta prima di penetrare nella luce affumicata del salone brulicante d’avventori proprio mentre la fisa di Gepo si prendeva un piccolo riposo. “Teo! Teo!” - Tutti lo reclamavano a gran voce - “Vieniti a sedere qui con noi!”. Teo era un commerciante all’ingrosso di prima classe, il più famoso delle Valli Bormida ed Uzzone, un bell’uomo distinto, affabile, sui sessantacinque anni, con folti baffoni grigi, occhi vivaci ed un naso pronunciato che ben s’accordava alla sua corporatura. Aveva una bella pancia, Teo, gran mangiatore ed affabulatore e gli piaceva concludere gli affari con le gambe sotto il tavolo davanti a qualche cicchetto di grappa. Teo era dedito al commercio, coi due figli , facendo la spola tra la Langa, Dego e un piccolo magazzino a Savona. Passava a scadenza fissa, un giorno della settimana per zona, si fermava nei paesi, nelle borgate, raggiungendo anche le cascine più lontane, per acquistare vino, pollame, uova, conigli, salumi, formaggi, frutta e verdura che avrebbe poi smerciato all’ingrosso nei mercati di Monesiglio, Millesimo, Cairo fino a Savona. A sua volta rivendeva in Langa i prodotti liguri: olio, acciughe, agrumi, sapone e qualche articolo per la casa. Tutti sapevano che Teo aveva fatto fortuna negli anni della guerra e nel dopoguerra, col mercato nero. Dicono si fosse messo anche nei pasticci per qualche traffico parecchio illegale. Ma adesso s’era messo quasi in regola anche se qualche stecca di sigarette americane, su ordinazione, la procurava ancora di nascosto. A Teo si perdonava tutto perché era simpatico, un tipo giusto, onesto coi langhetti e non aveva mai bidonato nessuno. Segnava sul libretto se qualcuno non poteva pagare e certi piccoli debiti faceva finta di dimenticarsi di riscuoterli. Ai più disperati regalava sempre qualcosa.
Teodoro, col suo corpaccione, facendo spostare le sedie, passò tavolo per tavolo a salutare: abbracci e pacche sulle spalle a tutti, prendendo perfino qualche ordinazione... Ma era con Rina che voleva parlare: la vide che arrivava trafelata dalla cantina portando due fiaschi di vino e tre robiole di Vesime e le andò incontro.
Il volto della ragazza s’accese alla vista di Teo ed una piccola ruga di preoccupazione le si formò sulla fronte. “Rina, dài che ci siamo, a Savona, in Via della Quadra Bassa, poco discosto dalla Torre del Brandale, c’è da rilevare un Bar già ben avviato, al Porto Vecchio. Me lo cedono per quindici milioni ed è un affare, pago io a rate e tu saresti perfetta a farlo andare. A Savona siamo nel boom, si fa la lira se uno è intraprendente, e senza rischiare perché un fermento economico così non c’è mai stato. È la volta buona che ti togli da questo buco e ti trasferisci in riviera: una come te sarebbe perfetta, lavori bene e con passione, sai il fatto tuo, come si tratta la gente, ti fai rispettare . I soldi li anticipo tutti io, poi, se vuoi rilevare una parte e diventare socia, mi farebbe piacere. Mio figlio Giorgio, che ha studiato da ragioniere, può aiutarti per la contabilità e puoi portare con te anche tuo fratello Carlìn, gli ho già parlato, può darti una mano: cosa sta anche lui a far la fame in questo buco lungo Bormida?”.
Rina era stata ad ascoltare abbozzando solo qualche “si” o qualche “ma”, poi si riavviò i capelli e disse solo “Sei sicuro? Devo pensarci bene a decidermi, devo parlare a Carlìn e coi padroni e poi, chissà cosa diranno Don Moneda e la gente del posto?”
Poco distante dai due, Tonio li spiava cercando d’ascoltare e di leggere le parole sulla labbra di Teo perché nell’osteria il frastuono era troppo e la fisa di Gepo gemeva sovrastando tutto. La tresca tra Teo e Rina l’aveva già sospettata: lui gli sembrava troppo affabile con la ragazza quando ogni martedì arrivava alla Valle col motocarro, a ritirar la mercanzia. Li aveva già visti, da nascosto, parlare fitto fitto: Teo scherzava, Rina un po’ stava seria, un po’ sorrideva. Quel bastardo era pieno di soldi, sposato con due figli ma di sicuro era un porco e magari non perdeva l’occasione di saltare le femmine di due Valli intere e di mezza Savona .
Per il vino e la rabbia sentì il cuore battere all’impazzata. Che venisse a fare il furbo con Rina, il bastardo! Rina no, pensava, Rina è sul mio terreno di caccia e lui me la vuol portar via! Pensieri via via più cupi gli giravano per la testa mentre finiva il suo pintone e arrotolava un’altra sigaretta.
Tese l’orecchio al tavolo dei cugini Mori che adesso prendevano in giro Carlìn “Non puoi andar via a Savona con tua sorella: non sai nemmeno dire due parole in italiano!” Allora il suo sospetto divenne certezza.
Un crampo allo stomaco lo prese mentre la nausea saliva: s’alzò dal suo angolo, avanzò, gettò cento lire sul bancone ed uscì nella notte sbattendo la porta. Pochi lo notarono: Tonio era un tipo strano, solitario e di poche parole. Ma si faceva i suoi affari, in fondo non aveva mai rotto le balle a nessuno.
In piazza il gelo era terribile sotto un cielo trapuntato di stelle: una di queste lucentissima e azzurrina, sembrava pulsare proprio sopra il camposanto. Tonio corse casa, barcollando, staccò la doppietta dal muro ed uscì nuovamente nella notte.
Proprio a quell’ora nell’osteria, Giacomo, dopo aver contato quante lire c’erano in cassa, ebbe l’idea di offrire ancora una bella bagna cauda alla truppa. Aveva giusto ancora dei cardi gobbi di prima qualità, bianchi, teneri , un bel mazzo d’aglio e una latta d’acciughe sotto sale.
Quasi tutti aderirono: la baldoria sarebbe continuata per chissà ancora quante ore, forse per tutta la notte, con Gepo che continuava a darci dentro con la fisarmonica.
Ma Rina era ormai stanchissima; aveva iniziato il lavoro al mattino presto, subito dopo la messa prima, e l’indomani, per le otto, doveva di nuovo essere pronta a caricare il camioncino di Teo con la mercanzia della Valle e dei dintorni. Maria colse lo smarrimento della ragazza: “Sta’ tranquilla, io m’arrangio, tu rientra a casa a dormire, anche se tuo fratello Carlìn vuol continuare a star qui all’osteria, Teo m’ha detto che può accompagnarti un momento col motocarro. Lui deve poi ripartire subito per Camerana e domattina torna qui per i suoi affari. Tranquilla: dieci minuti e sarai a letto a riposarti”.
Alle unici e mezza di sera circa, Teo salutò cordialmente tutti, alzando le mani. “Ciao ciao! Arrivederci e buonanotte a tutti, spero di non trovare troppo ghiaccio sulla strada!”.
Uscirono, l’uomo e la ragazza, lei con una sciarpa attorno al collo e avvolta in un pesante cappotto nero. Teo aprì la porta della cabina del camion e Rina, salì a fatica, data l’altezza del predellino.
Il rombo del motore, partito al primo colpo, sovrastava tutto, così che non si parlarono, nel brevissimo tragitto verso la borgata della Valle. Al fondo della discesa lo stradone improvvisamente curvava sul ponte di Viralabà ed i freni stridettero. Il Leoncino sbandò sul ghiaietto, ma di poco, e si fermò cento metri dopo, davanti alla casa; il cortile era buio ed una sola fioca lampadina stava accesa sul portoncino d’ingresso.
“Ciao Rina, buonanotte, pensaci un po’ a cosa t’ho detto. Per gennaio dobbiamo prenderla, una decisione. Parlane bene con Carlìn: che venite su tutti e due a Savona ed iniziate una nuova vita.”
Rina sorrise e gli fece solo un cenno di saluto.
Si prese coraggio e scese dal camion: Teo seguì i primi passi della ragazza nel buio, poi chiuse con un colpo forte la portiera. Il Leoncino fece inversione in due manovre col motore su di giri, poi, gagliardo, schizzò su per la salita. Il giorno dopo Teo giurò di non aver sentito nessun colpo.
Rina fissò un attimo le luci di posizione del camion che si allontanava in salita nella notte. Fece pochi passi verso l’uscio ed iniziò ad armeggiare con la chiave che non voleva entrare nella serratura. Il cane di Battista, nel cortile vicino, intanto prese furiosamente ad abbaiare , con latrati rochi, pieni di paura.
Rina sentiva brividi di freddo e di spavento. Poi, in un attimo, un’ombra venne fuori da sotto il fico a fianco della casa e lei si sentì chiamare: “Rina, Rina!“. Ebbe appena il tempo di girarsi, vide una luce, sentì il colpo, e poi il viso le esplose in un grumo violaceo mentre la testa le si staccava dal collo e sangue, frammenti d’osso e cervello schizzavano sul muro.
Tonio, col fucile in mano, urlò e provò l’orrore più profondo del mondo, iniziò a vomitare, si chinò per terra, afferrò una pietra e si percosse due volte forte sulla fronte. Gemendo poi prese a correre su per la riva, senza girarsi più.
Carlìn rientrò a casa a piedi alle tre del mattino, gonfio di vino e con tanta confusione in testa. Il tronco di Rina giaceva scomposto, prono, sul terreno fiorito di un sangue congelato e scuro come la notte.
Carlìn la vide e pensò di star sognando l’inferno, o che ci fossero le masche e che quella strisciata di sangue rappreso in alto sul muro fosse solo l’osceno dipinto di un’allucinazione. Ma poi capì , prese a singhiozzare disperatamente, le si sedette vicino, la coprì un poco e la vegliò fino all’alba.
Fu Battista, il vicino che partiva presto ogni mattina per prender la corriera della Ferrero al crocevia di Cravanzana, a trovarli: Rina in quello stato, Carlìn quasi assiderato. Dal posto pubblico telefonico del Villar, Battista chiamò i Carabinieri.
Da Cortemilia furono lì alle sette del mattino per i rilievi, attorniati da tutta la gente della Valle accorsa a vedere. Rina dopo un’ora era già finita nella bara all’obitorio del cimitero. Alle otto e un quarto si sentì il claxon del Leoncino annunciare il suo arrivo. Teo scorse già da lontano un capannello di gente agitarsi nel cortile e qualcuno che si prendeva la testa tra le mani.
All’alt del maresciallo Teo inchiodò, il tempo di scendere dal mezzo che si trovò ammanettato. Lui, grande e grosso, lo videro che tremava e piangeva. Lo arrestarono all’istante e stette sette giorni nel carcere di Acqui.
Tonio intanto nessuno l’aveva più visto dalla sera prima e la cosa era sospetta, così iniziarono a cercarlo i Carabinieri, con una squadra degli uomini della Valle.
La voce si sparse ed bambini della frazione, terrorizzati dai genitori, furono costretti a chiudersi in casa per tutto il giorno.
Tonio aveva passato la notte vagando nei boschi con la disperazione che cresceva di ora in ora.
“Non volevo finisse così e invece l’ho proprio ammazzata, sono proprio un disgraziato”. Voleva punirsi ma non sapeva come finirla, se gettarsi nel pozzo, impiccarsi o spararsi. Scese nel rittano, il rio era ghiacciato, risalì dall’altra parte e vide la cinta muraria delle rovine del castello. Si arrampicò sulle pietre e finì sul primo terrazzamento. Poco sopra, coperti dall’edera, nelle prime luci dell’aurora, intravide i pilastri d’arenaria e l’arco d’ingresso del castello con inciso lo stemma dei Del Carretto. Conosceva bene il posto perché ci veniva a giocare da ragazzo. Poco più in là ricordava ci fosse una grossa cisterna. Tonio la raggiunse e si sedette sull’orlo della vasca. Accese una sigaretta e dopo due tiri appena, appoggiò il calcio del fucile a terra e s’infilò la canna in bocca. Sentì che era fredda e aveva un gusto metallico amaro. Tirò il grilletto.
Cadde in dietro riverso nell’acqua, senza annaspare, galleggiando.
Lo ritrovarono mezz’ora dopo appena, qualcuno disse che la sua cicca ancora fumava.
Il maresciallo Carrisi redasse il verbale e dopo l’arrivo del magistrato Vero, anche il corpo di Tonio raggiunse l’obitorio.
Giacevano a fianco, separati solo da un paravento . Compiuta l’ispezione di legge sui due corpi orrendamente sfigurati prima di dare il nulla osta alla sepoltura, Don Moneda benedisse con malagrazia solo il corpo di Rina. Il funerale non fu celebrato, per nessuno dei due.
Teodoro Martina fu liberato dopo una settimana e non tornò mai più alla Valle.
FINE
(Note: questo racconto, ispirato da un fatto di sangue realmente accaduto in un paesino delle Langhe, l’8 dicembre 1958, è frutto di pura invenzione narrativa)
Giampiero Murialdo, 7.01.2018
(Racconto pubblicato sulla Non Rivista Letteraria On Line: http://www.margutte.com/ )